Libri e Film da libri
creata dalla serie "HARRY POTTER":
"NOVEMBER'S MOON -[ S T A P A S S A N D O N O V E M B R E ]"
una fanfiction di:

Generi:
Sentimentale - Drammatico - Introspettivo
Avviso:
One Shot
Rating:
Per Tutte le età

Anteprima:
Oneshot scritta con Gattaitaly, tratta da << Le Avventure Dei Malandrini>>. Brevi Flash di una ipotetica infanzia di Remus Lupin con la defunta madre.

Conclusa: Sì

Fanfiction pubblicata il 01/12/2007 17:08:10
 
ABC ABC ABC ABC




<i><b>Ok, prendiamo un bel respiro…bene.
Iniziamo col dire che…sono emozionatissima!
La mia prima Fanfic su questo sito…io, che in genere mi soffermo solo a leggere i VOSTRI capolavori!
Mi presento, comunque: mi chiamo Mirka e mi sono affermata abbastanza sul mio Forum Personale, come scrittrice, mentre su Efp e Manga.it mi limito a guardare.
Quest’ultimo è stato fonte di vere sorprese, per me.
Non voglio fare la lusingatrice, ma ho trovato molte Fanfic meravigliose.
Il mio nome, che avrebbe dovuto essere solo Vlad, deriva dalla mia passione per i vampiri.
Mi sono registrata anche qui perchè amo le Fic originali e su Harry Potter, ma anche su Full Metal Alchemist.
La Fanfic che starete per leggere è nata nel vedere il sito bellissimo di Gattaitaly, [ <u>http: //www.maraudersadventure.splinder.com</u> ] dedicato dal suo sfavillante ed omonimo lavoro: <<Le Avventure Dei Malandrini>>.
Vedendo le Oneshot Affilate in quel sito, mi è presa una voglia pazza di essere nominata anche io.
Quindi, cominciamo con uno dei personaggi più dolci ed affascinanti della storia.



<u>Disclaimer: </u>

La storia non è di mia fantasia, ma si correla alla Fanfic di Sarah.
Gattaitaly mi ha aiutato nello scriverla, in modo da non uscire proprio dal IC, e riguarda alcune flash dell’infanzia di Remus Lupin.
E’ un piacere ed un onore contribuire nello scrivere una parte de Le Avventure.
La canzone è quella di Eros Ramazzotti, trovete il Link in fondo alla pagina per sentirla.
Penso di aver detto tutto.
Vi lascio al mio racconto…tenete i fazzoletti a portata di mano!






<center>† ѕ t α ρ α ѕ ѕ α и ∂ σ и σ ν є м в я є †</b></i></center>






<center><i>[ E’ per te…
questo bacio nel vento.
Te lo manderò lì,
…con almeno altri cento. ]</i></center>




L’uomo libero è come una nuvola bianca.
Una nuvola bianca è un mistero; si lascia trasportare dal vento, non resiste, non lotta, e si libra al di sopra di ogni cosa.
Tutte le dimensioni e tutte le direzioni le appartengono.
Le nuvole bianche non hanno una provenienza precisa e non hanno una meta; il loro semplice essere in questo momento è perfezione.

Quella sera, le nubi erano dipinte di un viola cupo, intenso, brillante.
Non paffute, non candide, non ferme negli astri.
Ma soffuse, come ombre nel cielo, parevano scappare alla vista ridacchiando maliziose.
Remus Lupin alzò gli occhi al firmamento, allungando le dita ancora piuttosto corte e paffute per cercare di prendere quei nembi dispettosi, senza riuscirci.
Spirava un vento leggero, portatore di profumo di pino e legna bruciata.
Era seduto su un tronco d’albero mozzato, sulle spalle una coperta un poco infeltrita, i capelli biondi e folti che oscillavano alla brezza, morbidi, profumati.
I suoi occhi chiari e ingenui si spostarono presto dall’immobilità del paesaggio, per posarsi su movimenti sinuosi e sorrisi allegri.
Quella sera, <i>lei </i> era bellissima.
La cosa più bella che i suoi occhi da bambino avessero mai visto.
Al centro dell’immenso giardino era stato aizzato un falò, e i cocci di legno scoppiettavano come torce, brillanti come rubini insanguinati.
Ballava, Penelope Lupin, e la sua pelle olivastra riluceva del riverbero delle lingue di fuoco, che vorticavano sinuose a tempo con le sue gambe.
E i suoi ricci e lunghi capelli, mentre le danzavano furiosamente attorno al viso…sembravano sfumarsi di rame, al contrasto con le fiamme.
Portava alcune ciocche castane morbidamente intrecciate con nastri di seta, mentre gli altri erano lasciati liberi di ondeggiare sul suo vestito celeste, sfumato di bianco, come un cielo in estate.
Ballava con tanta allegria che anche Remus si ritrovò incondizionatamente a sorridere, senza avere un vago motivo.
Era sempre stato così, con lei.
Come quel falò, sua madre gli infondeva calore, uno smaniato senso di pace e brio.
Forse era la sua pelle spagnola che pareva ardere, forse il suo sorriso pieno di vita sulle belle labbra, da attrice.
La vide alzare le braccia al cielo e lasciarsi trasportare dal vento, la gonna leggera che le frustava le cosce.
Le risate sincere.
Che sgorgavano.
Senza pensieri, tutti insieme, uniti.
E lei, libera finalmente di danzare, immersa nell’autunno.
Libera.
Senza barriere.
Era poco più di una ragazzina, non arrivava nemmeno ai vent’anni.
E ballava con una delle poche persone in grado di comprendere il suo prematuro bambino.
La comprendeva, Milly, ma non apprezzava.
Danzando distrattamente insieme alla migliore amica, scoccava ogni tanto sguardi stizziti ad una figura, seduta nell’ombra in una rigida posa plastica.
I capelli nerissimi le volteggiavano soffici sugli occhi come carbone e languidi come acqua nera.
Come petrolio.
Avevano la pelle uguale, quelle due.
Origini gemelle.
<i>[ Stessi occhi liberi di sperare…]</i>
Solo che Mila aveva un riflesso più maturo, nello sguardo, più passionale, e labbra rosse come sangue.
Nulla a che vedere con gli occhi dolci di Penelope, e alle sue efelidi sulle guance.
Tanto diverse eppure tanto unite.
E mentre Mila andava ad abbracciare Remus, accarezzandogli i capelli morbidi ed ondulati, Penelope distoglieva lo sguardo che tanto aveva bramato quelle fiamme per posarsi su quella figura che tanto rimaneva silenziosa e rigida, isolata da quella spensierata allegria.
Una figura quasi fredda, quasi finta nella sua inflessibilità ai suoi sorrisi dolci.
Lui non aveva preso parte al banchetto e non dava alcun segno di divertimento, ma nemmeno di noia.
I suoi piedi non tamburellavano al ritmo di quella musica antica, orchestrata da zampogne, flauti e violini, la sua voce non di levava nel canto e nelle risate.
I suoi occhi erano rimasti fissi su una cosa soltanto e quella cosa era l’incantevole e ridente mamma di Remus, con la sua cortina di capelli ricci che le volteggiavano attorno.
Rigido, divorava con gli occhi quella pelle senza mostrare però alcun sentimento.
Il desiderio era percepibile solo dalla pupilla nera come pece, incastonata in una iride gemella a quella di Remus, fredda ma di delicata acqua sorgiva.
Aveva i lineamenti duri, suo padre, e una espressione troppo matura e seria per quella ragazzina piena di vita che ballava con tanto sentimento.
Questo avevano pensato in molti.
Jairo Lupin era troppo grande, troppo rigido, troppo freddo, per lei.
Con i suoi imperiosi occhi chiarissimi dal taglio severo e i lineamenti duri, marcati, di una spaventosa e marmorea compostezza.
Mani troppo fragili racchiuse, quasi immerse, in altre mani troppo grandi…erano state l’emblema di quella loro disdegnata unione.
Ma lo sguardo dolcissimo che lei gli rivolse era lo sguardo di chi sta cosa sta facendo.
Di chi conosce il proprio uomo.
Il freddo padre di suo figlio.
Gli sorrise, delicata e fragile farfalla, e Jairo Lupin distolse gli occhi, figura muscolosa in uno sfondo buio.
Lei gli si avvicinò, sfiorandogli quelle ciocche bionde che gli ricadevano sugli occhi e lui si scostò bruscamente, allontanandosi e dirigendosi a grandi passi verso casa.
Il portamento da guerriero, la rigidità sciolta in fluidità di un perfetto soldato da guerra.
Si allontanò senza dire parola, chiudendosi la porta di casa alle spalle, scortato dagli occhi neri di Mila Dolores Jonquillo, pieni di rabbia.
La ragazza si risedette, stringendo Remus al seno, scoccando una occhiata a Penelope.
Malinconica, l’amica era rimasta a guardare con un sorriso amaro la sua figura fino a quando non era scomparsa.
- Tuo padre non merita quell’angelo di tua madre. - soffiò Mila all’orecchio di Remus, facendogli il solletico.
Lo disse ad alta voce e con rabbia, sincera ed irruente quanto l’amica era fonte di tranquillità e pazienza.
Penny, così la chiamava Mila, si sedette sul tronco accanto a lei, rubandogli dolcemente Remus dalle mani.
- E’ un dannato bastardo, Pen! - gemette infine la Magonò, con voce esasperata. - Non merita i tuoi sorrisi! - .
Ma la oramai signora Lupin rimase in silenzio, chiudendo gli occhi.
Colma di pace.
- Un sorriso non costa niente e produce molto. – Mormorò, piegando gli angoli della bocca all’insù. - Arricchisce chi lo riceve senza impoverire chi lo da. Dura un istante, ma il suo ricordo è eterno. Nessuno è così ricco da poterne fare a meno, nessuno è abbastanza povero da non meritarlo. Io ho incontrato qualcuno che non sa sorridere, e ho voluto essere generosa, gli ho regalato il mio perché nessuno ha mai bisogno di un sorriso quanto colui che non può donarne ad altri. -
Baciò Remus, che mugolava piano per ricevere sue attenzioni.
Le aveva provocato tanta solitudine, quel bellissimo bambino.
Quanto dolore, per quegli occhi azzurri come il cielo del mattino e quei capelli biondi come il grano.
Ma a quei pensieri, non lo strinse più forte, non gli fece male, non desiderò di vederlo soffocare tra le sue dita.
Semplicemente, sorrise di nuovo.
Le piaceva farlo, era come regalare un po’ di se stessa al mondo, un po’ di vita.
Alzò il viso al cielo, inebriandosi dell’odore della foresta che costeggiava la loro villa e rimase ad aspettare.

<i>[ Ne era valsa la pena. ]</i>

E, finalmente, fu alba.




<i><center>[ E’ per te,
forse non sarà molto.
La tua storia, lo so,
meritava più ascolto. ]</center></i>






Pioveva, quel giorno.
Chissà come mai dentro un cimitero la pioggia è quasi un sollievo, per chi va a trovare i propri cari.
Forse perché le gocce d’acqua, quando trasportano via le lacrime, danno la mera illusione di portarsi dietro anche un po’ di dolore.
Stava in silenzio, Remus Lupin, col capo chino, gli occhi persi, un sorriso sulle labbra.
Gocce di pioggia si intersecavano fra i suoi capelli biondi, scivolando tra gli occhi azzurri, ma non morivano sulla sua bocca: andavano giù, sempre più giù, penetrando nel suo cuore.
La cravatta rosso e oro era slacciata, la camicia sbottonata e fuori dai Jeans, la giacca lasciata inerte su una spalla, tenuta a malapena dalle sue dita fredde e bagnate.
Era insolito, vederlo così.
Lui rasentava la perfezione.
Aveva passato gli ultimi undici anni con suo padre.
Era logico che fosse così.
Perfetto e senza anima.
Il viso di una giovane donna spiccava su una lastra di marmo bianco.
Sorrideva.
Lei sorrideva sempre.
Avrebbe voluto tanto ereditare quella sua scintilla.
Quel suo essere sempre allegra, scatenata, forte.
<i>[ Invece non si era mai sentito così debole come in quel momento. ]</i>



<font size=2><i>[ E magari, chissà,
se io avessi saputo,
t’avrei dato un aiuto. ]</i></font>




A Remus non erano mai piaciuti i cimiteri.
Non era mai andato a trovare sua madre lì, perché sapeva che sotto quella terra non c’era altro che…lurida polvere.
Un cadavere senza più aspetto.
Non avrebbe mai rivisto il suo sorriso, mai più, se non in foto.
Ma in quel piccolo riquadro gli appariva così sprecato…così sottovalutato…
Mentre in quel quadro, quello che segretamente si celava ad Hogwars, nella Stanza Delle Necessità, lì poteva vederlo in tutta la sua luminosità.
Lì sua madre era circondata dai suoi averi, dai suoi oggetti.
Lì era tutto colorato.
Mentre quella tomba era fredda e grigia.
Non le rendeva onore.
Ma Penelope era morta.
Non aveva più voce in capitolo, oramai.
Si sedette su quella ghiaia fatta di sassi, buttando malamente la camicia in un angolo.
Sfiorò quella foto, posò un fiore nuovo sul suo nome inciso nella pietra.
Gesti ipocriti, senza valore.
Se avesse potuto porgergli un fiore tra i capelli, allora sì che lei sarebbe stata felice.
Ma lì, sotto cumuli di terra, non ne avrebbe mai potuto avvertire la delicata fragranza.
Che senso aveva, allora?
Lei, sotto quella pietra levigata, non era altro che polvere.
Non poteva annusare l’aria satura della primavera.
Non poteva annusare la pioggia che gli colava addosso, fredda ed implacabile.
Per questo odiava con tutto il cuore i cimiteri.
Per questo ogni volta che voleva onorare la sua morte pregava in segreto lì, a casa, ad Hogwars.
Nella Stanza delle Necessità, segreta a tutti tranne che a lui.
Il suo angolo privato.
Suo e di sua madre.
Per tutti i suoi diciassette anni .
<i>[ Dio, era passato davvero così tanto tempo? ]</i>
Ma quel giorno aveva sentito qualcosa che non andava.
Una scheggia che aveva rotto tutto il vetro della sua anima.
Era andato in pezzi.
Si era abbassato a quei gesti bugiardi, solo per sentirla un po’ più vicina.
Ma aveva provato solo silenzio.
Che parola amara.
Come il sospiro del vento.

<i>S

i

l

e

n

z

i

o
… </i>








۞۞۞








<center><i>
[ Ma che importa oramai,
ora che…

<b>Puoi prendere per la coda una cometa.</b>

E girando per l’universo te ne vai.

<b>Puoi raggiungere, forse adesso, la tua meta. </b>

Quel mondo diverso che non trovavi mai. ]</i></center>










Sei anni.
A sei anni si possono fare tante cose.
Si impara a capire un po’ come gira il mondo.
Si impara da qualche piccolo flash quale terribile flagello sia la vita umana.
Penelope Lupin aveva dovuto patire molte cose.
L’abbandono.
Il silenzio.
Il disprezzo.
Ma nulla era più seccante della ipocrisia perbenista delle donne altolocate che era costretta a vedere alle feste di routine.
Suo marito, d’altronde, era un grande condottiero.
Frivolezze di questo genere erano d’obbligo.
Era cresciuta, sua madre.
Non ballava più sotto le stelle, accanto ai falò, ridendo alla luna piena.
Ora andava ai festini mano nella mano con suo marito, trascinandosi disperatamente dietro un Remus ormai in grado di connettere quanto fossero squallide cose del genere.
- Mamma, voglio andare a casa. C’è troppo profumo, qui. –
- Tra poco ce ne andiamo, tranquillo. -
Lei gli gettò uno sguardo, ridacchiando.
La cosa bella era che non aveva perso il suo essere speciale e spensierata, nonostante tutti gli sguardi calassero su di lei.
Lei, ragazzina che si era portata a letto un uomo più grande come una puttana.
Lei, che aveva diseredato la sua famiglia per tenersi un bambino a soli diciassette anni.
Lei, la bambina che aveva allargato le gambe al gigante, rimanendone pure incinta.
Lei, lei, lei…oh, ma la gente cosa ne sapeva?
Cosa comprendeva dell’amore?
Se c’era una cosa ce Remus avrebbe scoperto, era che sua madre era migliore di tutte quelle donne là dentro.
Erano loro, le vere puttane.
Loro, che si portavano a letto uomini ricchi senza un briciolo d’amore in corpo.
Ma era troppo piccolo per difendere la sua dolce genitrice.
Troppo spaventato da tutta quella inusuale eleganza.
Si accostò alla sua gonna, timidamente, scorgendo ogni tanto occhi maliziosi puntare su di lui.
Non capiva perché tutti li guardavano di sottecchi.
Cosa c’era di tanto vergognoso nelle piccole mani di sua madre, intrecciate con quelle di suo marito?
- Jairo, è un onore avervi qui. -
Una donna si accostò a loro, coi capelli raccolti sulla nuca, tutta imbellettata con sete e gioielli che le davano un’aria un po’ barocca.
Si lasciò elegantemente baciare la mano, accettando con soddisfazione il capo chinato di Jairo in un decoroso saluto.
Era un bell’uomo, nonostante tutto, suo padre.
Occhi azzurri e seri, mascella quadrata, naso dritto e corpo da guerriero.
- Il piacere è tutto nostro. -
“<i>Dì anche solo tuo.”, </i> pensò Remus con un risolino spontaneo.
Questo portò gli occhi da gatta della padrona di casa su di lui.
- Ma che bellissimo bambino…ha i tuoi occhi, Jairo. Ma questi bei lineamenti… - gli agguantò le guance, e la mano di sua madre s’irrigidì impercettibilmente nella sua. - …questi lineamenti sono molto delicati. Sono dono senz’altro di questa dolce signorina. -
Con la mano ancora artigliata alla guance ancora paffute di Remus, la donna alzò finalmente lo sguardo su Penelope.
Il viso di sua madre s’impietrì, la bocca si serrò, perché lo sguardo che quella sconosciuto le aveva rivoltò era di totale scherno.
- Sì, ha preso molto da entrambi. - chiosò Jairo, stringendo sua moglie tra le braccia. - Siamo molto fieri di lui… -
Era da molto tempo che il signor Lupin aveva imparato a sciogliersi con la moglie in pubblico.
Dapprima teneri intrecciamenti di dita, poi abbracci affettuosi, talvolta baci sfuggenti ma dolci sulle labbra.
Jairo aveva finalmente imparato ad accettarla nella sua vita.
A capire che a lei, gli insulti della gente, non provocavano niente se non cupo divertimento…
Sì, quell’abbraccio era l’emblema della vittoria personale di Penelope.
Lei sorrise di nuovo, il suo viso si distese, quasi con sfida.
Strinse a sé suo figlio con la mano libera, con occhi sereni, e il ragazzino sorrise a sua volta nel vederla segretamente felice.
- Ora fa il timido. - mormorò sua madre, accarezzandogli i capelli di un biondo strano, sul beige.
- Ma è molto sveglio…ama tantissimo i libri. -
- Un piccolo genietto. - miagolò la donna, scostando i boccoli ramati dalla spalla. - Sicuramente ha preso da te, Jairo. -
Oh, quelle frecciatine… Penelope sbatté educatamente le ciglia, trattenendo una risata.
Oh, com’erano così tragicamente divertenti…com’era dilettevole vedere tutta quella ipocrisia attorno a lei e a suo figlio.
Soprattutto perché non li sfioravano nemmeno…al contrario, allietavano una serata di piccoli giochi.
- Da entrambi. -
E Jairo la difendeva sempre a spada tratta, con voce secca e imponente.
La faceva sentire importante: Penelope Lupin, la sua giovanissima moglie.
- Hn. - mugolò quella, sorridendo brevemente. - Jairo, devo parlarti in privato del rapporto che hai scritto dell’ultima missione, comunque. Mio fratello non è potuto venire e quindi risponderò io per lui. So che è il tuo giorno libero, ma… -
- Non c’è problema. - Tagliò corto lui. Si voltò verso Penny e sorrise, con allegria più intensa di qualsiasi colpo di spada. - Tesoro, mi aspetti in giardino, vero? Loana ha un giardino bellissimo, sono sicuro che ti piacerà. -
- Perché no? - ridacchiò Penelope, prendendosi in braccio Remus ed attirando l’ombrosa attenzione di tutti. - Ci sono le <i>Belle di Notte</i>? Io e Remus le adoriamo…purtroppo nel nostro giardino non crescono. -
La donna parve un po’ perplessa, poi fece spallucce con aria di sufficienza.
- Dovreste chiederlo al giardiniere, io non mi occupo mai del giardino. - borbottò, come a disagio.
- Non importa. - cinguettò amabilmente sua madre. - Vorrà dire che le cercheremo. Vero Remy? -
- Verissimo! - confermò con fin troppo vigore il bambino, sorridendo.
- Vi sporcherete il vestito. E’ così…bello. - ghignò Loana, scostando boccoli troppo perfetti per sembrare veri dagli occhi. Aveva iridi scintillanti di malizia.
<i>Cattiveria…</i>
Bisogna proprio uccidere qualcuno, per essere classificato come “cattivo”?
E per essere classificato come “buono”?
Basta solo andare in Chiesa tutte le domeniche, sposare un uomo di fama rispettabile e dare feste fra psico gentiluomini?
Bastava davvero così poco? Si chiese Penelope Lupin, sbattendo di nuovo le ciglia con finto garbo.
- Ho imparato che ci sono cose più gravi, a differenza d’altri. - mormorò gentilmente, voltandole le spalle e levando i tacchi.
<i>Al diavolo la cortesia</i>, si ritrovò a pensare, seduta su gradini in granito, al gelo della sera. <i>Lì dentro mi sembra d’impazzire…</i>
<b><i>Novembre stava arrivando…</i></b>
E con lui la neve, il freddo, l’incanto di una tempesta di nevischio fuori dai vetri opachi delle finestre.
I camini accesi, le cene d’inverno che sapevano essere sempre più calde di quelle d’estate, le notti ancora più infuocate dei primi due.
- Tra poco ce ne andiamo, tranquillo Remy. – mormorò, con occhi vacui.
- L’hai già detto. - fece notare innocentemente il bambino, chino sull’erba a cercar fiori.
- E tu lasciamelo ridire! - rimbeccò lei, buttando uno sguardo alle stelle. – Forse si avvera, se lo dico tante volte! -
- Va bene. Comunque qui mancano le <i>Belle di Notte</i>! -
La voce pericolosamente triste di suo figlio la mise all’erta.
Remus la guardava, con gli occhi già gonfi di lacrime di bambino.
- Non puoi farle apparire tu, con la magia? - mormorò, tirando su col naso. - Io non sono capace… -
Lei era sempre presente, quando lui piangeva.
Le sue mani erano sempre pronte ad accarezzargli i capelli, le guance rosee, gli occhi bagnati.
- Non posso. - bisbigliò con tranquillità. - Che gusto ci sarebbe, così? Sarebbe imbrogliare. -
- Ma la magia non è un imbroglio! -
- Ascolta Remus. - lo zittì lei, con un sorriso. - La magia è una cosa bellissima, ci rende superiori di natura a tanta gente. Ma proprio per questo, è bene non sfruttarla, né esserne troppo orgogliosi. -
- Parli dei Babbani ? - chiese lui, dimenticando il pianto, e la mamma annuì.
- Ci sono persone che credono che loro siano inferiori a noi. Io invece li ammiro. - sospirò lei, con occhi sereni. - Sono persone che, nonostante le difficoltà, sono riuscite a cavarsela senza la magia. Sono sopravissuti, capisci? Non si sono arresi, hanno avuto il coraggio, e l’intelligenza, di adattarsi. -
- Anche io voglio diventare un Babbano! -
Penelope scoppiò a ridere di gusto.
- Oh, nessun mago che ha provato l’ebbrezza della magia riuscirebbe a diventare Babbano e a sopravviverne. Sarebbe buttare via una parte di noi stessi. Siamo fatti di magia, noi maghi. -
Pendeva dalle sue labbra, aveva gli occhi allargati dalla curiosità e dalla meraviglia.
Gli piacevano quelle parole, gli piaceva come lei sorrideva, come chiudeva ed apriva lentamente gli occhi, come gli carezzava il capo.
Doveva esser bello esser fatto di magia.
Lui non aveva mai provato un incantesimo, se non qualche flash in cui si ritrovava sul tetto, facendo prendere veri e propri infarti anche a quel duro di suo padre.
Però aveva ragione la sua mamma: doveva darsi da fare, e il fiore sarebbe stato ancora più bello.
Si concentrò talmente tanto su quel giardino che nemmeno la vide, la bacchetta di sua madre muoversi fluida.
- Hey tesoro, guarda un po’ lì, proprio vicino a quell’albero! -
- No, mamma. - borbottò lui, senza degnarla di uno sguardo, il visetto concentrato. - Lì ho già visto. -
- Voltati e guarda, ti dico! -
- Impossibile! - Remus corse sulla radice, agguantando una magnifica <i>Bella di Notte</i> bianca, con la gemma circondata da una bellissima corona d’oro vivo. - Io qui avevo già guardato! -
- E’ stato il premio per esserti tanto sforzato, evidentemente! -
A Penelope non era mai piaciuto recitare.
Ma per Remus…avrebbe fatto tutte le eccezioni di questo mondo, perché nulla l’appagava di più che unirsi alla sua gioia.
Come avrebbe voluto coprirsi d’euforia per le piccole cose, come lui.
Ma una ragazza può essere due, tre, quattro persone potenziali.
Una donna, invece, può essere una sola delle tante persone: quella che ha ucciso le altre.



<center><i>[ Solo che…
<b>non doveva andar così.</b>
Solo che…
<b>tutti ora siamo un po’ più soli, qui. ]</i></center></b>




- Vado a farlo vedere a papà! - trillò Remus eccitato, scappando sulle scale.
- Sta attento, mi raccomando! - gli gridò dietro la donna, scuotendo i soffici capelli castani.
Avrebbe voluto aggiungere “<i>Non parlare con nessuno</i>”, ma sarebbe apparso maleducato, da parte sua.
Forse, se l’avesse detto, quella sera, molte cose non sarebbero accadute.
O forse sì, sarebbero successe lo stesso, chi lo sa.
Il destino, si sa, è quell’amico crudele che vuole giocare sempre, ma al contempo vuole sempre vincere lui.
Fu un incontro casuale, per niente premeditato.
Stava correndo per l’immenso salone, sventolando il fiore da una parte all’altra, ridacchiando, quando inciampò ai piedi di una porta semi aperta.
Si trattenne dal piangere di nuovo solo perché due voci, dentro la stanza, catturarono la sua attenzione.
E una di queste due voci apparteneva a suo padre.
- Loana, smettila. -
- Al diavolo Jairo, tu puoi ottenere molto di più di una ragazzina spagnola incinta! -
- E’ così che la vedi?! Pensi che stia con lei solo per via di Remus?! Che razza di persona pensi io sia?! -
Il bambino si accostò giusto in tempo per vedere la mano della donna con gli occhi da gatta accarezzargli il viso.
- Una brava persona, Lupin. Ecco cosa credo tu sia. - mormorò con dolcezza. - Ma a volte questo è un male. -
- No. - replicò suo padre, con voce di granito. - No, non questa volta. -
- Sì, invece. - Loana alzò il volume della voce. - Ti sei rovinato, lo capisci?! Fama, celebrità, potere…potevi fare quello che ti pareva, combattevi con l’ardore di un eroe, dannazione! E ora? Sei finito dietro una scrivania…tu! -
- Ho una famiglia, d’accordo?! - ringhiò Jairo, con occhi terribili. - Quella vita è pericolosa, ora! -
- Quella vita ti permetteva di essere te stesso. - mormorò tristemente la donna, abbassando gli occhi. - Quella vita ti faceva essere rispettato da molti. Io ti ammiravo…e ora quella ragazzina senza un quattrino ti ha rovinato la vita. Pensi che alla gente importi che lei era consenziente? Che lei ha le tue stesse colpe? Loro vedono solo ciò che vogliono vedere, Jairo. La colpa è tua, tua soltanto…lei sarà solo e sempre la vittima di un… -
- Un cosa?! - Tuonò improvvisamente lui, facendola trasalire. - Mi credi un pedofilo, per caso?! Pensate questo, di me, vero? Tutti voi…i miei amati colleghi… -
La guardò con una smorfia di disgusto e lei arrossì vivacemente sulle guance.
- No di certo, ma lei era una ragazzina, tu avevi quasi trent’anni! -
- Eravamo entrambi maggiorenni, per dio! -
- Non importa alla gente! – strillò Loana, con le lacrime agli occhi. - Non importa, capisci?! Si sono sentiti traditi…l’eroe che diventa uno di quei ricconi che si sbattono le più giovani! -
- Non importa alla gente… - sibilò Jairo, assottigliando lo sguardo. - … O non importa a te? -
- Non ha alcuna importanza, questo! -
- Sì che ne ha, perché non tollero più che Penny debba sentire le stronzate della gente! Non sopporto le vostre occhiate, le vostre parole…pensi che lei sia una puttanella e che io solo un povero eroe col senso del dovere, beh, ti sbagli! Lei ha mollato tutto, per stare con me! Ha rinunciato alla famiglia, alle amicizie…alla sua terra, per stare con uno che non ha saputo nemmeno frenare il desiderio! -
Probabilmente sarebbe arrivato alle mani, se Remus non si fosse sporto troppo e non fosse caduto, attirando la loro attenzione.
Era un tipo molto glaciale, ma quando si parlava di sua moglie…diventava un’altra persona.
C’era stato un tempo in cui avrebbe ucciso per molto meno senza provare niente se non soddisfazione.
Ma era stato molto tempo fa.
In compenso, i rimorsi sarebbero tornati molti anni dopo, ancora più pesanti.
Remus gelò, quando gli occhi di suo padre puntarono su di lui.
Non aveva combinato mai niente di eccessivamente grave, in vita sua.
Era sempre stato un bravo bambino.
Per questo si spaventò molto, nel venire scoperto.
Anche un bambino di sei anni può capire quando qualcosa è importante.
- Remus! - esclamò Jairo, sorpreso.
- Cazzo… - Loana al contrario si passò una mano sugli occhi, con aria stanca.
Quando Jairo fece per avanzare, Remus trasalì ed indietreggiò istintivamente.
- Cosa fai qui, Remus? - proruppe bruscamente il più grande dei Lupin, con occhi allarmati.
Il bambino rimase in silenzio, con occhi rossi di pianto, la schiena che sussultava in singhiozzi.
- La… - mormorò, stringendo gli occhi. - La mia mamma…non è…una persona cattiva. -
Scappò via prima che potessero fermarlo, veloce come una saetta.
Ecco, fu proprio in quel momento che lo incontrò.
Fu in quel momento che oscure macchinazioni presero ad ingranare contro un bambino di soli sei anni, che non aveva colpe se non quella di essere nato dal padre sbagliato.
Stava seduto al bancone, le gambe accavallate malamente e un lungo mantello nero che lo copriva da capo a piedi.
Silenzioso, in un angolo, come un’ombra che sorseggia Wisky Incendiario.
Il destino è crudele.
Il destino ama giocare.
<i>Il destino… vuole sempre vincere.</i>
Era talmente silenzioso e nascosto nel buio, dietro una meravigliosa pianta grassa trapiantata in un vaso troppo piccolo, che Remus, sconvolto, non lo vide e ci andò a sbattere contro.
Fu come una goccia d’acqua che increspa la liscia superficie di un lago.
Una venatura scheletrica in una levigata parete di cristallo.
Remus non era un Animagus, non aveva il fiuto di un gatto, o di un cane o…o di un lupo.
<i>[ Non ancora, almeno. ]</i>
Non aveva particolare sesto senso ed era stato classificato come un moccioso prettamente nella norma.
Eppure lo sentì lo stesso.
Come una mano gelida e bagnata che gli carezzava con terribile dolcezza la schiena.
Un odore piccato permeava nella pelle di quell’uomo, avvolgendolo come una barriera invisibile.
Un sapore forte, come quello di una bestia selvatica.
Remus, in quel suo malsano e naturale profumo, v’intravide terra, animali e foresta.
Ma solo un sapore soverchiava tutti gli altri.
<i>L’odore del sangue.</i>
Quando poi l’uomo chinò il capo su di lui, scostando il nero cappuccio dal viso…Remus scorse qualcosa.
Come una gemma, brillante nel buio, ammaliatrice e perversamente dilatata, come folle.
Di un colore un poco più caldo dell’avorio, la pupilla insolitamente piccola, come sommersa da tutto quel scintillare.
- Ma tu guarda… -
Tolse il cappuccio del tutto, rivelando un ghigno divertito e una folta chioma di capelli di un colore marrone - grigio, sporchi ed arruffati.
Aveva un viso che pareva trasformarsi al suo sorriso, diventando come una maschera di un clown mal venuta.
Possedeva lineamenti duri e spigolosi, basette imponenti e…canini affilati come rasoi.
Remus incassò la testa nelle spalle, intimorito da quel ghigno malsano.
- Scusi… - mormorò impercettibilmente, con gli occhi sgranati e il viso pallido.
Trasalì quando la mano dell’uomo artigliò la sua spalla.
Aveva unghie appuntite, sporche di terra e…di qualcosa di più scuro.
- Ma che bel bambino abbiamo qui… -
Aveva un tono flautato che col suo timbro di voce, roco e raspato, stonava molto.
- Scommetto che sei il figlio di Lupin. -
Era come ipnotizzato.
Non riusciva a muovere un muscolo, aveva le gambe paralizzate dalla paura, per cui si limitò ad annuire piano.
Gli occhi gialli dell’uomo scintillarono di nuovo, con più intensità, a quel suo timido gesto.
- Sì. Gli somigli. - constatò, senza dar impressione di lasciargli la spalla. - Quindi anche tuo padre è qui. -
Remus annuì di nuovo.
- Immaginavo. Ho sentito la sua insidiosa presenza, in questa lurida bettola di castello. Sai marmocchio, quasi ci speravo… -
- Lei c - conosce il mio papà? - Il piccolo Lupin ebbe la forza di parlare, e lo fissò negli occhi.
Lui per tutta risposta scoppiò a ridere sguaiatamente.
Doveva fumare molto, perché aveva perennemente il timbro roco e raspato.
- Ma come è educato, il cucciolo dei Lupin… - sghignazzò. - Proprio un principino, nevvero? Probabilmente sei cresciuto in un ambiente molto sicuro e non hai mai dovuto lottare per niente. -
La sua presa si fece più ferrea, e Remus iniziò a tremare impercettibilmente.
Provò l’intenso desiderio di scappare via.
Quell’uomo gli faceva paura.
- E dimmi… - mormorò quello, tornando serio. - E’ bello crescere nella bambagia, moccioso? Sì, devi essere stato molto viziato da Jairo e la sua adorabile mogliettina, tu. Hai i capelli profumati e vestiti puliti. E questa pelle… - gli agguantò una guancia, avvicinando il viso a quello del bambino. - …Morbida come seta e chiara come latte. E’ la pelle degli angeli. Deve essere davvero molto…<i>buona</i>. -
- La mia mamma dice sempre che sono un angioletto. Ma io sono solo Remus. - Si stizzì lui, arrossendo.
- Sì, tu sei solo Remus. - sorrise con terribile dolcezza lo sconosciuto, accarezzandogli i capelli.
- Ciò non toglie che la tua pelle deve sapere di latte. Sono curioso, devo ammetterlo. Ma verrà il tempo. -
- Cosa? -
<i> - Verrà il tempo in cui lo saprò, se sai di latte. – </i>
- STA LONTANO DA LUI!!! -
Un urlo superò la loro conversazione.
Un raggio di luce sorpassò il bambino, sfiorandogli la guancia come un bacio sfuggente.
L’uomo davanti a lui fu come spazzato via, e picchiò contro il muro, accasciandosi.
Fu una delle poche volte in cui suo padre gli fece veramente paura.
I suoi occhi non avevano niente di malinconico o di normale.
Sembravano fiamme azzurre che danzavano fra le sue ciglia, sprizzando chiare scintille tutt’attorno.
La bacchetta ancora fumante in mano, lo agguantò, tirandoselo dietro di sé.
Poi si voltò con occhi ridotti a taglienti fessure verso l’incappucciato, che stava ridendo sommessamente.
- Figlio di puttana, non credevo arrivassi fino qui dentro, sotto il naso di tutti… - sibilò, stringendo i pugni.
Tutt’attorno, la gente aveva estratto le bacchette magiche.
Penelope accorse immediatamente, e gemette quando vide la scena.
Si tuffò su suo figlio, stringendolo al seno e non mollandolo più, nemmeno per un istante.
La sua calda pelle spagnola divenne cerea quando lo sconosciuto le puntò contro il dito.
- Oh Jairo, quel bel bambino assomiglia tutto a te. Ma ha i tratti dolci di sua madre. -
- Che cosa vuoi, bastardo? - soffiò il signor Lupin, la bocca talmente serrata che i denti sfrigolarono tra loro. - Oh, non ha importanza…perché tra poco sarai sbattuto ad Azkaban... -
Un’altra risata vischiosa, che fece gelare tutti i presenti.
- Tutto questo tempo che non ci vediamo…e rimani sempre il solito idiota presuntuoso, mio buon amico… -
- Mai stato amico tuo, Fenrir Greyback. -
Quel nome traforò Remus come una spada.

<i>F e n r i r G r e y b a c k…</i>

- Oh, ma lo so… - miagolò il Lupo Mannaro, con voce divertita. - Tu mi odi, nevvero? Tu mi sei sempre stato alle calcagna... hai smesso solo per sbatterti una ragazzina… -
La bacchetta scintillò di nuovo, ma Lupin rimase fermo e silenzioso.
Aveva un incredibile sangue freddo, lui.
Peccato che Penelope era scoppiata in singhiozzi ed aveva stretto di più il suo bambino contro il ventre.
- Cosa vuoi da mio figlio?! - strillò, nel panico. - Perché gli stavi parlando?! -
- Oh… piangi per lui, signorina? - ringhiò Fenrir, ridendo di nuovo. - Oh… il tuo bambino è davvero cresciuto nella bambagia… -
- Perché se venuto qui, sotto gli occhi di tutti noi? - ringhiò Jairo, la bacchetta saldamente puntata sul cuore del suo peggior nemico. - Cosa stai progettando, dopo anni di silenzio? -
E…le iridi di Fenrir Greyback si dilatarono ancora di più.
Eccitati, ammaliati.
Esaltati da qualcosa di terribile.
Gli occhi di un folle.
E fissava il figlio del suo peggior nemico leccandosi le labbra come un lupo mentre guarda l’agnello.
- Cosa ho in mente, mi chiedi? - soffiò, con voce resa ancora più roca dall’eccitazione. - Oh…oh, oh, oh… -
- Cos’hai da ridere?! - ruggì Jairo, perdendo il controllo. - Ti diverte così tanto la tua immediata morte?! Non è così, <i>ibrido</i>?! -
- IBRIDO?! - saltò su il mago Nero, ridendo a voce più alta. - Tu, schifoso umano! Tu, essere inferiore! Tu non sai nemmeno cosa ci sia in ballo, qui! -
- Oh, sono sicuro che lo spiegherai benissimo all’interno Winzegamot, prima di morire… -
- Feccia d’un Auror, tu…tu assaggerai l’amaro sapore dell’innocente tuo sangue… -
Fenrir si fece avanti, circondato da bacchette incandescenti che gli puntavano al petto, pronte a sputare morte ad un solo suo gesto avventato.
- Tu? Il mio sangue? - lo beffeggiò Jairo, con occhi arroganti. - Non ho mai avuto paura della morte, Greyback…dovresti saperlo, dopo anni di lotta. -
Ma Greyback sorrideva ancora, con occhi quasi impietositi.
- Oh Jairo… non è il tuo sangue ciò che voglio… -
Quando il suo occhio d’avorio parò sulla sua famiglia, Jairo Lupin impallidì di terrore per la prima volta in vita sua.
Ma riprese presto il suo autocontrollo e la sua voce sicura.
- Non ci riuscirai mai, lupo nauseabondo… -
- Una nuova era, Lupin, tieni a mente le mie parole. Il tuo sangue servirà ad un progetto che solo una mente grande come il cosmo può costruire… una nuova creatura…più potente di tutti noi, senza legami con la luna piena. <i>L’eterna Bestia…</i> -
- TU NON CI RIUSCIRAI MAI, HO DETTO!!! -
Fenrir non mostrò nulla se non cupo divertimento.
Si spazzolò il logoro mantello e si accese un sigaro sotto i loro occhi, tranquillo.
- La tua superbia e la tua arroganza ti distruggeranno, non molto tardi. Tu, Jairo Lupin… - lo fissò attraverso le ciglia, con sguardo intenso. - …<i>Tu perderai ogni cosa</i>. -
Poi si voltò verso il bambino, leccandosi le labbra e scoprendo i denti in un gesto osceno.
- <i>Ti piacerebbe avermi come padre, Remus</i>? - mormorò con voce di zucchero, ma il piccolo Lupin non rispose.
Non ne ebbe il tempo.
Fenrir si dissolse come fumo ancor prima che Jairo scattasse contro di lui.
L’uomo ruzzolò a terra, ma si rialzò subito.
- TROVATE QUEL BASTARDO! - Ruggì, fuori controllo. - TROVATELO!!! -
Non aveva potuto rispondergli, Remus.
Non avrebbe potuto mai.
La decisione era qualcosa che, quella sera, gli era stata negata.
Lui, come i morti, non aveva voce in capitolo.
E mentre la gente correva, attorno a loro, Penelope affondò il viso nei capelli di suo figlio, in lacrime.
- Stava solo scherzando, amore mio… - mormorò, con voce tremante. - Non lo vedrai mai più… -
Ma non sapeva quanto si sbagliava.
Per tutte e due le cose.






۞۞۞






<i><center>[ E’ per te,
questo fiore che ho scelto.
Te lo lascerò lì,
sotto un cielo coperto. ]</center></i>






Sembravano ore, quelle in cui rimase a guardare i petali del fiore che danzavano al ritmico impatto con le gocce d’acqua.
Una <i>Bella di Notte.</i>
Sempre e solo <i>Belle di Notte</i>, su quel gelido marmo levigato.
Era in ginocchio, Remus Lupin, e l’acqua della pioggia continuava a colargli sul collo, sfiorandogli la schiena.
Terribile come la mano gelida che lo aveva carezzato quando aveva incontrato il suo destino.
<i>Lui…</i>
Deglutì a vuoto, sentendosi l’aria ghiacciarglisi nei polmoni.
<i>Maledetto terrore…</i>
Poco distante, qualcuno parlava.
Voltò piano il viso, i capelli appiccicati alla fronte, fradici.
Un funerale.
Nemmeno il pianto straziante della madre, o forse della moglie, era riuscito a svegliarlo da quei pensieri.
Chissà da quanto erano lì.
Da molto, probabilmente, poiché quella donna che continuava a piangere a voce alta pareva avere ormai occhi prosciugati.
Lacrime…
Anche il cielo piangeva.
Il cielo era come il destino.
Si divertiva a nascondere il suo dolore, mescolandolo con la pioggia.
Povera donna.
Derisa dalla vita.
Se solo avesse alzato il capo e fissato negli occhi il suo destino, orgogliosa e fiera…gli sarebbe apparsa meno patetica.
Incassò la testa nelle spalle, come tanti anni indietro, sentendosi quasi un disturbatore al loro dolore.
Era poco più di un nugolo di persone, tutte nere, tutte ingobbite, come rozzi birilli in bilico tra il vivere o il morire.
Avrebbe voluto urlare loro di alzare la testa.
Di sfidare la sorte crudele che li derideva.
Di mostrare orgoglio, come un Grifondoro.
Ma non si mosse, non fece nulla, non osò fiatare.
Anche lui, un tempo, aveva pianto, aveva chinato il capo, si era mostrato debole.
Ma non più.
La debolezza è qualcosa che un lupo non può permettersi.
E poi…le sue lacrime si erano prosciugate, oramai.

<i> - Caro ad carnem…cinis ad cinerem… pulvis ad pulverem…* - </i>


Polvere.
Lei non era nient’altro che polvere, là sotto.
Si sentiva gli occhi acquosi, come una patina sottile che gli intorpidiva i sensi.
Le dita erano ormai gelide, indolenzite e rosse.
Quando parlò, gli uscì condensa dalle labbra.
<b><i>Stava passando Novembre…</i></b>
- Quest’oggi papà e Adele sono partiti a prendere Rufeus. Torneranno verso le cinque. -
<i>[Lei non ti può sentire, malandrino…]</i>
- Ho trovato la tua foto nel cestino, stamattina. Probabilmente l’avevo dimenticata in casa e Adele ha fatto il resto. D’altronde lei è la nuova signora di casa Lupin. Non vuole rivali…anche se…se sotto terra. -
<i>[ Lei è morta, malandrino… non può più decidere…] </i>
Alzò il volto al cielo, chiudendo gli occhi, sospirando piano.
Una melodia vittoriana, un fragore di tuoni e fulmini, lo sciabordio dolce dell’acqua.
<i>[ La pace… la sua pace…]</i>
- Mi sento molto stanco, mamma. - mormorò, sentendosi le palpebre pesanti. - A volte penso alle note di una canzone. E vorrei urlargliele in faccia. “<i>I've become so numb, I can't feel you there, I've become so tired, so much more aware. I'm becoming this all I want to do, Is be more like me and be less like you</i>.” * -
Era tardi.
Doveva andare.
- Vorrei urlarlo in faccia a colui che dice d’essere mio padre. -
La pioggia finì.
Uno spiraglio di sole si strofinò contro la morbida consistenza delle nubi.
E Remus J. Lupin sorrise di nuovo senza più amarezza.
- Ma ho imparato una cosa importante, tempo fa. - bisbigliò. - Finché hai una persona da proteggere, devi continuare. E io l’ho trovata. -
Voltò le spalle a quella tomba, a quella foto dal sorriso ormai sbiadito, dagli occhi ormai opacizzati dal tempo.
Novembre stava passando.
Il funerale, poco più avanti, era concluso.
La gente se ne andava velocemente, come sollevata, il prete chiuse il libretto delle preghiere e scomparve come un fantasma.
Ma la donna che aveva pianto con tanto fulgore era immobile sulla tomba, inginocchiata nel fango come lo era stato lui pochi attimi prima.
Senza più lacrime, oramai, aveva raggiunto il punto d’incontro.
Se restare indietro o andare avanti.
Remus si avvicinò silenzioso, senza una espressione, la giacca di Jeans ancora buttata sulla spalla, resa pesante dal suo essere bagnata.
Si chinò piano, facendo scappare alla signora un gemito di sorpresa, e posò la <i>Bella di Notte </i> sulla tomba di un uomo anziano.
Sua madre non ne aveva più bisogno.
Lui, non ne aveva più bisogno.
Perché Remus J. Lupin, in quel cimitero, non sarebbe più tornato.






<center>[ Mentre guardo lassù,
<b>sta passando Novembre…</b>
e tu hai vent’anni per sempre.

Ora che…
puoi prendere per la coda una cometa.
E girando per l’universo te ne vai.
Puoi raggiungere, forse adesso, la tua meta.
Quel mondo diverso che non trovavi mai.
puoi raggiungere, forse adesso, la tua meta.
quel mondo diverso che non trovavi mai…]</center>






۞۞۞







Le scarpe di sua madre producevano come ritmatiche ed ovattate melodia, sul parquet in legno dell’ingresso.
La gonna le frusciava attorno alle gambe con vibrazioni fluide, come un fantasma che si strusciava contro la sua pelle.
I riccioli castano chiaro parevano tintinnare ad ogni suo estenuante passo, scivolando spumosi sulla camicia di raso color crema.
Un tuono ghermì il silenzio, facendolo proprio.
Un lampo spaccò il cielo, scheletro luminoso appena visibile dietro il vetro sfuocato di casa Lupin.
La dimora era immersa nel buio più completo.
Remus, accucciato in un angolo sulle scale, si stringeva le gambe e batteva i denti dal freddo.
Era passato esattamente un anno.
Esattamente lo stesso giorno di Novembre, freddo e secco, in cui lo aveva visto per la prima volta.
Sette anni.
Aveva quasi sette anni e sapeva ragionare come uno di venti.
Il viso tirato, la mascella contratta e gli occhi terribilmente seri, senza più la scintilla luminosa del suo essere fanciullo.
Fuori, il temporale sembrava impazzire.
Il cielo era nero, omaggio di nuvole grandi e squadrate, come una immensa cattedrale a cupola.
Il tempo stava cambiando.
Suo padre era la fuori.
Ogni notte, a partire da quella serata di un anno fa, suo padre usciva a cercare quel Fenrir Greyback, con una ossessione quasi morbosa.
Ma era pericoloso uscire quando calava il sole, specialmente se in cerca del Lupo Mannaro più famoso della Gran Bretagna, forse del mondo.
Ogni sera, sua madre si consumava le scarpe davanti alla porta, mordendosi le unghie fino a farle sanguinare.
Non poteva andare avanti così.
Suo padre la stava facendo ammalare.
Era come se il giorno l’avesse resa prigioniera, lei, <i>Bella di Notte</i>, impedendole di aprire ancora i suoi petali alle stelle.
E quella sera, Jairo Lupin non era tornato alla solita ora.
Era in ritardo di tre ore.
Era successo qualcosa.
- Lui… - mormorò Remus, con sguardo cupo. - Non…non arriverà più, non è vero? -
Penelope si voltò verso di lui con occhi sgranati.
- Ma che sciocchezze dici, Remus?! - lo sgridò, agitata, fondandosi su di lui per abbracciarlo. - E’ solo un po’ in ritardo, magari è nato qualche pasticcio col lavoro…il Ministero non è perfetto…forse sta finendo delle pratiche… -
- Perché mi menti?! - urlò il ragazzino, balzando in piedi. - Non sono più un bambino! Lui non è al lavoro, lui sta cercando di uccidersi con quel Lupo Mannaro! -
Si era liberato dell’abbraccio di sua madre.
Non l’aveva mai fatto.
Si morse il labbro inferiore, accorgendosi di averla ferita, osservando quel lampo di disperazione attraversarle gli occhi.
- Mamma…scusami… -
Il telefono squillò proprio in quel momenti, facendoli balzare per aria.
Non si erano mai abituati a quell’oggetto Babbano, benché forse utile.
Penelope si fiondò sulla cornetta, quasi urlando il - Pronto?! - che uscì dalle sue labbra.
Il giovane Lupin rimase impietrito ad ascoltare la conversazione, certo che, quella volta, suo padre fosse morto.
- Mila! Come…Sta arrivando?! FERITO?! Ma cosa è…oddio! -
Riattaccò senza salutare, vedendo un uomo stagliarsi sull’entrata.
Si portò una mano alla bocca, sgranando gli occhi, che presero a riempirsi di lacrime.
Jairo Lupin gettò a terra il mantello, reggendosi allo stipite della porta con aria esangue.
Quando fece per cadere in avanti, trovò le fragili braccia di sua moglie cingerlo alla vita, sostenendolo con una forza che non si sarebbe mai aspettato.
Remus rimase congelato sul posto, nel vederlo.
Il fianco gli sanguinava, la maglietta era inzuppata dell’acre e scuro liquido.
- Papà! - gemette, sbiancando. - Papà!!! -
- Remus! - ordinò sua madre, perdendo ogni forma di dolcezza. - Delle garze, subito! -
- No…lascia stare… - mugugnò lui, cadaverico e con occhi assottigliati. - Si sta rimarginando da sola… la pozione sta facendo effetto. Tra poco starò bene. -
La strinse forte, chiudendo gli occhi ed affondando il viso in quei boccoli che tanto amava.
Si sentì morire, nell’avvertirla tremare e singhiozzare contro il suo petto.
- Mi dispiace… - mormorò, con voce incrinata dal dolore. - Mi dispiace, Penny… Non piangere… Non mi ha fatto niente…Non era trasformato… -
- Potevi morire! -
- Io…ero così vicino dal prenderlo…ma mi è sfuggito… -
- Basta, basta! - strillò lei con voce impastata, la bocca premuta sulla sua maglietta. - Basta, Jairo, basta! Non voglio più che te ne vada da questa casa! Non voglio più passare le sere a sfinirmi perché non ti vedo arrivare! -
Remus rimase immobile nel vedere suo padre stringerla forte fino a calmarla.
Lei, che appariva così piccola, attaccata alla sua vita col viso rigato di lacrime.
Lui, con le mani troppo grandi su spalle troppo minute.
Il gigante e la bambina.
E quel loro bacio disperato ed intriso di lacrime e sollievo… lo lasciò senza fiato, perché parole si distillarono nella sua mente senza che lui le stesse pensando.
<i>“Fa che possa durare…”</i>
Cosa…significava?
Si avvicinò piano, con i bellissimi occhi chiari allargati da una paura non ancora del tutto passata.
Si sforzò di sorridere, con i tratti del viso tesissimi.
- Ben…ben tornato, papà. -
Avevano sempre avuto un rapporto strano, loro due.
Lui era sempre stato freddo ed autoritario.
Ma Remus non aveva mai ammirato una persona così tanto.
Remus, a quei tempi giovane ed innocente, adorava suo padre più della sua stessa vita.
Come Penelope.
Lo adoravano.
I suoi occhi gelidi, il suo carattere severo e poco affettuoso, i suoi modi bruschi.
A loro bastava.
Che dio li perdonasse…ma a loro bastava quello.
E mentre sentiva quelle dita da guerriero infrangersi nei suoi capelli, quelle parole tornarono.
<i>“Fa che possa durare, Remus J. Lupin…”</i>
Lo spiazzarono, lo lasciarono di nuovo senza fiato, col ghiaccio nei polmoni.
- Rem, prendi il latte fuori… - mormorò Penelope, tirando sul col naso. - Ora andiamo su e ti rimetti in sesto con del latte caldo. Poi…poi vedremo cosa fare. - ordinò poi, rivolta verso suo marito.
Quando Remus avvertì l’aria fredda sul viso, appena dopo l’uscio di casa, si rese conto che no, non sarebbe durata.
Rimase immobile, con il latte stretto convulsamente tra le mani.
La notte era troppo crudele, quel periodo di Novembre.
La piccola foresta che circondava la loro villa lo aveva sempre fatto sentire al sicuro, protetto.
Ora lo paralizzava dalla paura.
Era troppo nera.
Troppo fredda.
Troppo estranea.
Piena di ombre che fluttuavano spietate.
Quando una di loro si staccò dalle altre, il ragazzino non riuscì a muoversi, non riuscì a gridare aiuto.
Si limitò a sbiancare, ad indietreggiare fino a quando non sentì il muro di casa sua pigiare sulla sua schiena.
Non un gemito gli sfuggì quando unghie affilate lo artigliarono per i capelli, stringendo.
Aveva gli occhi sgranati e fissi, ipnotizzati quasi, su altre due iridi color dell’avorio più compatto.
Fenrir Greyback ghignava divertito e spietato, lo sguardo dilatato e folle fisso su quello che sarebbe diventata la sua preda prediletta.
Oh, quanto tempo aveva atteso la vendetta…
Ferire fisicamente Lupin non era bastato.
No…lui voleva Remus.
Voleva il bambino.
- Ci rivediamo, moccioso… - grugnì, come estasiato dalla sua paura. - Il paparino sarà già in casa, immagino. Oh, si sta crogiolando nella vergogna di essersi fatto sfuggire uno schifoso ibrido come me… -
Odorava come quella volta.
Non aveva mai dimenticato quell’odore.
Terra, animali, fango.
E sangue.
Questa volta, però, sapeva a chi apparteneva.
Avrebbe potuto urlare a suo padre di raggiungerlo e salvarlo.
Sarebbe bastato così poco…
Ma la voce era come mozzata lì, in mezzo alla gola.
- Non aver paura, Remus. Io ti darò un nuovo aspetto… - mormorò dolcemente il Mannaro. - Io e te saremo i prescelti, ragazzo mio. Il creatore e la creatura. Un nuovo essere, cucciolo dei Lupin. Un lupo eterno e più forte di qualsiasi altro. Sarai venerato come un dio. -
I suoi denti scintillavano ad ogni lampo.
Era una sua impressione, o stavano diventando sempre più aguzzi…?
- Sai perché ho scelto te? Sai a chi devi rivolgere la tua rabbia? A tuo padre. - continuò ancora. - E’ stato lui, col suo essere così arrogante, col suo continuo darmi la caccia…ad attirarsi la mia vendetta. Pagherà le conseguenze delle sue azioni. Soffrirà, Remus, come non ha mai sofferto. Riuscirò a scalfire quel suo volto di pietra. -
Un lampo squarciò di nuovo il cielo, con un rumore secco.
- Sai, all’inizio la mia idea era puntata sulla tua splendida madre. Ma perché rovinare un corpo tanto bello? Perché sfregiare quella pelle tanto liscia ? E poi… - aggiunse, sghignazzando. - Lo sanno tutti che i bambini sono più buoni… -
Al sentir il nome di sua madre, Remus Lupin parve riacquistare la lucidità.
- No! Lasciami! - strillò, strepitando. - Mamma! Papà! Aiuto ! -
Ma era troppo piccolo.
Troppo esile.
- Basterà un colpo per trasformarmi nel tuo Secondo Padre. Un altro intarsiato di filtro Nero per rendermi il creatore di un essere perfetto. Solo due morsi… -
Remus sentì i capelli tirare nella presa e lacrime di dolore e paura presero a pungergli gli occhi.
Fu costretto ad alzare il viso, a guardare Fenrir levare la bacchetta al cielo e a scalfire le nubi.
Uno spiraglio.
Sempre più grande.
E poi…il cielo, sereno, senza più tempesta.
Un volto bianco e ipocrita che fece capolino dalle nuvole, circondato da stelle.
Piena.
Quella che sarebbe stata la sua eterna dannazione lo fissò con crudeltà per la prima volta in vita sua.
La luna piena lo aveva appena tradito.
- E’ troppo tardi, piccolo. -


Fu un istante.
Un languire di candela ad una brezza strana, diversa.
La sensazione che qualcosa non andava li raggiunse prima d’ogni cosa.
Si bloccarono entrambi, la lampada ad olio cadde di schianto, infrangendosi.
Quando Penelope sentì gridare suo figlio come non a aveva mai gridato prima, credette di essere sul punto di morire.
La mano di Jairo, congiunta nella sua, strinse forte e prese a tremare.
Gliel’avrebbe spezzata, talmente aveva paura.
Divennero cerei entrambi, entrambi sbarrarono gli occhi.
Era lì.
Fenrir era lì.
E aveva tra le mani il loro unico figlio.
- Jairo…il bambino! - strillò la donna nel panico, tuffandosi verso la porta della camera.
- PENELOPE STA IN CASA! - urlò Jairo, dando un terribile colpo di reni.
Avvertiva il cuore battere come non aveva mai battuto.
Velocissimo, pompava potente il sangue facendolo defluire al suo cervello, rendendolo cieco a tutto.
Il dolore giunse immediato, la ferita al fianco prese a sanguinare di nuovo.
Cadde dal letto, picchiando contro il pavimento.
Fece per rialzarsi ma urlò di nuovo, mentre mille spilli acuminati sembravano pungere lo squarcio nella sua pelle.
Paura.
Non ne aveva mai provata così tanta.
Allungò disperatamente la mano, urlando ancora, più forte.
Penelope non tornò indietro.
Fuori, la luna piena splendeva ammaliatrice e perversa in un tessuto nero coperto di nuvole.
Fenrir, il suo peggior nemico, era là fuori, in casa sua.
Aveva superato le barriere poste da lui stesso.
Stava attaccando la sua famiglia.
E lui…non poteva fare assolutamente niente.
Non poteva difendere sua moglie.
Non poteva aiutare suo figlio.
- REMUS! REMUUUUS!!! -
Sentì strillare la donna e tentò di muoversi ancora, ma il male lo interruppe di nuovo, smorzando i suoi sensi, annebbiandogli la vista.
Al piano di sotto, Penelope assisteva ad una scena che non aveva visto nemmeno nei suoi incubi peggiori.
Remus, il suo Remus, era a terra, col viso rivolto al terreno, coperto dalle esili braccia.
Non si muoveva.
Era coperto di sangue.
Per un attimo le parve d’impazzire.
Si risvegliò solo quando Remus urlò di nuovo.
<i>Vivo…era vivo…</i>
Stava già per ringraziare dio, il diavolo, chiunque l’avesse salvato, quando scorse un …mostro.
- MAMMA SCAPPA!!! -
Un enorme mannaro nero come il petrolio.
Con occhi gialli e malati, folli, terribili.
E aveva le fauci sporche dal sangue del suo bambino e…qualcos’altro, un liquido nero e vischioso.
Forse un veleno.
- No…no! - gemette, sentendo le gambe tremarle.
Lo vide puntare di nuovo suo figlio, il suo collo, questa volta, e non ragionò più.
- NOOO! -
Quando Remus Lupin vide sua madre gettarsi su di lui, ella gli apparve come un angelo.
La gonna che danzava attorno alle sue gambe, frustandole, gli occhi dolci dilatati di terrore, le braccia calde che lo strinsero forte e non lo lasciarono più andare.
Aveva come una più vasta percezione della realtà: tutto, dal profumo al colore, gli apparve più vivido che mai.
Era lì, con lei.
<i>Tutto era finito, </i> urlò la sua mente di bambino. Anche il dolore atroce che lo aveva avvolto sembrava essersi spento.
Il suono di uno squarcio riempì l’aria.
Vide il viso di sua madre serrare le labbra, sbarrare gli occhi, irrigidirsi e sbiancare.
Sentì qualcosa di caldo colargli sull’addome, dal corpo di quella donna che sorrideva sempre, che lo faceva sentire sempre al sicuro.
Poi…una striscia rossa.
Giù dall’angolo di quella bocca che aveva baciato con tanta passione suo padre.
I suoi occhi lo terrorizzarono più d’ogni altra cosa, quella sera.
Non sentì il dolore, non sentì il freddo pungente, né la paura di essere rinchiuso in un incubo.
Vide solo…i suoi occhi spaventati diventare…vitrei.
Poi, un raggio in lontananza, l’urlo di dolore del lupo Mannaro.
Lo spasimo immane che lo raggiunse di nuovo, annebbiando la sua mente.
Infine, il buio.
Solo e fottuto buio.



Fu come un sogno ad occhi aperti.
Urla, gente che lo toccava, maghi che gli gettavano addosso garze.
Suo padre che ruggiva qualcosa, suo padre che aveva perso il controllo, suo padre terrorizzato.
Sentiva dita esperte lenire ogni dolore, persone con la mascherina addosso che gli parlavano, cercavano di farlo stare sveglio.
Infine…il silenzio.

Si svegliò di scatto, alzandosi sul suo letto morbido e caldo.
Solo un sogno.
Lo credette davvero, fino a quando non tastò la sua fronte, trovandola bendata.
Cercò di muoversi, ed una fitta lo fece urlare di nuovo.
Aveva tutto il torace rigidamente bendato, e la testa gli scoppiava.
Il sole illuminava ogni cosa, lì dentro, scaldando la sua pelle.
Non sapeva da quanto aveva dormito, se da ore o da giorni.
Non sapeva nemmeno perché si sentiva così…strano.
Come…rinato.
Poi…voci soffuse, dietro la porta.
Come tanto tempo fa, ad una festa per ricchi.
Solo che…tremò, nel sentire suo padre…piangere.
- Non c’è…nient’altro che lei… -
- Jairo, mi dispiace. Davvero. Ma devi pensare a tuo figlio, devi trovare la forza di non piangere così. -
- Ha ragione. Può andare. Potete andare tutti quanti. -
- Jairo… -
- FUORI DAI PIEDI, HO DETTO!!! -
La sua porta venne spalancata con violenza.
Suo padre irruppe nella cameretta.
Sembrava aver perso l’uso della parola.
Il suo viso…sarebbe rimasto in eterno come in quel momento.
Tormentato dai sensi di colpa.
E …privo di vita.
Terribilmente privo di vita.
Poi, senza osare fiatare, strinse Remus al suo torace come Penelope aveva sempre fatto.
La mancanza di sua madre, a stringerlo, lo allarmò.
- Dov’è…dov’è la… -
- In camera. Sta riposando. Io… - Jairo aveva la voce roca. - Io…devo dirti una cosa. -





Splendeva un sole non troppo caldo ne troppo freddo, in camera dei suoi genitori.
Leggero, le baciava la pelle.
Morbido, le sfiorava le labbra.
Spigliati, giocava con la luminosità dei suoi occhi …stanchi.
Mortalmente stanchi…
Penelope sorrise.
Sorrise anche lì, immobile in quel letto, affaticata da una vita che…si stava lentamente spegnendo.
Accompagnata dalle grida di dolore di suo figlio Remus.
Poi, volando piano il capo, allungò una mano olivastra e sfiorò le sue guance, intarsiate di lacrime.
- Non piangere. - mormorò, con voce bassa. - La tua voce ha urlato troppo, l’altra notte. Non farti del male urlando ancora. -
Quando lo vide tremare al solo ricordo, una fitta di atroce dolore le mozzò il fiato in gola.
- Oh bambino mio… - sussurrò con voce tremante, e se lo portò vicino, accanto al suo letto. - Come hanno potuto farti questo… -
Si morse le labbra quando avvertì le braccia piccole di suo figlio cingerle il collo e il suo viso affondare nei suoi capelli.
Il dolore e la disperazione la soffocavano, ma doveva mostrarsi forte.
Per lui e per Jairo.
Forte come non il suo corpo non era mai stato.
- Ascolta Remus… - soffiò, stringendo i denti. - Ascoltami…non cambierà nulla in te. Non…non sei diventato diverso da quello che sei. Tu sarai sempre il…il mio Remus. Solo… - Ridacchiò, stupendolo. - <i>Solo un po’ più lupacchiotto</i>. -
E Remus alzò il viso, fissandola negli occhi.
Soffriva.
Era dilaniata dal dolore.
Eppure…lei aveva la capacità di rendergli tutto più facile.
Quando suo padre gli aveva parlato, si era sentito morire.
Ora…era sempre uguale, ma trovò la forza di sorridere, fra le lacrime.
Forte.
Solo per lei.
<i>Lei che stava…morendo…</i>



<center><i>[ Solo che…
Non doveva andar così.
Solo che…
tutti ora siamo un po’ più soli…]</i></center>






- Non te ne andare. Ti prego…ti prego non mi lasciare solo… -
- Non lo sarai. Tu non sarai MAI solo. -
- Voglio che resti!!! -
Il suo grido non la spaventò, non la fece arrabbiare.
La fece sorridere di nuovo.
Sorrideva ancora.
E ancora.
E ancora.
Ma poi tornò seria, e gli accarezzò il volto, trafiggendolo con lo sguardo.
- Ascoltami, ora. - mormorò. - Remus, la tua vita non sarà facile. Ci saranno momenti in cui…in cui soffrirai, soffrirai molto. Un lupo Mannaro è un anima divisa in due. Un Lupo Mannaro è isolato, è disprezzato, è temuto, è odiato. Un Lupo Mannaro non può permettersi di…di avere una esistenza normale. Io non potrò esserci, per aiutarti, e dovrai accettarlo, col tempo. So che sarà dura, mio cuore, mio tesoro. Ma… devi tenere a mente questo. -
Posò il capo di nuovo sul cuscino, sospirando.
- Finché ci saranno persone che vorrai proteggere, persone a cui affideresti il tuo cuore… tu devi continuare. E devi promettermelo. -
- Mamma… -
Era davvero brutto.
Era…davvero difficile.
Smettere di piangere, intendo.
Non riusciva a sopportare quel dolore all’altezza del cuore.
Lo sopraffava, lo ghermiva, non lo lasciava più.
- Prometti che continuerai, Remus. Che ascolterai tuo padre, che proteggerai Mila, che ti impegnerai, che non cederai mai. Promettimelo, amore mio. -
- Io… - intrecciò le sue dita con quelle di sua madre, e strinse, strinse forte. - Lo …prometto… -
Il suo volto si distese, sereno.
- Non soffermarti mai alla luna piena, mio Remus. - mormorò, sorridendo. - Soffermati sempre sull’intensità del cielo. Perché ricorda…<i>sarà l’unica cosa più grande di te</i>. -
Se ne stava andando.
Se…se ne stava andando davvero.
Li stava lasciando soli.
Annuì, cercando di scacciare quel terribile e doloroso groppo nella gola.
Entrò anche suo padre, nella stanza, in silenzio, gli occhi vacui, annebbiati.
- Amore mio…mio cuore…siediti accanto a noi. -
Fece come gli era stato chiesto.
Si sedette e intrecciò le dita con quelle di sua moglie.
Non pianse, non un lamento gli sfuggì dalle labbra.
Rimase…solo così.
Seduto accanto a lei, con il capo posato sul suo ventre.
Distrutto dentro, col cuore lacerato e i polmoni stretti in una morsa.
- E tu, Remus, vieni qui sul letto. -
Strinse suo figlio al seno, con l’altra accarezzò i capelli di suo marito.
- Sai, Remus… mi sarebbe piaciuto farti vedere la Spagna. La mia terra. E’… un paese bellissimo e colorato. Ti sarebbe piaciuto, ne sono sicura. - mormorò, sorridendo ancora. [<i> E ancora, e ancora, e ancora. ] </i>
- Portami adesso…portami adesso, in Spagna… - supplicò il bambino, con voce incrinata. – Voglio andarci ora, con te…per favore, mamma… -
Lei ce lo avrebbe portato, ne era sicuro.
Lei lo aveva sempre accontentato.
Avrebbe prenotato il primo volo e sarebbero partiti, pazzi e liberi per i venti dell’Europa.
Ma non quella volta.
- Conta, Remus Lupin. -
- C - cosa? -
Quel suo sorriso…quella sua tenerezza…lo dilaniava.
Avrebbe voluto che lei gli urlasse contro di stare zitto, di lasciarla morire in pace.
Avrebbe voluto che lei gli avesse rinfacciato in faccia di essere diventato…un terribile mostro.
Avrebbe sentito meno male.
Invece, continuava ad accarezzarlo dolcemente, a stringerlo.
Sentiva i battiti del suo cuore così vicini e…così lenti.
Così calmi.
- Morire con la tua voce che conta ogni secondo che passa…è bello. - annaspò la donna. - E’ come…se mi scortassi in paradiso. -
La sua mano tremava un poco, gli occhi si fecero ancora più stanchi.
Aspettò docilmente che Jairo le baciasse le labbra, infrangendo le mani nei suoi boccoli.
- Sarà bello, Jairo. Non temere. -
- Sì. - sorrise lui, fra le lacrime.
Non se ne erano nemmeno accorti, che piangeva.
- Sì, sarà bello, Penny. Amore mio… -
- Accompagnami, mio Remus Lupin. E poi torna indietro. -
Straziante.
Da quel giorno, per un intero anno, Remus smise di sorridere.
Poi diventò… perfetto.
Come lo voleva lei.
E vuoto.
Come lo voleva lui.
Ma, in quel momento, era semplicemente un bambino che aveva vissuto cose troppo grandi.
E, piano, con paura, si accostò di più all’orecchio di sua madre.
E cominciò a contare.



<center><i>[ Tutti ora siamo un po’ più soli, qui…
E’ per te. ]</i></center>







<b><center>† f i и є †</center></b>

















<i><font size=2>* Traduzione:

Sono diventato così intorpidito
Non riesco più a sentirti lì
Diventato così stanco
Così tanto più consapevole
di quel che che sto diventando
Tutto quello che desidero fare
è essere più come me
e meno come te - [Linking Park - Numb ]

Canzone: Eros Ramazzotti – Sta passando Novembre. http: //www.youtube.com/watch?v=XgeUu5ONuQw</font></i>




FINE
 
 
 
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