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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: UN CUORE DISEGNATO
Genere: Autobiografico, Introspettivo
Rating: Per Tutte le età
Avviso: One Shot
Autore: oliverharton galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 19/10/2007 23:47:45

L'ispirazone mi è venuta rispondendo ad un sondaggio su manga
 
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- Capitolo 1° -

Parcheggiai la macchina lasciando al motore gli ultimi colpi di tosse prima di spegnerlo definitivamente e strappai la borsa dal sedile passeggero..non avevo molto tempo, nonostante tutto…


“Dai Giacomo apri, APRI!”.

Il vecchietto assonnato coi suoi passi lenti percorse la strada che lo portava fino al negozio, dove ad aspettarlo c’era un ragazzo che incarnava l’essenza stessa dell’energia: non riusciva a stare fermo un solo istante e gli chiedeva di muoversi con ampi gesti del braccio. Chissà dove la trovava tutta quella voglia a prima mattina, o forse alla sua età lui era pure peggio, solo che gli anni e gli acciacchi avevano limitato la sua memoria oltre al suo fisico. Ma ora doveva pensare al presente: un altro po’ e quel tarantolato avrebbe cominciato a sfasciargli la serranda; per fortuna che lo conosceva molto bene, altrimenti una bella denuncia ai carabinieri non gliel’avrebbe tolta nessuno. “Ah gioventù moderna”,pensava, ma era più nostalgia del passato che condanna del presente quella.

“Eccomi, eccomi, ma si può sapere che succede? Perché devo aprire la cartoleria così presto solo per te?”
“Perché devo comprare una cosa, ecco perché, e mi serve assolutamente adesso! Dai, ti prego, fa’ in fretta, sono già le otto meno venti”. Non appena scattò la saracinesca si avventò in negozio senza neanche aspettare che si accendessero le luci: c’era stato talmente tante volte che ne avrebbe saputo raggiungere ogni punto ad occhi chiusi. Percorse in un attimo il lungo corridoio di sinistra fino ad afferrare un barattolo in uno scaffale in alto, sul fondo del negozio ed in meno di un minuto era di ritorno alla cassa
“Quant’è?”
“Mille e cinquecento lire, ma te lo regalo se mi dici a che ti serve adesso”
“Sappi solo che mi hai fatto un grande piacere!” Gli baciò la testa pelata, gli mise i soldi in mano e scappò.

“Benedetto ragazzo, ma che gli sarà preso?”. Solo allora il vecchietto notò le sue guancie rosse ed i movimenti chiaramente sotto sforzo, ma nonostante questo la falcata irregolare non accennava a diminuire. Strano vederlo correre, in genere lui e il motorino erano una cosa sola….

“Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta!” pensai, mentre di spalle immaginavo anche la figura di Giacomo farsi sempre più piccola. Quante volte mi ero perso nel suo negozio, tra i mille odori di cancelleria che amavo, ma oggi non era tempo, e forse non lo sarebbe stato più, perché tante cose stavano per cambiare. Durante la cosa non smettevo di gettare occhiate al mio ultio e fiammante acquisto, un Uniposca nero nuovo nuovo, funzionante ed evidente su ogni tipo di superficie. Svoltai sulla destra in una stradina non molto lontano dalla cancelleria di Giacomo, epoi ancora sulla destra, in un vicolo che collegava la strada della mia scuola al capolinea dei pulman.

“Eccomi…sono arrivato!”. Nel corpo sentivo il fiatone, ma la mente era lucida e risoluta ad agire. Sembravo un pistolero del vecchio west o un serial killer dai pensieri che facevo, ed in effetti proprio proprio pulito non lo sarei più stato da quel momento in poi. Non ci fu bisogno di estrarre la mia arma, perché l’avevo sempre avuta con me, le tolsi la sicura (pardon, il tappo), e la punta color petrolio rifulse un attimo ai raggi del sole. Nonostante fosse gennaio inoltrato, il disco lucente non ci aveva mai abbandonato: bene, pensai, oggi splendiamo insieme, tu fuori e io dentro il mio animo!

Iniziai: per uno che non sa tenere una matita in mano, anche disegnare un cuore può sembrare un ostacolo insormontabile, esattamente come scrivere su una parete pubblica, cosa normale per molti ma non per chi conosce bene le leggi e ne ha sempre avuto una paura eccessiva. Ma appena appoggiai la punta al muro bicolore, mi liberai di ogni timore:paura di non farcela, di sbagliare, di non essere capito, apprezzato…esistevamo io e quel muro, e un Uniposca nero nuovo nuovo per metterci in contatto. Inizio a disegnarlo, ecco la prima curva, bene, ok, ora lo lascio scendere, morbido, morbido, così come ti hanno insegnato a scuola attento a non sbagliare, attento a fermarti il giusto, bene….la prima metà del cuore era completata, mi passo un braccio sulla testa pe pulirmi il sudore e ricomincio con l’altra. Questa è più facile, devo solo ricopiare simmetricamente l’altra: dai che ce la faccio…mica l’ho fatta troppo stretta la curva? no, no, e poi non potrei comunque rimediare, ora fanne scendere la linea come si deve…..olè! La parte più difficile era fatta: il cuore era completato: ad altri poteva sembrare solo la figura stilizzata di un cuore ma solo allora capii come doveva essersi sentito Leonardo dopo aver composto la Gioconda. Rimaneva solo da dare una firma, doppia, al tutto:il nome mio e il nome suo. Parto dal suo: lo scrivo enorme e quanto meglio mi riesce (avere di norma una pessima grafia non aiuta, lo ammetto), alla fine campeggia sotto il cuore in bella vista, e poi tocca al mio. Rapido sguardo all’ orologio: cazzo, già le 8! Ma non posso lasciare tutto a metà. Tra la fretta e la voglia di finire dimentico ogni proprorzione e simmetria: il mio nome occupa sì lo spazio sopra al cuore, ma sembra quasi essersi dotato di vita propria. Le lettere occupano ognuna uno spazio ed una grandezza diversi ed escono molto fuori dal bordo prefissato. Ma non ho tempo di maledirmi:

“Ehi tu, cosa stai facendo?” -un vecchietto, per fortuna da solo nell’indifferenza della gente, mi stava indicando col suo dito rugoso e rinsecchito- “Non lo sai che è illegale scrivere sui muri? Come ti permetti?”. Una goccia di sudore gelido mi scese sulla guancia e non ebbi neanche la forza di girarmi: per un attimo mi bloccai del tutto, poi scelsi la tattica da adottare. Mi voltai in tempo per vedere i suoi occhi puntarmi addosso minacciosi ma gli sfoderai un sorriso e gli dissi “Tranquillo signore, ho finito”, gli diedi le spalle, in un attimo tracciai una freccia che passasse da parte a parte il cuore e poi com’ero venuto così me ne andai: col mio motorino che mi aspettava lì vicino solo per tornare a mordere la strada, mentre quel vecchio si allontanava sempre di più dalla mia visuale.

“Pepe Licia, Pepe Rossella, Picariello….”

“Buongiorno professore” entrai trafelato senza neanche bussare, ero riuscito a non arrivare in ritardo anche stavolta ed un grande sollievo prese insieme a me il solito posto in prima fila. Ero una secchia innamorata: innamorata sì, ma sempre secchia e fiera di esserlo (ah, quanto me ne sarei pentito!).

Tirai un ultimo sospirone, cacciai il quaderno e iniziai a prendere appunti…ma…..avevo ancora l’Uniposca in mano e, avendolo premuto troppo,il nero colò sui miei appunti del giorno prima. Ne sorrisi (un tempo avrei tirato una bestemmia per una cosa del genere, ma stavolta era tutto diverso), presi la penna giusta ed iniziai il solito rito scolastico.

Latino, italiano, geografia, matematica e religione: le avevo fatte tutte le benedette ore, perché la campanella non si decideva a premiarmi suonando? Non stavo più nela pelle, dovevo uscire, ero in gabbia, non resistevo, stavo per esplodere..

DRIIIIINNNNNNNNN!!!

Salto il banco ed arrivo alla porta per primo, battendo d’un soffio anche Enrico, sempre il primo a scappar via al suono della campanella…ma non oggi. Faccio di filato il corridoio, scendo le scale, arrivo all’ingresso ed aspetto: una biondina non tarda a raggiungermi, con aria più preoccupata che affannata, anche se non era facile stare al mio ritmo oggi.

“Che fine hai fatto?”
“Perché?”, le rispondo con un sorriso
“Stamattina dovevamo vederci!”
“Mi spiace non c’ero, è suonata tardi la sveglia.”
“Alfredo ti ha visto sul motorino molto prima di scuola!”
“Avrà visto male, non per nulla porta gli occhiali.”
“Tu mi stai nascondendo qualcosa, stiamo insieme da così poco e già hai dei segreti?”
“Io? Nulla,ma che vai a pensare? Tranquilla, puoi fidarti di me!”

Le parole non la calmarono, decise di credermi più per fiducia che per convinzione e facendo buon viso a cattivo gioco sfoderò uno scintillante sorriso per dirmi

“Almeno mi accompagni al capolinea dei pullman come sempre?”
“Mi sembra il minimo!” le sorrido entusiasta “Dai monta su!....Col casco ovviamente,non fare la finta tonta che se i miei ci beccano son guai!”

“Sai che mi scompiglia tutti i capelli” “Fa nulla, sei fantastica anche così!”. Il complimento la rabbonì ed in un lampo eravamo fuori la scuola a sfrecciare come si deve per uscire dalla calca ed entrare in strada. Rapida discesa, poi svolta a sinistra prima dell’incrocio della cancelleria ed ecco il nostro solito posto! Parcheggio, mi rilasso e mi tolgo il casco, appoggiandomi al solito muro.

“Strano, oggi, non mi baci come fai sempre appena arriviamo qui…”
“Sarà un caso” rispondo strafottente con un sorriso che Paul Newman pagherebbe per averlo, e mi appoggio al nostro solito angolo: una piccola struttura in calce e mattoni faceva angolo retto unendosi ad un grande muro bicolore ed è lì che ci fermavamo in genere per stare insieme quei pochi minuti che il pulman ci concedeva prima della partenza.

“Ma che hai oggi? Sei così strano..”
“Non sono io che sono strano, ma tu che sei distratta. Guardati in giro!” e nel dirlo feci lo stsso gsto che immagino abbia fatto Monet nel’indicare il mondo come il suo studio artistico.

Lei chiuse gli occhi a mezzo (peccato, li aveva così belli!) e cominciò a scrutarsi intorno come una spia professionista:la cosa sarebbe andata per le lunghe, per fortuna cheil successivo pulman non era molto distante dal primo e la sua amica, avvertita in tempo, l’avrebbe aspettata e coperta senza problemi. Girò con lo sguardo sui vari anfratti dello scenario: i ragazzi che passavano, gli zaini, le scale sovrastanti, il traffico delle macchine e dei pulman, il sole sul muro ad illuminare un disegno….ehi, un attimo! Quello ieri non c’era, qui non si può scrivere! Ma che cosa…

Si divincolò dalla mia mano in un attimo (adorava tenerla nei pochi momenti in cui eravamo assieme, diceva che le dava sicurezza) e andò a fissarlo e non credette ai propri occhi. Un grosso cuore trafitto da una freccia con scritti sopra e sotto i nostri nomi.

“Sei stato tu!” esclamò tremante come una bambina che scopre l’autore del regalo più bello della festa
“Come hai fatto a capirlo?” risposi beffardo facendo passare l’Uniposca tra le mie dita come i cowboys che giocano con le pistole per spettacolo e narcisismo
“Perché sei la prima persona che mi ha fatto un regalo così meravigliosamente dolce!” e mi strinse tra i suoi grossi seni in un abbraccio dolce e mozzafiato nel vero senso del termine. “Sei il primo e spero sarai l’unico”


Primi, primi, in effetti fummo in molte cose i primi per l’altro: i primi baci, i primi momenti dolci, le prime esperienze, i primi legami di sangue, le prime giornate fuori, le prime risate insieme fatte sempre su quel muretto “Uh guarda, sta passando la Miele (nostra professoressa di greco Nda) con la sua macchina color caramello” “Guarda che non ti sente, lo puoi ammettere che quella macchina, più che di caramello E’ UNA MACCHINA DI MERDA IN TUTTI I SENSI (e provasse a levarmi l’ otto del compito dopo questo che ho detto, che le faccio succedere un putiferio!)” “uh guarda arrivano i bambini delle elementari!” “ok, facciamogli un po’ di educazione sessuale dal vivo che di sicuro a scuola non gliel’insegnano” le prime fughe, le prime pioggie che chi se ne frega se ci bagniamo basta che stiamo insieme, i primi insegnamenti reciproci e le nuove passioni, (fosti tu a farmi adorare i manfa, fui io a farti apprezzare ancor di più il mondo classico) ma anche le prime sofferenze, le prime gelosie, i primi pianti, le prime incomprensioni, i primi sbagli, poi avvenimenti che ti cambiano la vita, e nulla e più come prima, e c’è una strada diversa da affrontare e non più insieme.

Il giorno in cui finì dovemmo solo firnare un atto di un documento già steso tante settimane prima e firmarlo con le lacrime non cambiò molto il contenuto e la decisione già presi: ci abbracciammo come non facevamo più da secoli in un giorno in cui anche il cielo piangeva per noi, e sarà pure squallida retorica, ma io a che ogni amante abbia un pezzo di cielo tutto suo ci credo, e non smetterò perché ciò che da te ho imparato meglio è stato credere nei sogni e farditutto per farli avverare. Ebbene quel giorno il cielo piangeva per noi, lo so, e tanto mi basta Di ciò che ci accadde dopo non voglio parlare, sporcherei tutto questo perché nessuno dei due fu più all’altezza di ciò che avevamo vissuto in tre anni della nostra vita, ma una tua frase mi rimase sempre impressa, dell’ultima volta che ti vidi: “Quando a chiunque parlo del mio ex, questo sei solo e soltanto tu, perché gli altri non li conto proprio nella mia vita.”. Lo presi per un complimento, ma non capii mai se e quanto lo fosse davvero, Ciò che capii, ahimè, è che tu avevi saputo andare avanti, io non del tutto: sarà stato un caso, ma ogni giorno, per andare all’università, parcheggiavo con la macchina(già, anche questo è uno dei cambiamenti) esattamente di fronte ad un cuore disegnato con l’Uniposca che sembrava guardarmi sbiadito ma intatto, come a dirmi “io ho resistito, e tu?”, e ogni volta di fronte abbassavo lo sguardo e mi dirigevo veloce al pulman. Finché, l’altro giorno, ho fatto tardi, e per non perdere il pulman l’ho dovuto precedere con la macchina alla seconda fermata…Ma guarda! In tanti anni non mi sono mai accorto che è molto più comodo e veloce per me parcheggiare qui, che non dove ero prima! Da quel giorno parcheggio sempre nel nuovo posto, non tornando più, ormai, in quella vecchia stradina poco lontano dalla cartoleria, e mentre me ne rendo conto, penso a queste parole

“Scrivo il tuo nome sopra il mio, oggi nel giorno dell’addio”..lo so, Nek non ti è mai piaciuto ma questa è la mia storia e questa è la mia vita e, anche se ne farai parte per sempre, non sarai più un peso di rimpianto sopra al cuore, perché ho imparato a vivere, sapendo guardare anche oltre te.

Strappai la borssa dal sedile passeggero; nonostante il nuovo parcheggio, dovevo sempre far la corsa per arrivare. Lo presi per un soffio, con la mia solita aria un po’ imbambolata di sonno e pensieri. “La vuoi smettere di fare ritardo perché ti fermi a pensare al passato?”, mi canzonò il nuovo autista dei pullman, Giacomo, (sì sì proprio lui!)

“Hai ragione Giacomo -gli strizzai un occhiolino sincero- non lo farò più, promesso!”

 
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