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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: IL NATALE DI ELISA
Genere: Sentimentale, Romantico, Commedia
Rating: Per Tutte le età
Avviso: One Shot
Autore: sawadee galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 01/01/2008 16:04:02

Una giovane docente, una passione mai sopita. Un legame di carne e sangue. Il mio regalo di Natale.
 
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IL NATALE DI ELISA
- Capitolo 1° -

Dopo tanto tempo, scrivo qualcosa di nuovo. Elisa è un mio personaggio che qualcuno di voi conosce già, come Alessia etc. Spero vi piaccia il racconto.


Il Natale di Elisa.


Londra è una città fredda.
Dal punto di vista della temperatura e delle persone.
Algida.
I confini degli oggetti sono come di ghiaccio.
I sentimenti sono come bloccati in una lastra di acqua congelata, in quel freddo che ti blocca il pensiero.
Fa freddo a Londra d’inverno, un freddo che non immaginavo nemmeno esistesse.

Londra è una città grigia.
Anche se è piena di parchi ed è innevata.
Il cielo è plumbeo, anche se le nuvole sono gravide di neve.
Ghiaccio ovunque.
Sono già iniziati i saldi a Londra.
Ed è caduta la neve.
Già sporca per il traffico e l’inquinamento, per quel fumo, fumo di Londra, che tutto pervade, che impregna i capelli, la pelle, i tessuti, gli animali, il Tamigi, le strade, il cielo...

Quattro anni che ci abito.
Il mio secondo Natale qui.
Ancora non riesco a sentire la capitale inglese come casa mia.
A volte penso che sia l’unico posto al mondo dove sarei potuta passare davvero inosservata, anche se all’università non la pensano così.
Non lo so.
A nessuno importa se sia bruna o bionda, come sia vestita, che i miei cappotti siano fuori moda o all’ultimo grido, che giri con le mie cartelle o con le mie borse, che lavoro faccia, la spogliarellista, la barista, la docente universitaria, la commessa o chissà cosa altro.
Potrei essere una serial killer come una santa sotto mentite spoglie.
Potrei essere qualunque cosa, per cui sono il nulla.
Non esisto.
A volte non è male, a volte fa sentire ancora più freddo.

Nessuno nota una ragazza con i boccoli che tiene per mano un bambino e sta andando alla caffetteria della Tate Modern, prima di muoversi verso il parcheggio per prendere la macchina.
Prendo un’insalata per me e un po’ di pasta con una fetta di torta per mio figlio.
La cameriera è gentile.
Sorrido a Juan e gli passo la pasta.
Niente a che vedere con quella che si mangia in Italia o anche più semplicemente quella che faccio io.

Il nostro secondo Natale a Londra.

Il primo è stato l’anno scorso, dovevo terminare di scrivere un saggio e mi serviva di poter usare il mio computer in dipartimento e la mia biblioteca nello studio.
Abbiamo festeggiato nello studio del professore di babilonese, davanti ad una pila di libri su Assurbanipal II, mangiando il mio sformato di pasta e pudding.
La moglie lo aveva sbattuto fuori di casa pochi giorni prima, dopo 38 anni (-Almost 40, dear, almost 40!-) di matrimonio (e 37 di corna). Ha portato il rum e dei dolci per Juan (-I’ve a small nephew of the same age! Lovely!- Tra i due è scoppiato l’amore, non mi stupirò se mio figlio farà l’orientalista…)
Eravamo 9 persone, contando anche Juan, il più piccolo per ovvi motivi, e la lettrice di armeno era la più giovane con i suoi 28 anni.
Ha portato dei dolcini armeni fantastici e della marmellata alla rosa da leccarsi le dita. Ho telefonato nel bel mezzo dell’agape a mio padre per gli auguri e alle amiche più strette.

Mio figlio mi guarda.
Disappunto.
Perché sto giocherellando con una foglia di rucola.
Angioletto, lo so, ma mamma non ha fame, si sta sforzando a mangiare l’insalata, magari se non finisci la torta ne assaggio un pezzo, ma ho lo stomaco chiuso da due giorni.
Lavoro benissimo, questo sì, ma mi è passata fame da due giorni… Ho sempre reagito così.
- Mamma, non puoi giocherellare con il cibo, perché, poi, mangi poco poco. E’ troppo poco.-
- Ho fatto una buona colazione. Al lavoro, prima di venire a prenderti, con il prof. quello simpatico.-
Credo di averlo convinto.
Peccato già che tirare giù un caffè prima di mezzogiorno sia per me un’impresa quasi disperata anche quando non sono nervosa.
- Ma Alessia e nonno vengono davvero per Natale?-
- Certo! Li andiamo a prendere più tardi. –
- Allora perché non li abbiamo aspettati per venire al Tate?-
Goccia di sudore e biascico qualcosa tipo:- Perché, magari, ci torniamo. Oppure venite tu e nonno.-

Punto primo: mio figlio, a 3 anni, dimostra di usare periodi più ipotassici dei miei.
Punto secondo: mio figlio, sempre di anni 3, sa che Alessia sarebbe venuta volentieri alla Tate e che suo nonno adora l’arte contemporanea.
Punto terzo: mio figlio, 3 anni!, riconosce perfettamente i periodi di Mascherini, Burri ed avrebbe voluto vederli con il nonno.
Punto quarto: mio figlio, 3 anni, Cristo santo! 3 anni, da consigli a me, sua madre, su come comportarmi a tavola (e non solo su questo).
Punto quinto: sua madre, di anni 31, voleva assolutamente vedere la mostra di Mascherini e non aveva voglio di aspettare anche solo 24 ore dopo il primo pomeriggio libero.
Punto sesto: sua madre, adulta di 31 anni, quando è nervosa, fuma come una turca, scola caffè a gogo e non riesce ad ingoiare niente di solido. Assolutamente nulla.

- Zia Vale non viene?-
- Vale passa il Natale con la sorella. Però, dopo il 28, andiamo a trovarla in montagna, insieme.-

E’ il suo regalo di Natale.
Juan vuole un gran bene a Valeria, mia migliore amica dai tempi dell’università, che, a dispetto di dichiarazioni contrarie, apprezza moltissimo i bimbi. Con suo marito ha acquistato uno chalet in montagna e ci ospitano dal 28 all’3 di gennaio. A Juan la montagna piace e, sinceramente, mi vedo con Vale che ci lanciamo in pericolose conversazioni sulla condizione femminile (il marito ci guarda scuotendo la testa, facendo finta di nulla. Ormai ci ha riununciato ed è una persona coltissima e deliziosa), leggiamo poesia mistica di ambito islamico ed ascoltiamo musica allegrissima (Requiem etc…), telefonando ed invitando a cena vecchi amici di università.
Mi sa che mi porto dietro il violino, così faccio duetto con il marito.
- Mamma, senti, non vorrei disturbare, ma andiamo? -
- Va bene. Però, finisco la torta.- Provo a mettermene in bocca un cucchiaino, ma lo riesco a deglutire solo a viva forza.
No, non sto affatto bene.
Ho bisogno di una vacanza e di non pensare a vecchie storie. Manca poco, dai, manca poco.
Infilo il cappotto e la sciarpa a Juan e ci avviamo verso la macchina.
Fa troppo freddo.
Troppo.
Mi accendo una sigaretta.
Juan ha il nasino rosso rosso.
Fa freddo e continua a cercare di togliersi la sciarpa.

- Mamma.-
- Dimmi.-
- Ma questo Natale lo posso conoscere babbo?-
- Ha molto lavoro, non so se verrà, anche se lo vorrebbe, ti vuole tanto bene, sai?-
- Ed, allora, perché non viene mai?-
- Perché, a volte, voler bene vuol dire saper rinunciare a tutto, anche a vedere chi vogliamo bene, a fare ciò che faremmo di solito. Però, ti manderà un bel regalo, questo sì.-
Regalo che ho acquistato io stessa due giorni fa niente popo di meno che da Harrod’s.

Un po’difficile spiegare ad un bambino di tre anni che suo padre non sa nemmeno che è nato, dato che mi aveva seriamente consigliato di abortire.
Imposto quasi.
Diciamo anche che non gliel’ho detto per non farlo sentire ricattato o ricattabile, dopo questo exploit, ed anche perché non volevo essere un freno alla sua carriera. Lo conoscevo, una volta accettato che lo tenessi, avrebbe insistito per mantenere me e il bambino a vita (ed avrebbe sicuramente rinunciato alla ricerca. Non so se me lo avrebbe rinfacciato, se sarebbe diventato gelido, ma ammetto che l’ho pensato con terrore solo in un secondo momento. Egoismo vero? Non lo so, però, lo sapevo, lui non era persona per rimanere sposata, aveva la sua carriera da compiere, non stare con una ragazzetta scema come me).

Mio padre mi ha disconosciuta, mia zia ha pianto, mia nonna ha avuto una crisi isterica e il resto della famiglia ha goduto di vedere la super-studiosa incinta (ho discusso il mio phd al terzo mese e detto a casa che ero incinta al quarto, appena avuto un lavoro) senza un compagno o un marito (e nemmeno un fidanzato che era riconosciuto ufficialmente).
Poi, però, le cose si sono aggiustate: le zie sono state buone ed anche quasi tutte le mie cugine hanno capito, mi hanno aiutato.
Non tutto è perfetto: la rabbia di due mie cugine non è stata calmata dalla vittoria di un posto come ricercatrice a Londra, nell’unica università dove c’è una cattedra specifica della mia materia.
Anzi, ogni volta che torno c’è una polemica con le due matte, ma pazienza, “nothing’s perfect”, come si può adattare?
Comunque, incinta di quattro mesi e mezzo, sono partita e ormai vivo qui.
Nel frattempo: mi sono riappacificata (più o meno) con mio padre (ha influito, checchè lui dica, che abbia chiamato mio figlio come lui); mia nonna è passata a miglior vita (non per colpa mia: aveva quasi 90 anni e fumava 60 sigarette al giorno); guadagno abbastanza da mantenere me e Juan, talvolta aiutare economicamente dei parenti, tanto che nessuno dei parenti ha osato dirmi nulla, ho pubblicato un po’ di articoli e un po’ d’altro.
Al momento: ho quasi finito un libro sulle terne pitagoriche nella storia del pensiero greco (con appendice di storia della teoria musicale da Efestione fino al mio amatissimo Wagner, non so a chi possa interessare, ma pare che a qualcuno interessi), dopo altri due titoli sempre di storia della matematica greca, molto linguistici e filologici, un modo carino per dire che sono una noia disumana per chi li deve leggere, mentre chi li ha scritti è così malato da essersi divertito durante la composizione.
Ora mi è stata chiesta una pubblicazione divulgativa, per non addetti ai lavori, e penso che lo farò per l’anno nuovo, usando le schede dei miei corsi, quelle introduttive.
Tengo due corsi, uno frequentatissimo di letteratura greca, uno con pochi, ma bravi studenti, vado in palestra tre volte a settimana, sto lavorando ad un progetto di ricerca.

Va boh, sono superimpegnata, lavoro anche il giorno di Natale, per intenderci, sembro (quasi) una persona affermata, ho anche un piccolo villino poco fuori Londra, comperato con l’aiuto di papà, ma di proprietà mia.
Con un minigiardino, su due piani, carino carino, in un quartiere tutto di house (magari ci fosse il dott. House tra i vicini), quasi chiuso in sé stesso come un villaggio (o un manicomio di Patrick McGrath).
Quando l’ho vista, sembrava casa della zia di Harry Potter, cosa che ho evitato di dire all’agente immobiliare, mi sa che non avrebbe gradito.
Ora diciamo che è la casa borghese-british-vittoriana in versione meno stucchevole: mobilio di classe (va boh, l’ho scelto io, è ovvio che mi piaccia), leggero, comunque, e uno studio tutto mio, orchidee e libri ovunque.
Molto sogno americano, più europeo, ovviamente.
Potrei definirla “il mio sogno inglese”.
Ho anche il pianoforte in soggiorno, da brava snob, con gli spartiti sopra e la guida ricamata con pansè su sfondo panna, proprio vicino al leggio con il mio violino.

Da quando è nato Juan, ho visto suo padre cinque volte.
Lo ammetto, sono di carne, sono priva di dignità quando si parla di Paolo e ci sono andata, fregandomene di sembrare una cagnetta in calore. Non penso mi possa stimare.
Mi mancava quel calore umano che sa darmi solo lui, nonostante le cose tremende che ci siamo detti e che mi ha detto.
Dovrei soffocare i sentimenti come gattini che non possono sopravvivere, ma non ci riesco.
Non quando si parla di lui.
Purtroppo.
Ci ho anche litigato, però.
E’ da febbraio anno passato che non ci parlo, se si eccettua una telefonata per gli auguri di Pasqua.

- Pronto? Paolo?-
- Ascolti Rachmaninov?-
- Sì, mi stavo preparando ad uscire. –
- Bello. Senti cosa ascolto io?-
- Ravel, Pavan pour en infante defunte.-
- Funerale di Proust. Colpa tua se lo ascolto. Come anche Rachmaninov. –
Pausa.
Lo abbiamo ascoltato la prima notte che abbiamo fatto l’amore.
- Beh, anche se sei atea… Buona Pasqua. –
- Grazie Paolo. Anche a te.-
- Beh, ciao.-
- Ciao.-
Altro silenzio.
- Uno. Due. Tre. Chiudo.-
Sul “do” ho chiuso io.

Nient’altro, nemmeno un “come va?”, “che combini?”.
Imbarazzo celato dalle note.
Ascolto Rachmaninov, quel concerto per violino e pianoforte, solo quando voglio pensare a lui, quando voglio farmi turbare di nuovo dai sentimenti, tornare bambina, adolescente, infantile, ritornare la sua amante che tremava nuda, vergognandosi per la sua mancanza di forme ed eccessiva magrezza, davanti a lui, rimanere sola con i miei ricordi di lui, delle mie notti con lui. Le sue parole:- Sei magra magra.- dette con delicatezza, ogni volta che è in vena di coccolarmi, ogni volta che mi dice:- Sei così sottile che ho bisogno di sentirti tutta per essere sicuro tu non sia aria, sei così leggera che ho paura mi voli via.-
Sulle note di Rachmaninov tutte le nostre notti, anche quelle con altra colonna sonora, anche quelle in cui solo le nostre parole riempivano l’aria, solo i nostri respiri…
Di solito lo ascolto quando Juan non c’è.
Non sa nulla del bimbo, naturalmente.
Nulla.

- Fai tanto la super-professoressa, ma sei solo una ragazza-madre che non sa crescere suo figlio. Non hai avuto nemmeno le palle di dirci chi era suo padre. E chi sarà mai? Un tuo professore che ti sei scopata per arrivare dove sei o uno di cui ti vergogni? Tuo figlio non lo sai proprio crescere, manco di prendere freddo gli sai evitare-
Ha inveito una mia cugina contro di me quella stessa Pasqua, quando Juan ha starnutito a tavola per un brutto raffreddore (prende facilmente il raffreddore: mia eredità).
- Pace. Le maestre, quanto meno, non mi convocano per dirmi quanto è ritardato mio figlio.- ho sussurrato, sapendo bene piccole cose spiacevoli sul rapporto di mio nipote con l’asilo.
Mia cugina ha fatto finta di non sentire, ma deve aver sentito, ed ha inveito ancora per il resto del pranzo contro i miei metodi, ehm, generativi ed educativi.
Pazienza.
Almeno non ho sposato un uomo che non amo, che non sa fare altro che stravaccarsi davanti al televisore e Juan non dice le parolacce e non fa storie per le verdure, al contrario di suo figlio, straviziato e porcello.
Non sembra un ritratto vivente dell’obesità e sa rimanere seduto a tavola, oltre che legarsi le scarpe da solo e parlare in italiano (merito mio).

Non so quanto mio figlio viva bene con me. A volte nemmeno io vivo bene con me stessa.
Non va dallo psichiatra, comunque, per quanto possa contare, ho parlato solo una volta con un’assistente sociale e nessuna dipendente di nessun servizio pubblico sta cercando di togliermelo o convincermi ad imbottirlo di farmaci.
Sinceramente non so nemmeno se sono una “buona madre”, qualunque cosa voglia dire questa espressione.

Dati certi, positivi: ho un lavoro che mi permette di dargli il necessario ed il superfluo, non sono una tossico-dipendente, non mi faccio nemmeno le canne e sono diventata astemia del tutto, vado a prenderlo a scuola più o meno con puntualità, passo tutto il tempo che posso con lui, cerco di evitare di viziarlo, ma non lesino sulle coccole. Cerco di controllare sempre che sia ben nutrito, ben vestito e stia bene di salute, senza ossessività, però. Cerco di comportarmi come faceva mia madre con me.
Dati certi, negativi: a volte dico le parolacce in macchina, non gli ho fatto conoscere suo padre, lavoro anche di notte e di week-end, non sono edificante quando fumo (anche se non lo faccio mai in un ambiente dove ci sia lui, in caso vado in cucina), sono iper-attiva, passa più tempo con i miei manoscritti che con bambini della sua età, gli scelgo io le sciarpe, invece di lasciarlo scegliere liberamente (magari, quando sarà più grande), lo porto con me in palestra, non gli ho insegnato belle preghiere che possano aiutarlo in futuro o non lo porto mai a messa la domenica, non so nemmeno se fargli fare la prima comunione e la cresima!, e vado in panico ogni volta che non so cosa stia facendo, anche se ho evitato di comprargli un cellulare e non gli impedisco di andare su scivolo ed altalena o a scuola o a corsi di canto con gli altri bambini. Se avete paura che gli impedisca di muoversi, beh, vi sbagliate, anche perché è timido e non voglio rimanga bloccato. Però, rimango di solito nei paraggi, pronta ad intervenire, ma in modo che non se ne accorga, sempre presente, ma mai eccessiva. Razionalizzo molto, questo sì, cercando di fare solo cose che non gli causino stress o che lo facciano sentire al sicuro, ma non in gabbia. Mi alzo in piena notte per vedere se respira, questo è irrazionale, ma, visto che dorme e non si accorge di nulla, continuo a farlo piuttosto che rimanere a rigirarmi nel letto. Cerco di comportarmi come faceva mia madre con me.

Lo amo, molto più di ogni altra cosa, questo non so quanto coincida con il ritratto della “madre” ideale e quanto scusi miei eventuali errori nell’educarlo.
Non lo so.

Sono un po’ anticonvenzionale, questo sì.
Per molti rispetti.
Dal campo di ricerca abbastanza desueto, al modo di fare un po’ all’antica, al fatto che suoni il violino o che dorma pochissimo per notte.
Una madre insolita.
In macchina non ascolto “zecchino d’oro” o equivalenti, italiani o inglesi che siano, metto altro, in questo momento ho messo il “Requiem K626” di Mozart.
Invece dei Teletubbies, alla tv, mio figlio vede le rappresentazioni del “Simon Boccanegra” e cantiamo insieme i pezzi dal “Tristan und Isolde”.
E’ in grado di riconoscere Massenet o Faurè, sa benissimo che non deve giocare con le mie edizioni critiche o i miei libri e spero solo che questo non lo renda un disadattato.
Ci divertiamo un mondo -io almeno mi diverto- a giocare a nascondino al British Museum e lo porto spesso alla Tate o alla National Gallery, anche per fare due passi quando piove.
Quando sarà più grande, lo porterò anche ad assistere a qualche commedia o tragedia a teatro, per ora solo concerti (Mozart, tantissimo) o lirica al Convent Garden, ed anche un paio di musical, ma ad uno si è addormentato.
Lì ho capito che forse “The phantom of Opera” è troppo per un bambino di due anni.
Devo dire, invece, che gli è piaciuta “La Traviata” questo giugno.
(i geni di Paolo. Paolo, melomane, maledetto! “Maledetto sia l’aspetto etc.”, Paolo maledetto!). Sarà che la sentivo in continuo quando me ne sono andata lontana da Paolo, dopo avergli scritto una lettera molto alla “Amami Alfredo”.
Juan parla l’italiano e l’inglese oltre che un po’ di tedesco da melodramma, e forse lo sottopongo a stimoli troppo intellettuali per un bambino così piccolo.
Non credo sia in grado di spiegare ai compagnetti che sua mamma non lavora né al supermercato nè in libreria e non fa nemmeno proprio la teacher, ma sono in rapporti cordiali con le mamme della sua scuola, a cui ho spiegato io che lavoro faccia.
Già solo il fatto che avessi un lavoro, le ha molto tranquillizzate, viste le loro perplessità per il fatto che
a) sembrassi tanto giovane (sembro molto più piccola dei miei anni).
b) fossi una ragazza-madre. (è sbagliato giudicare a priori, ma accade sempre nella vita. Se sembri una bambina e hai un figlio senza un marito, ti vedono con maxi-occhiaie e spettinata a fare un trasloco, è quasi scontato che pensino che tu sia una sorta di squinternata, senza lavoro e drogata, specie in un subborbo vittoriano).

Quando è uscito fuori che ero docente universitaria, hanno avuto un moto di sorpresa, ma mi sembra che i commenti siano stati positivi.
Insomma, mi salutano tutte, qualcuna ha letto qualche mia pubblicazione e dicono tutte che è un piacere avere a merenda mio figlio, che è tanto bravo e ben educato (ha ripreso del padre, non di me. Mendhelsson, maledizione o benedizione, aveva ragione. L’ambiente conta, ma i geni ancora di più).
A volte il sabato vado a prendere il thea a casa delle altre mamme, quando non vengono da me o lavoro, e di un paio sono diventata amica: Sheyla è una ricercatrice di letteratura indiana nella mia stessa università, Lauren fa la casalinga ed è davvero simpatica.
Mi ricorda un po’ mia madre, stesso identico atteggiamento.
Mi piace pensare che mi stimino, tutto sommato, nonostante l’accento italiano e la tendenza a fare gaffe assurde.
In un certo senso, mi considerano una sorta di comica e ci facciamo matte risate ai grandi magazzini o al corso di difesa personale con Lauren e Sheyla. Ci scambiamo ricette indiane con Sheyla, di dolci con Lauren ed io insegno a fare la carbonara e la matriciana. Tutto sommato tre madri normali. Come anche la maggioranza delle altre.
Mi affidano i loro figli, ecco, questo sì, e mi sono ritrovata a scoprire che su di me non c’è nemmeno un pettegolezzo sgradevole, “riservata, ma gentile e divertente”, mi hanno classificata. Immaginavo che, in un piccolo quartiere residenziale, il fatto che fossi come sono portasse scompiglio, ma pare che, con la maturità e con un figlio, mi sia molto calmata e le mie eccentricità siano abbastanza accettabili per chiunque.
(Ho deciso di non sperimentare esplosivi in cantina, comunque. Solo per il puro gusto di sentire il botto e spaventare qualcuno, questo aiuta ad essere accolta dal vicinato.)
Non farò la migliore delle torte di mele, ma leggo a Juan le fiabe tutti i giorni e, se posso, me lo porto dietro in università, tanto si mette in un angolo a disegnare.

E’ così tranquillo!
A volte ho paura che ne venga fuori un sociopatico, come si autodefiniva Paolo parlando di se stesso da bambino ed adolescente.
Dicono che ho fatto carriera in fretta.
Per forza, dovevo essere brava per mantenere Juan.
Avete idea di quanto costino gli omogeneizzati?
Juan.
La mia stellina.
Il mio principe.
A volte ho paura quando lo guardo: ne sa di più di Grumiaux che dei Pokemon ed è assolutamente a suo agio se deve parlare con un adulto, mentre è un po’ inibito con i bambini.
All’asilo le maestre mi dicono che è timido (Paolo), ma educato (Paolo) e, comunque, gioca con gli altri. Non è vittima di mini-bulli, comunque (non è nemmeno un capetto, al contrario di me alla sua età. Deve aver ripreso di Paolo, non ha le mie tendenze teppistiche.
Voglio vedere se al liceo farà come me, che facevo esplodere l’ufficio della preside ed organizzavo le seghe di classe, o come suo padre, che cercava di passare inosservato e non parlava quasi con nessuno. Per la mia salute mentale e quella dei suoi professori, spero abbia ripreso di Paolo.)
Le altre mamme mi chiedono come riesco a fargli mangiare le verdure, ecco, questo sì, (ha ripreso da me. Paolo odia le verdure) e come mai è così educato e formale (I geni di suo padre. Che roba che è la genetica!).

Va bene.
Ora pensiamo a cosa fare oggi, 24 dicembre (sigh) ore 13 e 30 (doppio sigh).
Non facciamoci vincere dal nervosismo.
Papà viene a Londra apposta per il Natale ed anche Alessia, una delle mie più care amiche, con il suo maritino. Tutti a casa mia.
Si è sposata da quattro anni la disgrazia umana.
Poco dopo il matrimonio di Paolo, impedito dalla mia balzana dimostrazione di affetto, un ormai quattro, quasi cinque anni fa, quando me ne uscii davanti a tutti che ero la sua amante da sei anni abbondanti. Non la prese bene nemmeno lui, ma mi ha perdonato l’intemperanza, ehm…
Ero alle nozze di Ale.
C’era anche Paolo, con una bionda oca, non quella che doveva sposare, con quella non si sono nemmeno più parlati (un po’ priva di sense of humour).

Me lo ricordo bene il matrimonio di Alessia. Lei è arrivata in ritardo, (in anticipo rispetto ai suoi soliti ritardi, le avevo detto di aver prenotato la chiese un’ora prima), con l’abito bianco, lungo, sfarzoso. Luminosa, sotto braccio al suo papà.
Avevo un banco un po’indietro, con la nausea, già al primo mese di gravidanza. Mi ricordo bene tutto quel giorno. Più che altro, perché, verso la prima lettura, sono andata in sagrestia, preda della nausea, e che Vale si è accorta che qualcosa non andava.
Tic, tac.
Ho sentito questi tacchi e avrei anche alzato la testa se non mi fossi sentita troppo male.
Piegata, vicino alla tomba di qualche grande dama del trecento, con solo succhi gastrici, visto che la colazione non ho idea di cosa sia.
Paolo, grande amico di Francesco, è arrivato dopo poco.
-Beh, Elisa che fai?-
La biondina accanto a lui:- Che succede?-
Vale:- Ma non lo vedi che sta male?-
- Tutta scena! Elisa, hai 27 anni, non puoi continuare a volere sempre tutta l’attenzione su di te sempre.-
Continuavo a star piegata. – Elisa? – Paolo ha chiesto di poter rimanere solo con me. Vale e la tipa si sono dileguate.
- Senti, non voglio essere ricattato dalle tue scenate perché mi vedi con una nuova persona, finalmente. E, poi, è il matrimonio di Alessia, non puoi rovinarglielo.-
Ho vomitato.
Lì, davanti a lui, senza dire una parola.
- Elisa, puoi controllarti.-
- Portami in ospedale.- E sono collassata la prima volta.
Mi ha fatta rinvenire lì, tenendomi in alto i piedi, seccato.
- La smetti con questo teatrino? Hai scelto proprio la persona giusta da imbrogliare, continui a mangiare pane e volpe?-
- Sto male. – mi sono alzata. – Per favore.-
- Un attimo fa stavi benissimo. Non hai niente. Manipolatrice.-
Sono rimasta seduta sola in sagrestia per tutto il matrimonio, lo avrei anche seguito, e mi sarei commossa, ma le voci mi sembravano arrivare a chilometri da me.
Dagli inferi.
Sono uscita solo per andare alla macchina, stringendomi nel mio abito bordeaux.
Valeria mi ha dato il braccio, quando si è accorta che ero gelata, nonostante fosse maggio.
Nel casotto Alessia e Francesco non si erano accorti di nulla.
Compaio in due foto quel giorno.
Sono in entrambe così pallida che sembro un fantasma.
Andando al ristorante, sono collassata in macchina.
Sandro, che guidava, ha girato verso l’ospedale.
Ho salvato Juan per miracolo e già lì avrei dovuto capire che suo padre non sarebbe stato presente.
Credete che gli abbia mai rimproverato che stava per farmi abortire lui?
Con il suo menefreghismo?
No.
Non l’ho fatto, ma sono stata molto felice quando ha mollato l’oca, la settimana successiva.
L’ho chiamato durante il pranzo per dirgli che in ospedale mi avrebbero dimessa solo il giorno dopo e che ero incinta.
E’ venuto per litigare in ospedale.
Apposta. Mollando il pranzo di nozze del suo migliore amico.
E’ arrivato arrabbiato nero.
Furioso. Pronto a chiudere definitivamente e mettermi l’appuntamento per visita ginecologica (mica ci credeva) il giorno stesso e l’aborto mezz’ora dopo. Ho rifiutato, chiudendo la cartella e non lasciandogliela leggere.
Era una jena, arrabbiato nero.
Si è trattenuto solo perché lì faceva lo specializzando.
Insomma! Se non lo avesse conosciuto nessuno, cosa avrebbe fatto? Mi avrebbe urlato letteralmente contro?
Lo so, dovrei smetterla di fare del sarcasmo, ma mi mette sempre in crisi il fatto che con tutte le volte che ci siamo ricascati, non siamo mai riusciti a farlo funzionare.
E, dopo il consiglio di abortire, sinceramente, non è che abbia molta voglia di parlargli.
Alessia voleva dirgli di Juan, ma le ho posto il veto.
Una delle nostra ultime liti fu con Juan di pochi mesi che dormiva come un angioletto in casa di Vale, sulle scale di casa di Alessia, sposata da poco.
A lui che mi accusava di avergli detto falsamente di essere rimasta incinta un otto mesi prima, risposi con un- Non è il caso di parlarne.- prima di fare quasi a botte, con lui che se ne andava ed io che lo rincorrevo per chiedergli di lasciarmi parlare per una volta.
Puntualmente la cosa non è avvenuta, c’è stato solo il suo monologo, con insulti verso di me, a voce bassa, per non far scena in mezzo alla strada, ma non c’era bisogno di dirvelo. Il suo andarsene, il mio rincollerlo, il suo cacciarmi etc etc…
Era scontata.
Come il fatto che mi abbia ricercata dopo un po’ di tempo.
Come sempre.
Né insieme né separati.
Non sappiamo vivere (spero e non spero valga lo stesso per lui).

C’è un convegno di neuropsichiatria infantile a Londra in questo periodo e sono terrorizzata all’idea che Paolo abbia la folle idea di cercarmi.
Due giorni fa, 22 dicembre, ore 15 e 15, minuto più minuto meno, parlava lui, ecco perché ho lo stomaco serrato.
Vorrà vedermi?
Anche solo per un caffè.
Non mi va nemmeno di mollare a Sheyla o a Lauren mio figlio per un intero pomeriggio per farmi un caffè e una sveltina con suo padre.
Magari con un collega o la sua ultima fiamma che telefona nel mentre.
E se viene a casa mia lui?
E se venisse e vedesse i giocattoli per casa?
O, peggio ancora, Juan?
Che gli dico? Che ho aperto un asilo di infanzia?
Dimenticavo quasi di dirlo, tanto la cosa mi sembra pacifica: Paolo HA il mio indirizzo. Lo ha chiesto all’università qualche mese dopo che mi ero trasferita qui, con una scusa assurda, ha detto di essere mio fratello!
IO SONO FIGLIA UNICA!
Non di madre vedova, dato che il vedovo è mio padre, ma non ho fratelli, nemmeno illeggittimi figli del mio babbino, dato che è stato fedelissimo alla mia mamma.
Va bene.
Siamo arrivati a casa. Parcheggio nel vialetto, senza mettere la macchina in garage.
Entriamo in casa.
Juan mi chiede un foglio ancora prima di togliersi il cappottino e si mette a disegnare.
Mi ricorda mia madre. Anche lei disegnava sempre, riempiva tutti i pezzi di carta di schizzi. Giuro che se mi chiederà di fare una scuola di disegno, ce lo iscrivo e non faccio come mia nonna con mia mamma.

Stellina.
Sta buono buono lì. A disegnare. Silenzioso, senza fare macelli, ma tanto non mi distraggo. Purtroppo sono una madre iperansiosa. Gli anglosassoni imbottiscono i bambini di tranquillanti per farli stare buoni (troppo difficile educarli?).
Mi dovrei imbottire io certe volte, anche l’idea che vada in altalena mi spaventa.
Non che non lo lasci andare, ma il panico c’è lo stesso.
Ripeto a Juan di prendere pure i colori nuovi dalla mia borsa e mi organizzo.

Stasera per cena: lasagne di mare, insalata di broccoli alla napoletana (con baccalà e giardiniera), capitone, spigola in forno in crosta di patate. Sorbetto al limone.
Dolce: s'aranzada

Ok.
Ce la posso fare a cucinare per tempo.
Tra due ore arrivano all’aereoporto papà e i miei amici.
Mi metto una tuta e stendo la pasta a mano, mentre ascolto Satie e con un occhio controllo Juan.
Faccio il sugo ai frutti di mare, mentre i broccoli e il baccalà si lessano, spino la spigola e s'aranzada, meno male, l’ho preparata stanotte, con torta di mele per tutti.
Mannaggia, non ho ancora fatto l’albero ed il presepio.
Va bene, dirò che li abbiamo aspettati apposta.

In realtà non ho avuto tempo: sto dormendo meno di cinque ore per notte per finire il libro con un po’ di anticipo ed andarmene qualche giorno con Juan da Vale, così da poter mollare questa tremenda Inghilterra.
Per fortuna, Juan è buonissimo, spesso scrivo con lui all’altro capo della scrivania che disegna e faccio pause solo per mangiare e manca davvero di rivedere errori di battitura solo dell’ultimo capitolo, con un anticipo di quasi 4 mesi lo consegno post domani.

Bugia presepistica passabile?
Le ghirlande natalizie sono fuori, mancano solo quei due addobbi, la balla è credibile.
Va bene, storia dell’albero aggiustata.

Sbuccio le patate con il pelapatate e le taglio.
Preparate le teglie, ho 10 minuti per farmi la doccia ed andare.
I letti sono pronti nelle due camere degli ospiti e io posso ben dormire con Juan un paio di giorni sul divano dello studio.

Perfetto, sono nel traffico e, mentre mio figlio canta allegramente “La canzone dei gioielli”, mi
ritrovo a pensare che arriverò in ritardo in aereoporto e saranno ovviamente tutti arrabbiati con me.

Eccoli.
Ad aspettarmi, sul marciapiede, al freddo ed al gelo.

La sacra famiglia al completo.
Mancano solo la paglia e il bue con l’asinello.

- Ciao famiglia.- saluto.
Alessia è stata la mia famiglia per un lungo periodo, e, in un certo senso, la considero tale.
La sua bimba ha due anni e mi saluta con un bacione. Papà mi abbraccia e si prende subito Juan in collo.
Saluto Francesco.
Ale mi guarda.
- Elisa, sei sempre più magra.-
- Il lavoro, fanciulli.-
- Ti distruggono con questo lavoro.-
- Già. Il libro è quasi finito, manca solo una correzione dell’ultimo capitolo.-
Mio padre è tutto immerso in una conversazione con suo nipote. – Elisa, non mi dirai che gli hai letto davvero dei racconti di Bernhard?-
E’ scandalizzato.
- No, babbu. No. Gli ho letto solo “Risvegli” di Sacks. Così capisce cosa non sa fare suo padre. –
Acidissima.
Mi è sfuggita, ma Juan non ha sentito.
- Elisa!-
Alessia scuote la testa.
-Babbu. Este solu una brulla.-
Neanche mio padre sa che lavoro fa Paolo e non sa nemmeno come si chiama.
(Gli ho salvato la vita. Paolo non lo sa, ma deve ringraziare me per non avergli scatenato contro l’ira funesta del mio adorato babbino, furioso per la deflorazione e l’impollinazione della sua bambina).
- Su via, dai! Babbino.-
Mi guarda severo.

Mi guarda e mi sento in colpa.
Erano compagni di studio con Paolo e sono ancora oggi molto amici.
Mi fa sentire quasi inadeguata, lei non fa battute acide sul padre di sua figlia. I cartoni animati li conosce, non come me. A parlare con le maestre ci va tutti i mesi e non è mai in ritardo a prenderlo all’asilo, anche se fin’ora mi è successo solo una volta e ho telefonato almeno 4 volte per tranquillizzare Juan, sono ancora divorata dai sensi di colpa.
Lei non è una ragazza-madre che ha dovuto parlare con un’assistente sociale rompipalle per dimostrare di poter tenere il proprio cucciolo, ha i capelli fatti dal parrucchiere (io me li taglio da sola), quando dice che lavoro fa, tutti la stimano, non come me, che ho le cugine che mi urlano contro e per tutti rimango solo una laureata in lettere, fino a che qualcuno non mi fa la grazia di spiegare che sono docente ad una piccola, prestigiosa università straniera.
Alessia è anche chiara, naturalmente dotata di curve, con un bel corpo formoso, e le persone tendono a fidarsi di più delle bionde che delle more.
E mi sento invidiosa che il marito la stia spingendo a prendersi una seconda laurea, perché, anche se me la sta prendendo in matematica, (ehm… mancherebbe solo la tesi, mi riuserò qualche schedolina sul mio computer), nessuno mi ha incoraggiata, tranne mio figlio, che, però, non ha molto ben capito cosa faccia la mamma sveglia di notte, oltre sfornare torte secondo i preziosi consigli di Lauren o le vecchie ricette della nonna.
E nessuno che lo sappia apprezza che cucini di notte: anzi, generalmente, mi si fa presente che esistono i cibi preconfezionati. Di solito rispondo che gli inglesi hanno perso l’impero coloniale da quando si sono ritrovati a mangiare quelle porcherie ed i romani hanno avuto la pax romana solo perché le loro mogli cucinavano e filavano la lana (purtroppo non ho tempo per lavorare a maglia, ma va bene così) e lo hanno perso solo quando sono diventate troppo pigre per cucinare, cosa che viene puntualmente presa per una battuta, anche se non lo è.
E le cose con cui passo più tempo sono papiri o manoscritti che non mi giudicano né mi condannano, ma nemmeno mi dicono se sono carina o brutta. Al corso di letteratura greca mi hanno ribattezzata “Minosse”, (Minosse!) o “Radamanto” (come i giudici infernali), per quanto sono severa, per cui figuratevi quanto posso essere simpatica ai miei studenti di quel corso e perché al corso di storia della matematica abbia solo 5 allievi per anno (di solito le A del corso di cui sopra). Hanno anche disegnato una simpatica vignetta con una mia caricatura che tiene un vibratore in mano e la scritta:- Ti promuovo perché stanotte ho finalmente avuto il mio primo orgasmo.-! Su di lei nessuno scrive vignette!

- Mangi? – Francesco è quasi inquisitorio.
- Certo.-
- Sei sicura?-
- Sì. Cazzarola, ho 31 anni, non 17.-

Arriviamo a casa, finalmente.

Alessia e famiglia si rassettano, poi, lei mi viene ad aiutare in cucina.

- Sei in forma, Elisa. Però… Ancora un po’ dimagrita, ecco, hai bisogno di una vacanza.-
Il “grazie” mi muore in bocca.
- Paolo è qui a Londra.-
Lo aggiunge in modo quasi cauto.

- Bello. Va bene, un piatto di pasta per lui ed accompagnatrice c’è sempre.-
- In testa?-
- Ovvio.-
Rido. Credo che Alessia abbia colto il punto.
- Dovrebbe sapere di Juan.-
- Per dirmi di abortire un bimbo di ormai 3 anni e mezzo?-
- Elisa! Dai!-
- Senti, guardami. Cosa vedi?-
- Una ragazza che sta condendo della spigola.-
- Molto spiritosa.-
- Sinceramente. Cosa vedo? Una giovane docente of Classics. Sei già docente universitaria, Elisa, e sei molto stimata, anche i tuoi studenti ti trovano fantastica, ho sentito i commenti al termine delle lezioni.-
- Sì, quelli che non fanno vignette.-
- Che ti fanno vedere gli stessi disegnatori, sapendo benissimo che non sarà per quello se non li promuovi a fine corso e che sei la prima a sorriderne. Dai, a quello che ti ha messo nome “Radamanto” l’hai promosso lo stesso e si è laureato con te! Sei brava, Elisa.
- Non è che ci volesse tanta fatica, con così poca gente nel mio campo. Io allo specchio vedo una che a 31 anni se ne sente 104.-
- Elisa. Dai. Sei di cattivo umore?-
- Alessia, ti invidio. Invidio tutti voi.-
- Dai. Io invidio la tua forma fisica. E la seconda laurea in arrivo.-
- Senti, Ale, sinceramente. Lo so che non dovrebbe essere, ma vorrei un marito. Non siamo ai tempi di Jane Austen e non sono la signora Bennet, però, accidentaccio… Vorrei uno straccio di marito.-
- No, Elisa, tu vorresti Paolo.-
- E’ impossibile un rapporto umano tra di noi. Non è “Persuasione”.-
- Ma quante seconde possibilità avete avuto?-

Alessia è sincera, lo sa benissimo.
Un’infinità, mai colte da nessuna delle due parti.
Quando voleva lui, non volevo io e viceversa.

- Quante ne ho buttate.-
-Sei proprio nera. Comunque, il profumo di questo suolo è ottimo.-
- Grazie. Senti, a te i canditi non piacciono, per cui ho fatto anche una torta di mele. –
Cambio argomento.

Infondo, Alessia ora è felice, ma ha avuto i suoi bassi anche lei e non mi va di sfogarmi o piangermi addosso.
Juan è sano, sereno, almeno mi sembra.
Io sono sana e serena, per lo più, nonostante momenti di scoramento.

Certo, preferirei che Juan avesse un padre non solo biologico, ma visto tutto, forse, meglio così.

Ale ed io ci mettiamo a spignattare con buona lena.
I vecchi tempi da studentesse, soprattutto durante il mio dottorato!
Quante follie per stare anche solo cinque minuti con Paolo o vederlo, senza che nessuno se ne accorgesse.
Chissà come sta la mia vicina sballatissima che faceva l’indovina e la cartomante, che mi prediceva sempre disastri. Chissà cosa mi predirrebbe oggi, per stasera!
Bah, meglio non saperlo! Più era grigia la sua predizione, più si avverava in fretta! Quelle atre, poi, erano immediate.

Il telefono continua a squillare: colleghi, amici, gente con cui collaboro, il mio editore.

Papà, Sara, Juan e Francesco stanno facendo il presepio e l’albero quando…

Quando suona il campanello di casa...
Come nelle migliori tradizioni.
Vado ad aprire con il mio maglione a quadri celesti e grigi con maxi alce, sopra un ridicolo grembiule da cucina arancione con la scritta verde mela:- La cuoca non sono io, ma pesa 110 chili e fa boxe.-

Indovinate chi poteva essere?

- Elisa.-
Cappotto con sciarpa bianca, capello pettinato con gel, un po’ di neve sulle spalle, borsa da lavoro.
- Paolo! -
Dei dell’Olimpo tutto aiutatemi!
Alessia arriva dietro di me. Francesco la fiancheggia come un angelo custode.
- Alessia? Francesco? -
- Mamma, chi è?- Juan trotterella verso la porta, sperando sia il professore di babilonese che viene anche solo per raccontargli di qualche trattato del 972 a.C.

Paolo mi guarda stupito.
Vorrei non farlo entrare.
Ma è la vigilia di Natale, fa freddo, è solo a Londra.
No, non accampiamo scuse valide per chiunque altro avesse bussato dei miei conoscenti.
Qui il motivo vero, l’aitia per citare Tucidide, è un altro.
Valido solo per lui.
Fondamentalmente è che è Paolo.

Paolo e basta.

Vengo quasi travolta dai ricordi, ma non voglio se ne accorga, come mai gli ho lasciato trasparire a pieno i miei sentimenti, tanto da fargli dire che la mia era solo una fissa.

- Ciao, come va? Vieni.-
- Ma ti incomodo. Volevo solo farti gli auguri per Natale. Sono a Londra e… -
- Mamma, ma è il signore della foto. E’ quello che dici che è il mio papà. Sei il mio papà, vero? Sei venuto per Natale!-

Juan, tesoro della mamma!
Con la stessa identica, rassicurante, espressione di J. Nicholson in “Shining” decido di prendere in mano la situazione.

- Juan, va da nonno. Non è così. Poi ne parliamo io e te da soli, promesso.- e gli do il mignolo, come faccio sempre per le promesse.

Alessia, Francesco e Juan entrano.
Mio padre vorrebbe dire qualcosa, ma sono imperiosa con lo sguardo.
- Vieni in cucina.- dico a Paolo.
- Per favore.-
Conosco il suo modo di fare, lo prendo quasi per mano e lo prego con lo sguardo.

Sottomessa.

Come sempre.

Paolo mi segue. Mi dice subito.
- Hai un figlio.-
- Sì. –
- Avevo saputo che eri diventata professoressa. –
- Capita.-

Mi freno dal rispondergli che era stato lui a dirmi che non avrei mai combinato nulla, forse, invece,
mi ha spinto anche il non volergli dare ragione.

- Hai un figlio. Mi era arrivata come voce, ma pensavo ad un pettegolezzo.-
- Allora? Ho un figlio.-
- Quanto ha?-
- 3 anni e qualcosa.-

Paolo fa mente locale e, poi, alle solite – Sei una puttana.-

- Non cambi mai come insulti. Guarda che è Natale, mio padre è di là, ti sto ospitando in casa mia, se devo farmi insultare, la porta è quella. -
- Elisa! Se prendo quella porta, non mi vedi più.-

- Paolo, sono sempre le stesse frasi. Quando cresci?- sospiro sottovoce, non sono nemmeno sicura mi abbia sentito.
Inforno la spigola e, poi, le lasagne.
Infondo, è quasi ora di cena.
- E’ mio? –

Non rispondo.

Che razza di domanda è?

E’ visibilmente suo.

Lo noterebbe anche un cieco, tanto è lampante la risposta.

Stessi occhi color “non-ti-scordar-di-me”, stessa corporatura sottile, stesse labbra.
Stessa curva del naso e della fronte.

Miei gli zigomi, le spalle, le orecchie, la capacità di arrotolare la lingua. Mio il sorriso e il dentino storto sotto, che nessuno nota (apparecchio per i denti, come me, tra qualche anno, così nessuno lo noterà davvero mai). Miei i capelli neri, ricci.

- Elisa, rispondimi.-
- Ha importanza? – lo sussurro quasi.
- Sì.- mi guarda stringendo le mani in pugno.
- E’ tuo.-

Chiudo il forno.

- Puttana bugiarda.-

Paolo esce dalla cucina, si infila il cappotto, maledice Alessia, Francesco, che cerca di fermarlo. Sposta quasi di forza il suo migliore amico, fino ad un istante prima della rivelazione.

- Sapevate tutti, maledetto il giorno che vi ho conosciuto.-
Paolo saluta solo mio padre con educazione.

- Siamo alle solite.- sussurro ad Alessia.

Gli corro dietro.
Con le ciabatte e il grembiule esco di casa, nel giardino innevato.

- Paolo.-
- Vattene.-

Sta entrando in macchina.

- Per favore, rifletti. Infondo, non ti ho chiesto nulla. Mai. Però, vorrei una cortesia.-
- Mi hai tenuto nascosto MIO figlio. Ammesso sia MIO-

Qui sbotto:- Mi volevi imporre di abortire! Di ABORTIRE! Sei sempre bravo a difendere gli altri, ma lui no. Aspetta, nemmeno ci credevi fosse tuo. Ed al matrimonio di Alessia, pensavi recitassi. Cosa dovevo dirti? L’ho cresciuto. Non ti ho chiesto nulla. Hai detto di non volerne sapere nulla. Così ho fatto. Cosa dovevo fare? Ero sola. Dovevo ammazzarmi? Ho trovato lavoro.-

- Potevi telefonare.-

- Per sentirmi insultare di nuovo? Per sottopormi ad altre umiliazioni? Per un test di paternità inutile, dato che da quando conosco te, la mia vita sessuale esiste solo con te? L’unica altra possibile risposta era lo spirito santo! E visto che né io né te crediamo, è alquanto improbabile! Va bene che tu credi io non abbia dignità, ma, una buona volta, maledizione, vuoi capire che non ho mai provato ad incastrarti?-

Mi guarda.

- In tutto questo tempo. Elisa. –

Fa per salire.
Apre la portiera.

No.
Per carità, no!

Non te ne vai oggi.

Oggi no.

Mi aggrappo alla manica del suo cappotto.

Lo faccio quasi retrocedere. Non è mia questa forza fisica, sto spostando una persona che pesa oltre 30 chili più di me.

Non ho mai reagito così.
Non mi riconosco.

Ma oggi non se ne va.

Rimane.

Per me stessa e per Juan.

Un Natale con suo padre.
Non chiedo molto.
- Mi hai insultata ogni volta ci siamo visti.-

Ora piango.
Di rabbia.

– Vorrei ti fermassi a cena. E’ anche la vigilia di Natale, sei solo a Londra. Rimani, ci sono i tuoi amici. Tanto mi avveleni da sempre ogni istante insieme. Volevo solo… E’ per Juan, non per me. L’ha pure dettato nella letterina a Santa Klaus che hanno scritto le maestre. Sai le volte che lui mi chiede di te? E io gli dico sempre altro, che sei lontano per lavoro, che lavori tantissimo, che gli vuoi bene, che mi telefoni dall’Italia per sapere come sta, ma non puoi venire mai, che il tuo lavoro è importante, talmente importante che per proteggerlo non hai potuto dargli il tuo cognome. Gli ho fatto solo vedere una foto e l’ha voluta tenere. Che dovevo fare? Togliergliela? Dirgli che non esistevi? Che non eri te?-

- Ma ti rendi conto delle cazzate che fai? Come quando hai provato ad andartene via per sempre!-

- Ma che dovevo fare? Hai sempre parlato solo tu, fatto monologhi, urlato contro di me, sempre. E io in silenzio. Sempre.-

- Sei la persona più loquace che conosco. E mi guardi sempre con quella tua superiorità, se non parli.-
- Superiorità? Ma se mi sento strainferiore a te, da sempre!-
- TU!?!-
Fa una pausa sbalordito.
- La persona con l’ego più gigantesco che conosca? Una il cui orgoglio lo vedono persino nello spazio, più ingombrante della muraglia cinese?-
- E tu allora? – Piango ancora. – Non rimani nemmeno per la cena. Ho fatto le lasagne. Di mare. Ci speravo venissi.-
- Sei venuta al convegno?-
Annuisco e continuo a piangere. – Ero in fondo alla sala, vestita di nero. Non mi hai nemmeno
riconosciuta. –
- In fondo, in fondo, vicino alla porta. Con una sciarpa nera e i capelli raccolti, un paio di occhiali scuri e un collo alto.-
- Non mi hai salutata.-
- Non ti sei avvicinata e sei scappata. Per questo sono venuto. –
- Per scaldarti le notti?-

Amara.

Rido amara.

Come il miele di Sardegna.

La mia risata sa di miele di Sardegna, sa di risus sardonicus.

Tra le lacrime.

Aggiungo:- Volevi quello, no? Come sempre.-

- Beh, anche. Ci speravo almeno. Scusami. È la verità. Ma volevo anche rivederti. Parlarti. Non ho capito nulla dei tuoi libri. –

- Io dei tuoi articoli sì.-

Ma come mi è uscita questa?

- Elisa. Non so nemmeno se posso crederti, capisci?-

Me lo disse quasi 10 anni fa la prima volta.
Poteva credermi.

Da sempre.

Piango ancora di più.
- Fa finta di nulla, ti prego. Per Juan. Fermati a cena.-
- E, poi? Cosa? Lo mollo così? Illudo un bambino e lo abbandono definitivamente?-
- Beh, quando sei a Londra, puoi chiamare e stare con lui… Puoi telefonargli se ti va. Oppure no. Rimani a cena lo stesso o vattene, Non farti vedere e gli dirò che non eri tu quel signore che potrebbe chiamare “papà”, gli somigli solo. Anche oggi, non eri tu e non sarai tu, se non vuoi. Resta. Ti prego. Per favore. Fammi questa cortesia, questo piacere. Non ti chiedo nulla, solo di restare. C’è da mangiare anche per te. Resta.-

Scuoto la testa, piangendo, le lacrime mi scendono sulle guance, bruciano, ma non importa.
Cadono sulla neve, una dopo l’altra, ting, ting, perle bianche su ancor più bianca fronte, come diceva Dante?
Una volta lo sapevo a memoria, una volta conoscevo a memoria i cataloghi di Mozart e Shubert.

Ora ho dimenticato tutto. Anche chi sono, cosa è stato.

So solo che Juan è dentro e vuole conoscere suo padre e non so come convincerlo a restare.

E piango, perché mi sento impotente, perché non so dargli nemmeno questo.

- Elisa… E’ un po’ tardi per chiedermi qualunque cosa. Anche solo di rimanere a cena-

- Non te lo chiedo io. Te lo chiede nostro figlio.-

Cosa ho detto?

Troppo.

Quello che non volevo.

Mi lascio cadere sulla neve.

Dire “nostro” mi è costato la perdita della volontà e ingoiare un groppo in gola, come sputare un rospo che non riesce a risalire, tante lacrime dagli occhi.

Tante.

Inutili.

Avrei voluto dire “un bambino”, “mio figlio”, invece mi è uscito “nostro”, come se qualcosa che non fosse il sesso, unico legame, a sentir lui, ci unisse davvero, emotivamente.

Sangue e carne tra di noi.

Non solo divertimento.

Sangue e carne.

Veri.

Pulsanti.

Un vincolo.

Un giogo.

Forse troppo.

Una corda, un ponte, ecco, un ponte, non ho mai voluto legarlo, mai.

Lo guardo, la forma delle orecchie, sono così ridicole le orecchie, sempre, anche quando hai voglia di baciarle, i capelli, e abbasso la testa.
Sarò sempre meno di lui.

Cosa sto a fare così, in ginocchio, nella neve?

La testa mi ciondola, aspetto che abbatta l’ascia sul mio collo, come sul patibolo.

Tutta questa storia con lui mi è costata tanto, troppo.

Questo amore per lui!

Irrazionale.

Invincibile.

Dolce amaro.

Distruttivo.

Quanto mi ha tolto! La mia casa, la mia patria, la possibilità di una vita comune, piccola piccola!

Quanto mi ha spezzata come donna.

E, poi, penso a quanto mi ha dato Paolo, al fatto che non rimpiango niente.

Nulla, solo i “no” e che mi ha dato mio figlio, anche solo Juan vale molto più di qualunque
umiliazione, di qualunque calcolo, di qualunque orgoglio e dignità.

E piango, piango, affondata nella neve, aggrappata al suo cappotto, senza riuscirmi ad alzare, senza volermi muovere.
Vorrei trascinarlo dentro, per Juan, solo per lui, ma non ce la faccio.

Non ho la forza.
Né fisica né spirituale.

Sono stanca.
E ho freddo.
E non ho nemmeno il cappotto e mio figlio mi guarda attraverso i vetri.

Gli sorrido tra le lacrime, e sussurro:- Va tutto bene, amore di mamma.- e Juan risponde al mio sorriso, prima che Alessia lo porti via di lì.

E’ perplesso.

Tesoro mio.

Un bambino non dovrebbe mai vedere i propri genitori umiliarsi, né tanto meno la madre che prega il padre.

Non ricordo mai di aver visto una tale situazione tra i miei, né in nessuna famiglia normale di mia conoscenza. Ed avevo giurato a me stessa che mai mi sarei umiliata tanto.

Dirò a Juan che sono scivolata, ecco, e mi faceva male la caviglia, lo rassicurerà questo, sì.

E poi crollo di nuovo, riabbasso il viso e piango.

Troppo, tutto insieme.

Paolo si accorge del mio gesto verso il bambino e guarda la finestra.

- Elisa, alzati. O devo pensare che non hai proprio dignità?-
- Sono stanca, Paolo. –
Continuo a singhiozzare.
- Hai idea di come sto? Non ne posso più, più!-
- Sei sempre la bambina fragile.- poi ci ripensa.- Quando ti pare, perché, poi, non ti buttano giù nemmeno le cannonate. Dai, sali in macchina. Non ho idea di cosa prendergli. Almeno il regalo di Natale glielo devo a mio figlio, no?-





FELICE 2008 A TUTTI




 
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