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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Manga e Anime
Dalla Serie: Fullmetal Alchemist
Titolo Fanfic: . WHISPER .
Genere: Sentimentale, Romantico
Rating: Per Tutte le età
Avviso: One Shot, AU, Shounen Ai
Autore: honeyelric galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 07/08/2007 16:26:34

“E-Edward…? S-sei…” “Sono io, Al…” “Ma che cosa… cosa significa…” “Sono un fantasma, Al.”
 
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. WHISPERS .
- Capitolo 1° -

Note e co.: Fma non mi appartiene, ma questa non è una novità.

Io amo Casper.<3 Ieri ho visto il film e… eccola qua. Cazzarola, sedici pagine, mica cavoli.°_° Sono turbata perché le ho scritte in meno di 48 ore, e pensare che avevo come un tappo in testa e non riuscivo a scrivere più nulla. Beh, grazie Casper, ora ti amerò ancora di più. *ride* Non ho molto da dire su questa fic, se non che è stato un trauma averla scritto così velocemente – sia per me, che per la Liz *ride* - ma è stata una cosa bene accetta e ben accolta. Mi capitasse sempre…

Ad ogni modo, fic prima del primo break è_é Semmai vedrete qualcosa di mio, sarà per la settimana prossima! E potreste vedere o tanto, o nulla. Dipende da quanto mi ispirerà il mare. Detto questo, grazie a tutti per i commenti, in ogni dove. Aggiungete una stella al mio cielo ogni volta che scrivete qualcosa in quelle adorabili pagine dei commenti. <3

.Whispers.


Quando la mamma morì, io e Edward ci ritrovammo soli, senza alcun punto di riferimento se non gli zii Rockbell, che vivevano a Cantebury.
Troppo lontana dalla nostra Londra.
I legali ci ricordavano sempre che non potevamo vivere da soli, che la nostra minore età ci obbligava a trasferirci dal parente più vicino, oppure – scelta ancor peggiore – di finire in un orfanotrofio, dato che nostro padre, scomparso da almeno dieci anni – mai saputo dove, mai saputo perché – era stato dichiarato deceduto due anni prima.
Più o meno quando la mamma entrò in depressione.
Edward aveva sempre odiato papà. Nella sua testa di adolescente – io avevo appena due anni, quando lui scomparve, mentre Edward ne aveva sette, e già pensava a capire come funzionasse il mondo – si era sviluppata la contorta idea che Trisha Elric, l’unico nostro appiglio, l’unica nostra speranza, si fosse ammalata per causa sua.
E in fondo, le coincidenze erano davvero troppe per non dargli almeno un minimo di ragione.
Ad ogni modo, lui non volle mai spostarsi dalla nostra casa. E alla fine tutti - gli zii, gli assistenti sociali, il tribunale minorile – dovettero arrendersi.
Edward non era ancora maggiorenne, ma le sue capacità intellettive – che ogni tanto, almeno io credo, lo portavano al limite della pazzia – erano così sviluppate, così come la sua capacità di imbambolare la gente con le parole, che alla fine nessuno ebbe da ridire sul fatto di lasciarci vivere ancora nella nostra amata casetta: gli zii Rockbell si sarebbero premurati di aiutarci con i viveri e con le bollette da pagare, mentre per il resto, Edward avrebbe badato a me.
Avevo dodici anni, troppi pochi per reggere tutto quello che successe nell’arco di sei mesi.
Davvero pochi.
Nessuno si aspettava che qualcosa di simile sarebbe successo all’inizio della stagione autunnale.
Nessuno era pronto ad affrontare un’altra perdita. Soprattutto, non in quel modo.
Edward era facilmente influenzabile dai cambi di stagione. E Dio, non che da noi le estati fossero particolarmente calde, ma lui riusciva sempre e comunque a beccarsi un qualche malanno più o meno all’inizio di ogni stagione.
Così accadde anche quella volta.
Glielo avevo ripetuto migliaia di volte – Edward me lo diceva sempre, ero lo spirito di una crocerossina incarnato in un adorabile corpo da dodicenne – che quando stava male doveva riposare, stare a letto e farsi curare e coccolare come si doveva.
Ma il mio fratellone era un testone, un mulo.
“Non sono nato per stare a letto!” ripeteva sempre, come ad inculcarmi quell’idea in testa, così come faceva di notte, quando mi chiedeva se volevo dormire con lui, e io accettavo, lui mi abbracciava e ripeteva “Ti voglio bene, Al.” senza smettere di accarezzarmi i capelli e baciarmi la fronte.
Aveva diciassette anni, e per me rappresentava il mondo, il mio ideale di uomo adulto, il tutto.
Il tutto che diventò nulla nel giro di pochi secondi.
È stata tutta colpa mia.
Lui mi chiamava, e io non lo avevo sentito. Aveva bisogno di qualcosa, aveva bisogno di me, e io non c’ero stato.
Si era alzato dal letto – “Fratellone, hai la febbre alta, non devi muoverti assolutamente! Chiamami e io arrivo!” gli avevo detto. Che bugiardo. – e riesco ad immaginarmelo camminare, arrancare lungo il corridoio del primo piano, dove i nostri letti rimanevano perennemente sfatti da quando la mamma era salita in Cielo, e chiamarmi con la voce bassa, roca da quel 39 che di scendere almeno a 37 – tanto per farlo stare bene, tanto per non vederlo annaspare tra le lenzuola – non voleva proprio saperne.
Lo sentii chiamare il mio nome solo quando si accingeva a scendere le scale.
“No, non puoi alzarti, non vedi come gira il mondo?”
“Si fermerà appena mi metto in piedi, Al!”
“No, non lo farà finché non guarirai! E ora stai giù e apri la bocca, medicina!”
Ma ormai era troppo tardi.
Mi affacciai dalla cucina, correndo, ansimando, tremando, mentre le mie orecchie si riempivano di un rumore ripetitivo, pesante, come di qualcosa che cadeva rotolando.
Come il corpo di mio fratello che si accartocciava inumanamente sul pavimento.
Non aveva neanche urlato.
Il medico disse che probabilmente il primo colpo era stato letale. Ma a me non importava. Ero rimasto solo, senza una famiglia, circondato dall’abbraccio freddo della zia Sara e tenuto per mano da Winry, che piangeva, piangeva, piangeva.
Piangeva anche per me.
Io non ci riuscivo.
Non riuscivo a parlare. A mangiare. A sorridere. Niente.
Non ebbi la minima reazione fino al giorno del suo funerale, che passai sdraiato sulla sua tomba a piangere, ad invocarlo, ad implorarlo di tornare, così per ore e ore, finché non si fece sera e lo zio, stanco di sentire le mie grida, mi prese per i fianchi e mi portò a casa sua.
“E’ meglio che stia lontano dalla sua casa per un po’.”
Perché le volte che ero andato a prendere la mia roba – perché un bambino di dodici anni è inammissibile che viva in una casa così piena di dolore – vedevo mio fratello rotolare giù dalle scale, e le mie orecchie si riempivano della sua voce, flebile, dolce, disperata, dolce, iraconda.
Dolce.
“Ti voglio bene, Al.”
Anche io te ne voglio tanto. Ma tu mi hai lasciato qua.
“Quando sarai più grande, ti dirò una cosa.”
“Cosa, fratellone?”
“Mh, mh – ti negavi sempre, quando chiedevo spiegazioni – Ho detto quando sarai grande, Al.”
E adesso ho quasi la tua età, ma non saprò mai cosa volevi dirmi. Non saprò mai cosa avrei potuto sentirmi dire oggi, o domani, o tra qualche settimana.
Tu mi dicevi sempre “Sta scritto dappertutto – nelle pareti, nelle lenzuola, nella cucina, tra i gradini delle scale, nel soffitto, nel mio cuore – ma tu sei ancora troppo piccolo per vedere, per capire. Ma arriverà quel giorno, in cui ti darò la chiave per interpretare tutto quanto. E allora per te tutto sarà un libro aperto, e poi deciderai cosa fare. Io aspetterò.”
E io ancora non capisco. Non capisco le tue parole, non vedo i significati nascosti.
E intanto, la voglia di cercarti scalpita nel petto, e i miei piedi, le mie gambe, ogni giorno si spingono fino alla periferia di Cantebury, verso la nostra Londra, verso la nostra casa.
È sempre stato così, da quando sono venuto a vivere qua. È sempre stato un “Esco.”, un “Torno presto!”, uno star fuori casa fino a mezzanotte, quando ormai Winry aveva capito dove andassi, cosa pensassi, e con divina pazienza mi riportava a casa, gli occhi sempre liquidi, il labbro sempre tra i denti per trattenere singhiozzi di dubbia natura.
Winry aveva continuato, per quei cinque anni, a piangere per me.
Io continuavo a pensare – lo realizzai solo più avanti, quando spensi la mia quindicesima candelina – che lacrime non ne sarebbero più scese, dai miei occhi. Perché le mie lacrime erano tutte per Edward. Solo lui poteva vederle, solo lui poteva sentirmi piangere.
Ed Edward non c’era più. E non c’erano più lacrime da versare.
Poi, la mattina prima dei miei diciassette anni mi alzai dal letto, e andai dalla zia, con un solo pensiero in testa.

“Ne sei sicuro, Alphonse?”
Annuì, mentre le sue mani reggevano la tazza fumante di latte e caffé.
“Si, zia. Sicurissimo.”
Lei lo scrutò, cercando di cogliere qualsiasi richiesta di tacito aiuto, qualcosa di simile a un “Ti prego zia, sto andando di matto, obbligami a stare chiuso in camera per il resto della mia vita.”
Ma non vide nulla di tutto questo.
Aveva negli occhi una sfumatura nuova. Quella determinazione che ricordava di aver visto negli occhi di Edward quando, Alphonse tra le braccia e faccia imbronciata, si imponeva su di lei, sullo zio, sui legali per non mandarli via dalla loro casa.
Poggiò la tazza di tè sul tavolo, guardando il fumo che ne fuoriusciva, tiepido come quella mattina di fine estate.
Sospirò pesantemente, e riallacciò i contatti visivi.
“D’accordo Al, d’accordo. Ti porto e poi nel pomeriggio torno a pr-”
“Vorrei starci qualche giorno, zia.”
“… Ne sei sicuro?”
“Fratellone!! Fratellone!!” e grida, e pianti, e mani avvinghiate al poggia mano color ebano, e sangue raffermo.
Vide la sua mano tremare un poco per poi rilassarsi poco dopo, le dita stirate sulla tovaglia vichy, in rosso e bianco.
“Si. Ho bisogno di andare. Qualche giorno non mi ucciderà, no?”
Forse. Forse non lo avrebbero ucciso, ma avrebbero aggiunto alla sua già debole persona un pizzico di pazzia.
Un po’ come quella del suo fratellone.
“Va bene, Al. Appena tuo zio torna a casa, pranziamo e ti ci porto, ok?”
Alphonse sorrise. E Sara rimase interdetta.
Erano quasi cinque anni che Al non riusciva più a sollevare gli angoli della bocca in un modo così incantevole. Il ragazzo mandò giù l’ultimo sorso di caffellatte, per poi alzarsi da tavola, mormorando un grazie soffice.
“Vado a fare le valigie.” E corse verso la sua stanza, con il fiato già corto e il cuore che gli balzava in gola, a chiedersi chissà quale effetto avrebbe fatto rimettere piede in casa Elric dopo tutto quel tempo.
Winry entrò in cucina nello stesso istante in cui Alphonse spalancava la porta della sua stanza, e quando si accomodò a tavola non poté fare a meno di notare il viso stranito della sua genitrice, ancora intenta a fissare il fumo.
“Mamma, che succede?”
“… Al torna a casa, Winry.”

Nel momento in cui la macchina rimboccava la strada verso Cantebury, la sua fronte si scontrava con la porta d’ingresso, e i suoi polmoni cominciarono a respirare l’aria della sua vecchia casa.
Winry aveva cercato di farlo desistere dal suo intento – “Al, non farlo, soffrirai, starai male! Non ci sarà nessuno, cosa farai se-“ – ma lui aveva troncato il tutto sul nascere - “Starò bene, Win. Non ti preoccupare!” – e, con un bacio sulla guancia, si era congedato ed era salito in macchina con lo zio.
E adesso era di nuovo là.
Il giardino era stato abbandonato al suo destino – le erbacce invadevano ogni dove, brulicanti di insetti di ogni specie – e la porta, impolverata, accoglieva ragnatele in ogni suo angolo.
Beh, avrebbe avuto qualcosa da fare, anche se il suo soggiorno sarebbe durato davvero pochi giorni, rispetto ai cinque anni che aveva perso.
Ma poco importava.
La sua mano si intrufolò nella tasca – Biglietti, fazzoletti, palline per i gatti, ma dove diavolo erano le chiavi?! Ah, eccole. – e da essa estrasse quel bel mazzo di piccoli oggetti argentei, infilandone una nella serratura.
E questa scattò.
I cardini, oh i cardini gioirono nello stridere dopo tanto tempo. Alphonse spalancò la porta a fatica, portando un piede, due piedi dentro, e fermandosi proprio sull’uscio. Chiuse gli occhi ed inspirò.
Se si sforzava – ma neanche più di tanto, perché la sua immaginazione varcava ogni confine, ogni barriera – poteva sentire il dolce profumo delle torte che Trisha soleva preparare per loro quando ancora erano bambini.
“Alphonse, Alphonse, devi mangiare piano o ti va di traverso e muori!”
“M-mamma!”
“Edward, smettila, così lo spaventi!”
“Ma mamma, è la verità, anche tu me lo dici sempre che bisogna mangiare piano e masticare bene!”
Si addentrò nell’ingresso, tenendo gli occhi chiusi e le mani davanti a se, in previsione di qualsiasi ostacolo.
Voleva mettersi alla prova, e vedere se dopo quel tempo i ricordi della sua casa si fossero sbiaditi, se avesse perso qualcosa, o se tutto fosse rimasto perfettamente al suo posto. A tentoni, a piccoli passi – un po’ come quando gattonava fino alle gambe di suo fratello per farsi prendere in braccio – entrò nel salotto, sentendo altre voci impossessarsi delle sue orecchie.
“Guardiamo un cartone?”
”Ma Al, sei grande ormai!”
"Ma io voglio vedere i cartoni, fratellone, dai!”
Il suo fratellone arrossiva sempre quando avvertiva i suoi occhi farsi umidi di lacrime bambine.
“…E va bene, ma poi a letto. A dormire!”
“Va bene!”
Prese una boccata d’aria anche lì, sentendo stavolta l’odore del bucato pulito che Trisha poggiava sempre sul grande tavolo al centro della sala, in attesa di essere stirato, piegato e rimesso a posto.
Inconsciamente sorrise, ricordando le volte che Edward esclamava “La porto io la roba in camera mamma!” e puntualmente inciampava sul divano, cadendo rovinosamente a terra, lui e tutta la biancheria pulita.
“Mph, pasticcione…” mormorò, mentre una mano si poggiava alle mattonelle leggermente sporche di polvere, tornando al salone. Il braccio si allungò verso il corrimano, e il cuore mancò per qualche secondo il battito.
Era la parte della casa che odiava di più. O meglio, che gli metteva addosso più tristezza.
“Andrà tutto bene, Win. Stai tranquilla!”
Manteneva sempre le sue promesse, e stavolta più delle altre sarebbe riuscito a tener fede alla sua parola. Passo passo salì ogni scalino, mentre Trisha gridava “Bambini state attenti!” e Ed rispondeva “Stiamo solo giocando, non cadiamo!” e lui gli dava manforte senza capire davvero cosa stesse succedendo.
Imboccò il corridoio, aprendo la porta della camera con uno scricchiolio quasi sinistro.
“Ho paura…”
“Vieni qua, Al, ti proteggo io.”
Lo scivolare delle coperte a terra, e piedini morbidi che si poggiavano sul pavimento freddo andando al letto del suo amato fratello erano i suoni tipici di quelle notti.
Sentì un groppo alla gola.
Ma suo fratello non c’era, non doveva piangere.
Entrò nella stanza – solo un minuto, soltanto un minuto – e si chinò a sfiorare le coperte ancora morbide, ad inspirare l’odore della pelle di suo fratello, il suo profumo.
“Ti proteggo io.”
A sentire la sua voce cullarlo per qualche istante, come quando erano piccoli.
“Ti voglio bene.”
E poi gli occhi si aprirono, ad osservare la stanza spenta dai granuli di polvere sopra ogni cosa. Non c’era armonia, non c’era colore.
Non c’era Edward, né sua madre, né nulla. Soltanto un religioso silenzio tenuto intatto dagli anni trascorsi e dalle porte ben chiuse.
Passò una mano sulla coperta, pensando che sarebbe stata una buona idea spolverare un po’ prima di buttarcisi sopra, e poi uscì dalla camera, con passo sempre più lento.
Doveva per forza tornare giù?
Poteva rimanere lì, no? Lasciarsi un po’ morire di fame, pulire la camera, il bagno, sbattere i tappeti. Non doveva per forza tornare al piano terra, giusto?
No. Doveva proprio tornarci, in ogni caso.
“Forza, Al.” si disse, facendosi un po’ di coraggio.
Ma avanzare in quello spazio stretto e lungo diventò però sempre più difficile man mano che gli scalini si facevano visibili. E quando arrivò sul primo scalino di fronte al suo piede, deglutì un paio di volte.
E poi non resistette.
Percorse le scale correndo, saltando gradini, rischiando di inciampare e rompersi l’osso del collo – si, come suo fratello. – e quando fece l’ultimo gradino, cadde sulle ginocchia, stringendo la moquette tra le mani, sentendo l’odore del sangue stantio entrare nel suo naso come se gli avessero dato un pugno dritto dritto in mezzo alla faccia, e il dolore esplodergli nel petto, e risalire la spina dorsale.
“ED!!” gridò, sentendo lo stomaco contorcersi, e gli occhi diventare due palle infuocate, mentre una lacrima cominciava a scivolare sulla sua guancia liscia, ammirando il mondo bramato per cinque lunghi anni, prima che anche lei morisse, andando a rendere quasi fresca quella macchia marrone sul pavimento.
Strinse la mano in un pugno, poggiando la testa sul pavimento, mentre lo stomaco gli faceva ancora più male, mentre davanti a lui riscorrevano ancora le immagini di quel giorno, lui che arrivava, Ed che cadeva riverso sul pavimento, e rantolava, e lui non sapeva cosa fare.
E i singhiozzi si fecero più forti, le sue gambe molli si stendevano, assieme al suo corpo, a chiamare suo fratello, ripensando a quando non lo trovava per casa, e allora andava da sua madre, a tirargli la gonna, a dire tra le lacrime “Dov’è Ed, dov’è Ed?”.
E quello usciva fuori, nascosto dietro le scale, o tra il muro e il frigo, ed esclamava “Sono qui, tonto!” e allargava le braccia per accoglierlo in una stretta affettuosa.
Ma quella volta, non sarebbe sbucato da nessuna parte.
Niente “Tonto!”, niente “Sono qui!”, niente “Non me ne vado.”.
Solo il vuoto di una casa, e il suono del dolore ripiegato e conservato accuratamente per anni.


Quando le lancette si avviarono verso la mezzanotte, finalmente Alphonse si prese la sua meritata pausa. Dopo aver consumato – dopo quasi un’ora, certo, ma almeno ora si sentiva leggero – tutta la sofferenza incamerata in quel periodo, aveva deciso di distrarsi pulendo un po’ qua e là – in cucina, in camera.
A cena, non avendo ancora aperto il gas – che i Rockbell avevano continuato a pagare nonostante la casa fosse disabitata, così come la luce – aveva ordinato una semplice pizza margherita, mangiandola in devoto silenzio.
La gola gli bruciava, tanto aveva urlato, e si era stupito del fatto che nessuno si fosse accorto della sua presenza in quella casa.
Quando mandò giù l’ultimo boccone, si alzò, avvicinandosi al frigo ed ammirandone il vuoto cosmico, decidendo che forse sarebbe dovuto andare a prendere qualcosa da mangiare nel negozio più vicino, ammesso che dopo quei cinque anni esistesse ancora.
“Mh…”
Sollevò le braccia, stiracchiandosi, e poi tornò in salone, per spegnere le luci.
“Buonanotte…” sussurrò, sorridendo tristemente.
Sua madre era lì sulla poltrona, intenta a terminare un centrino all’uncinetto.
Premette il dito sull’interruttore, lasciando che tutto calasse nel buio, e a tentoni salì le scale, entrando in camera e chiudendosi dentro a chiave.
Così, perché nessuno sapeva che lui era là, e aveva paura che qualche ladro entrasse e rubasse qualcosa.
L’importante era che non si accorgesse della sua presenza.
Disfò il letto, infilandovisi dentro, senza cambiarsi. Era troppo stanco per ogni ulteriore sforzo. Si sistemò per bene sotto le coperte, cercando la posizione ottimale per cadere rapidamente in un sonno profondo, per dimenticarsi almeno per la notte dove fosse.
Scemo tu che ci sei voluto venire da solo, Alphonse.
Molestò il cuscino più volte, cercando di gonfiarlo per compiacere alla sua testa, e quando finalmente gli andò a genio, vi appoggiò la testa di peso e chiuse gli occhi.
Di lì a poco sarebbe scoccata la mezzanotte, e lui avrebbe raggiunto quell’eterno diciassettenne che era suo fratello.
Si trovò a chiedersi come sarebbe ora, se fosse ancora vivo.
Ventidue splendidi anni, racchiusi nella persona che più aveva stimato e amato al mondo, e che ormai era diventato storia, assieme a suo madre, i suoi nonni, e tutti gli Elric.
… Era rimasto solo lui, parenti lontani a parte.
Ma questo non gli dava un motivo in più per sentirsi solo, in mezzo a tutto quello spazio vuoto.
Tirò su le coperte, avvolgendosi e sospirando, pregando che Morfeo arrivasse presto a conciliargli il sonno.
Ma non fu cosa facile.
Soprattutto quando il Big Ben cominciò a battere la mezzanotte.
Dong, dong, dong.
“Mh… Che seccatura…” soffiò, voltandosi dalla parte opposta alla finestra, tirando ancor più su le coperte.
Dong, dong, dong.
L’aria si fece leggermente più fredda.
Dong, dong, dong.
Agitò le gambe, cercando di farsi caldo, di emulare il calore fraterno.
Dong, dong.
E poi si fermò, il solletico leggero di uno sguardo puntato sul collo.
Dong.
“Tanti auguri, Al.”
Spalancò gli occhi, incredulo, mentre un brivido gli percorreva la schiena, e quel formicolio stanziava ancora là dove era prima, e non accennava a levarsi dai piedi.
Fu quando avvertì il gelido sfiorare di qualcosa di… indefinito contro la sua guancia che si mise ritto sul letto, a fissare shockato quello strano alone sbiadito - i colori appena accennati e resi ancora più pallidi dalla luna - al suo fianco.
“Ciao!” esclamò, sollevando la mano che poco prima lo aveva sfiorato.
E Alphonse non poté far altro che stringere convulsamente le coperte, tirando fuori tutto il fiato che aveva in gola in un urlo agghiacciante.
“Calmati Al!! Sono io!”
Appunto.
Non capiva. Era confuso, stanco, e, e, e quella…cosa davanti a sé, era così simile a suo fratello da spaventarlo. Voleva fuggire, ma le gambe erano bloccate, così come la sua bocca, che continuava a rimanere aperta, ad emettere quel suono stridulo.
E allora, lo vide muoversi. Si alzò dalla sua posizione – era sulla finestra, quando diamine l’aveva aperta?! – per andargli dietro, e osservò le sue braccia adagiarsi sulle sue spalle, sul suo petto, e l’unica cosa che poteva avvertire era una sensazione di freddo.
E qualcosa di… familiare muoversi nel petto.
“Sono io, Al.”
“Stupido, chi credevi che fosse?”
“Cattivo, cattivo!”
“Ahah, scusa, Al, scusa…” e lo stringeva da dietro, cullandolo dolcemente.
Sentiva quel freddo ondeggiare, mentre alle sue orecchie arrivava un mugugnato Tanti auguri a te, che al momento suonava come la musica più bella che avesse mai sentito.
E si calmò.
Lentamente, il cuore riprese a battere a un ritmo – veloce si ma accettabile.
“E-Edward…? S-sei…”
“Sono io, Al…”
“Ma che cosa… cosa significa…”
“Sono un fantasma, Al.”
E sussultò di nuovo, rabbrividendo.
Non era possibile. Era fuori dall’ordinario, era assurdo, era…
… Era rimasto lì, da solo, per tutto questo tempo?
“U-un fantasma…?”
Si voltò, prendendo finalmente coraggio per guardarlo negli occhi.
Sorrideva, non sembrava per niente turbato dalla situazione, al contrario di lui che nonostante tutto tremava come una foglia.
“Già. È… è una storia lunga, ma tu non ti preoccupare, eh!” ridacchiò, toccandogli la testa.
E si chiese come fosse possibile che quella mano quasi trasparente riuscisse a scompigliargli perfettamente i capelli come un tempo.
“Ma… ma… Oddio, sei davvero tu…”
Poggiò le mani sul materasso, girandosi a guardare quella figura seduta comodamente sul cuscino, le gambe spalancate a tenere dentro il suo corpo.
Era vestito come quel giorno.
Il pigiama azzurro, di un azzurro chiaro, chiarissimo, più chiaro del cielo, i capelli legati in una coda alta – quella coda che gli aveva fatto lui stesso, quella mattina, poco dopo il sorgere del sole – e i piedi nudi, puliti.
E tutto era dannatamente sbiadito.
“Certo, non mi riconosci? Eppure non sono cambiato tanto! – fece, sfiorandogli il braccio. – Tu invece ti sei fatto bello grande, eh Al?”
”S-Si…” mormorò imbarazzato, grattandosi la guancia.
“Diciassette, no?”
“Diciassette.” Rispose, sforzandosi di sorridere.
Edward, la camera, la notte, le scale, la caduta, il sangue.
“Io… Io…”
Sentiva come un turbine muoversi nel suo stomaco.
“Al. – cambiò tono, facendosi serio, senza staccargli di dosso le iridi dorate, unica cosa che risaltava in tutto quel pallore – Risparmia il fiato. Non dire niente. So tutto.”
“Ma fratellone, io… io…”
Allungò le mani, tentando di poggiargliele sul petto, ma non appena attraversarono il suo corpo le ritrasse, spaventato.
Non poteva toccarlo…?
“Sono fatto d’aria, fratellino. – sorrise tristemente, alzando le spalle. – Devo concentrarmi per farmi toccare. Ma ci vuole tempo.”
“Ah… C-capito…”
Si portò la mano fresca alla bocca, mordendosi nevroticamente un’unghia.
Era lì.
Non poteva toccarlo.
Poteva parlargli.
Non poteva toccarlo.
Sentiva la sua voce.
Non poteva toccarlo.
“Al.”
Non poteva toccarlo.
“Al!”
Una folata di vento sul braccio, e la mano si staccò dalla bocca, lasciandogli colare un po’ di sangue.
“Ti fai male così.”
Alphonse ritirò le sue labbra dentro la bocca, passandoci la lingua per pulirle dal suo stesso sangue, e poi sospirò, scuotendo la testa.
“Scusa. È che è tutto così…”
“Strano? Non dirlo a me.”
“… Ma… perché sei qui?”
“Bella domanda. Ti risponderò. Ma solo perché sei il mio fratellino, quindi sentiti onorato!”
Al annuì, e per un momento si sentì bambino.
Nello stesso letto di suo fratello, a parlare di notte, mentre la mamma dormiva tranquilla nella sua stanza accanto alla loro, troppo stanca per sentirli chiacchierare.
“Ok.”
”Bene. – gli sfiorò la guancia, sorridendo – Ti ricordi, Al, che la mamma ci raccontava sempre storie sui fantasmi per spaventarci?”
Annuì, senza proferire parola, chiedendogli tacitamente di andare avanti.
“Ecco. La mamma diceva sempre: i fantasmi sono quelle persone che quando muoiono portano con se dei rimpianti. Finché queste persone non riescono a risolvere i loro problemi, allora non ci sarà niente da fare. Continueranno a vagare nel mondo dei vivi fino alla fine del mondo.”
“Da quando si muore?”
”Da quando si muore.”
“E… e tu sei rimasto qua… per cinque anni da solo, fratellone?”
Edward sorrise, sentendosi chiamare così nonostante ora avessero la stessa età. Mosse il capo in avanti, in assenso, corrucciando un attimo la fronte.
“Si. Ma – fece, vedendo il viso del fratello farsi triste di colpo – Non è colpa tua, Al. I primi giorni ero spaventato, non capivo, e mi nascondevo. Insomma, ti ero morto davanti agli occhi. Non sarebbe stata una buona idea venire a dirti Ehi, guarda che anche se sono un ammasso di polvere e reazioni chimiche incomprensibili all’essere umano, io ci sono!”
“Ma… ma… Non potevi venire a cercarmi? Io… Se lo avessi saputo, io…”
Le gambe che si muovevano da sole fino alla periferia, in direzione della loro casa, della loro Londra.
Era il suo richiamo.
“Non potevo Al. I fantasmi restano legati al luogo dove i loro rimpianti sono nati. Non potevo allontanarmi da qua, neanche volendo.”
Era il suo richiamo, e lui era rimasto comunque a Cantebury, circondato da immagini, da sensi di colpa.
“S-se lo avessi saputo, io…”
“No Al. Non potevi sapere. E in fondo, è meglio così. Saresti stato solo male. E avevi bisogno di staccare, anche se volevi venire qua. So che saresti voluto rimanere qua, lo so. Ma credimi, Al. Non ce l’avresti fatta. Ma…”
“Ma…?”
“Sono contento che tu sia qua, adesso.”
Sorrideva, i denti bianchi nonostante la sua natura gassosa, trasparente. Continuava ad accarezzargli la guancia, senza staccargli lo sguardo di dosso.
Si erano mancati così tanto…
“Fratellone… - mormorò, molestando con le dita i lembi del suo pigiama. - … Come… Come ci si sente quando…?”
“Io… non me ne sono quasi accorto. È come se per un attimo staccassero la corrente e tutto fosse buio. Senti… i suoni lontani. Senti freddo. Però sei leggero, davvero leggero. E quando riapri gli occhi – beh si qualcosa di simile almeno, tu non stai più giù, ma sopra a tutti. Vedi le cose dall’alto. … effettivamente ci ho messo un po’, a capire come… funzionavo – rise, grattandosi la testa – Ma poi ecco… Ti ci abitui.”
Al non seppe cosa dire.
Sentiva solo i suoi occhi pizzicargli, fargli quasi male.
Non aveva più voglia di dormire.
Cinque anni.
Non poteva toccarlo.
Ma era lì.
Non poteva toccarlo.
Non poteva dormire.
Cinque anni.
“Ed…”
“Si, Al?”
“Quale… Qual è il tuo rimpianto?”
Sentiva la paura crescergli nel petto. Non sapeva perché ma gli parve di avvertire una sentinella nel suo cuore che dicesse: non ficcanasare.
“Non posso dirtelo. Non adesso.”
Non adesso.
… quando sarai più grande.
“Ma ora…”
“Si, Al. Ma non è ancora il momento. Ti prego.”
“Ma perché?! Sono grande adesso! Posso… posso…”
“Lo so, Alphonse. Ma davvero, ora non me la sento di dirtelo.”
E sospirò. Il primo sospiro di Edward che sentiva dopo tanto tempo. Sapeva che quando succedeva era perché quel qualcosa che teneva dentro di sé avrebbe sicuramente portato dolore a chi avrebbe sentito.
E allora si rassegnò.
“Ok, quando vorrai.”
“Grazie, Al.”
Per qualche istante calò il silenzio. Edward chiuse gli occhi, e Alphonse rimase a fissarlo. E quasi gli parve che suo fratello stesse prendendo …consistenza. Quando riaprì gli occhi, spalancò le braccia, invitando il fratellino ad avvicinarsi.
E così fece.
Venne scosso da un brivido. Non di freddo, non di paura.
… Era quasi come tornare bambini.
Ed era… tiepido.
“E-Edward…?”
“Dura solo pochi minuti… - mormorò, stringendolo sul suo petto. – Ma… Avevo voglia di sentire il tuo calore, Al…”
Alphonse represse un singhiozzo, mordendosi il labbro. Suo fratello era lì, non doveva piangere. Poteva parlargli, poteva sentirlo sul suo corpo, avvolto nelle sue braccia.
Poteva sentire quasi il suo respiro.
Simulato. Ma era il suo respiro. Era l’aria che entrava e usciva dal suo corpo di particelle.
“Mi sei mancato così tanto…”
E quello d’istinto si aggrappò alle sue braccia, stringendole il più forte che poteva, come se avesse paura di sentirlo svanire di nuovo.
Era colpa sua.
Sciolse la stretta dei denti, cominciando a singhiozzare rumorosamente, tirando su col naso, senza poter fare nulla per quelle lacrime che lente scivolavano lungo le sue gote arrossate.
“A-Anche tu, anche tu, Ed…”
Un singulto, due, tre. E strinse più forte, sentendosi un po’ più leggero, mentre il groppo alla gola si scioglieva in un pianto, lacrime che venivano mandate via dal suo volto con un semplice bacio.
Non sparire di nuovo.
“Sono qua, Al…”
Ti voglio bene.
“Sono qui…”
Quando sarai grande.
“Non sparire, Ed, non sparire…” sussurrò.
La luna salì sempre più alta nel cielo, le ore scorrevano, mentre i sospiri si facevano respiri rilassati, e Al capitolava, sognando la sua famiglia di nuovo insieme, riunita attorno al tavolo, la televisione accesa a trasmettere i cartoni del pomeriggio.
E suo fratello che gli teneva la mano.


Intorpidito dalla luce del sole che sbatteva contro il suo viso stanco, aprì gli occhi, portandovi un braccio davanti.
“Mh… è già mattina..?”
Le dita si massaggiarono il viso, mentre tentava di riprendere il controllo del suo corpo, intorpidito dalla dolce tentazione delle coperte.
Aveva fatto un sogno strano.
Aveva sognato che in realtà suo fratello era ancora in quella casa, che era un fantasma.
Un po’ come quel film che aveva visto almeno cento volte da bambino.
“E’ tutta finzione, Al, i fantasmi non esistono! E se esistessero non sarebbero così… tondi e carini!”
“Ma la mamma dice…”
“E’ solo per farti dormire, i fantasmi non esistono!”
Che era rimasto lì, solo per cinque lunghi anni. Ad aspettarlo. E lui era arrivato solo in quel momento, e aveva sentito il senso di colpa riversarsi sul suo petto, sommandosi al resto.
Aveva sognato di sentirsi avvolto dalle sue braccia, come quando erano bambini e…
“Su, sveglia, pelandrone, è mattina!”
… Non aveva sognato.
Aveva aperto gli occhi in un colpo solo, e la luce violenta dei raggi gli andò dritta negli occhi, a rovinargli per qualche secondo la vista.
“Ah!” esclamò, sfregandosi gli occhi con forza, cercando di ripristinare attorno a sé ogni colore, ogni forma.
E sentì di nuovo le mani fredde sulle sue guance, stavolta davvero gradevoli.
Apprezzate, confrontate col Sole che non aveva fatto altro che accecarlo e rendergli bollente la faccia.
“Ti da fastidio? Tutto bene? Forse non avrei dovuto al-“
“E’ tutto apposto. – esclamò, riaprendo lentamente gli occhi e vedendo fuori dalla finestra attraverso il corpo di suo fratello - Ora passa!”
E nel momento in cui Alphonse poggiò piede a terra, iniziò la loro giornata insieme.
Al mattino Al si dedicò alla cura del giardino. Era strano vedere che quando la gente passava lì vicino – e lo salutava, riconoscendo il bambino di dodici anni che ogni tanto su quel prato si rotolava, con suo fratello sopra – Edward scomparisse dentro casa, nascondendosi.
“Non voglio che ti prendano per pazzo.”, gli fece sapere più tardi.
Gli chiese diverse volte se volesse aiuto. Ma Al ripeteva che no, era meglio se stesse fermo. Preferiva che le sue energie venissero usate poi quando potevano stare insieme da soli, almeno per quei pochi minuti. Ed Edward apprezzò, capì, e si limitò a poggiare il suo fondoschiena gassoso sui gradini di marmo, a contemplare la figura di suo fratello muoversi avanti ed indietro per il giardino.
“Fratellone…” fece all’improvviso, mettendosi ritto e passando una mano sulla fronte.
“Si, Al?”
“A che pensi?”
Si voltò, e riuscì a captare per pochi secondi la sua faccia sbigottita, prima che mutasse rapidamente in uno sguardo dolce.
“Niente di particolare.” bisbigliò, sollevando le spalle.
Lui lasciò scivolare il braccio lungo il fianco, fissandolo.
Forse pensava di poter vedere i suoi pensieri attraverso la sua testa trasparente. Ma in realtà vide solo le intarsiature della porta sul legno.
Eppure era sicuro che Edward stesse pensando intensamente a qualcosa. A qualcosa che li riguardava.
Lo deduceva dal suo sguardo vacuo, lo deduceva dagli occhi che ogni tanto si puntavano sulla sua schiena, o sulla sua testa.
Lo deduceva da quel sorriso sul volto ogni volta che i loro occhi si incrociavano.
Eppure non riusciva a capire.
“Niente di particolare? Mh. E di particolare?”
Edward rise, scuotendo la testa.
“Al, Al, sei un piccolo ficcanaso, sai? Non sei proprio cambiato.”
“Lo so.”, fece, ricambiando il gesto.
Non aveva mai voluto cambiare. O forse, non ne aveva avuto la possibilità.
Ma in sostanza, lui avrebbe voluto davvero rimanere fermo ad dodici anni, al momento in cui Edward cadeva e moriva, al momento in cui tutto spariva.
Avrebbe voluto fermare il tempo a qualche giorno prima, a prima che Edward prendesse quel brutto malore per colpa del cambio di stagione, così che niente cambiasse più, né lui, né suo fratello, né quello che vivevano.
Ma purtroppo lui non aveva questo potere. E per suo fratello, beh.
In un certo senso il tempo si era fermato.
Ma non gli piaceva il come.
“Neanche tu sei cambiato, Ed.” gli fece notare. E quello sorrise, genuino.
Perché Al ancora non sapeva. E presto sarebbe venuto a conoscenza di tutto, e lo avrebbe distrutto di nuovo, lo sapeva bene.
Ma era giusto che anche lui sapesse.
“Sono perfetto così! – ghignò – E su, su, non approfittarne per poltrire!”

Diverse volte squillò il suo cellulare, quella sera.
Sara Rockbell non riusciva a stare calma, al pensiero che suo nipote fosse chiuso da solo in quella casa fatta di torte al cioccolato e sangue raffermo sul pavimento.
Al si mostrava tranquillo, la voce ferma, il viso rilassato.
“Vorrei starci qualche giorno.”
A volte si tratteneva dal ridere, mentre Edward piroettava nell’aria, e gli faceva le pernacchie, o rendeva le sue mani tanto tangibili quanto bastava a solleticargli i fianchi.
Come da bambini.
“… Ne sei sicuro?”
La zia gli chiedeva continuamente come stesse, se avesse bisogno di qualcosa, se voleva Winry a fargli compagnia.
Ma lui rispondeva sempre che andava tutto bene, che si divertiva a mettere in ordine la casa, a pulirla, a coccolarla un po’ come se fosse un bambino in fasce.
“Si. Ne ho bisogno.”
E poi sinceramente, l’idea di Winry in casa non lo allietava. Insomma, Edward era lì solo per lui! E Winry era una pettegola, avrebbe spifferato tutto a sua madre, e Al non avrebbe più potuto mettere piede in casa sua.
La zia credeva ciecamente ai fantasmi. Così tanto da averne paura.
Così tanto che, che sapeva, avrebbe potuto prima far esorcizzare la casa e poi buttarla giù.
E insomma, non era proprio quello che voleva!
“Va tutto bene, Al?”
“Si zia, stai tranquilla! – diceva – Ho comprato da mangiare e ho sistemato la casa! E si sta bene, sto bene, non ti preoccupare!”
“D’accordo… Se hai bisogno chiama…”
“Ok, zia, grazie.”
E Edward le faceva il verso, facendo smorfie a gogò. Al muoveva la mano per dirgli di smetterla, mentre con l’altra reggeva la cornetta, salutando la parente per poi riattaccare.
“Edward!” esclamò poi, ridendo.
“Scusa, non ho resistito!” rispose, fermandosi dietro di lui e abbracciandolo, ridendo sul suo orecchio, solleticandolo con i capelli, in una sensazione così simile a quella reale.
Sapeva che di lì a qualche giorno sarebbe dovuto tornare a casa ma…
Avrebbe pagato con la sua vita per restare lì con suo fratello per sempre.
Ma era sicuro che Edward non avrebbe apprezzato, e si limitò a respirare quell’aria di casa, imprimendosela nella memoria.

Era strano, averlo affianco dopo tutto quello che era successo.
Era strano, vederlo correre per i corridoi, sentirlo chiamarmi per nome, ammirarlo saltare e volare.
Sentirmi chiedere “Vuoi volare, Al?”.
Sentirmi dire ancora “Ti voglio bene, Al.”.
Sembrava tutto ovattato. Era come se fossimo circondati da una coltre di nuvole rosee, azzurre, violacee, che ci esternavano, che facevano della nostra casa la normalità, e di Londra, dell’Inghilterra, del resto del mondo l’anormalità.
L’impossibile.
Era la sua voce che faceva quella magia, e quei movimenti sinuosi in aria, e quei passi che non facevano alcun rumore. Il mio fratellone era irreale, ma così terribilmente umano, quando stava coi piedi a terra.
Era quasi come essere tornati all’infanzia. Come se le lancette avessero preso a correre all’indietro, al giorno in cui lui stava ancora bene, a quando mi inseguiva fino alla stanza, e io mi nascondevo sotto le coperte, e lui saliva sopra per farmi il solletico, e mordermi le guance.
Erano cinque giorni che convivevamo.
Erano cinque giorni che ridevamo a tavola, e lui faceva il pagliaccio, mandando giù il cibo per poi farlo cadere sul pavimento come se al posto di quel corpo vaporeo non ci fosse nulla.
Erano cinque giorni che, la notte, avevo nuovamente qualcuno che mi abbracciasse, mi sussurrasse il suo bene all’orecchio, e mi cullasse verso sonno tranquilli, finalmente.
“Ti voglio bene, Al.”
E quel ti voglio bene cambiava lentamente forma. Nel tono di voce, nella lentezza delle parole. Diventava sempre più un qualcosa detto con sofferenza, per quanto un fantasma potesse soffrire.
Ma lui non mi disse mai nulla. Lui sorrideva e basta.
E io ricambiavo.
Cinque giorni.


I gomiti poggiavano sul bordo della finestra, a mugugnare qualcosa mentre osservava la luna ormai piena alta nel cielo.
L’indomani mattina sarebbe dovuto tornare a casa, ma nella sua mente frullava un’idea migliore.
In fondo, quella era casa sua, no?
Non poteva rimanere? Non poteva trasferirsi di nuovo lì, e stare assieme a suo fratello?
Si voltò, poggiando la schiena sul muro, la testa piegata all’indietro a guardare il cielo a testa in giù.
Potevano essere felici, no?
Rimpianti.
Avrebbero discusso, avrebbero risolto, e tutto sarebbe stato come da bambini, giusto?
Sensi di colpa.
… Giusto?
“Al.”
Il suo cuore saltò due battiti, mentre suo fratello oltrepassava la porta chiusa a chiave per la sua sicurezza.
La solita paura dei ladri.
“Mh? Che c’è?”
Edward fece qualche altro passo, sedendosi sul materasso e battendovi sopra una mano, richiamandolo vicino a sé.
Non gli piaceva quella sensazione, non gli piaceva per niente.
“Devi dirmi qualcosa?” chiese, sorridendogli.
Glielo si leggeva così bene?
“… Io… Volevo rimanere qua.”
“Per qualche altro giorno?”
“No. – esclamò, guardando intensamente la sua mano. – No. Per sempre.”
“Alphonse… Non puoi restare da solo, non voglio.”
“Ma… Non sarei solo, ci saresti tu! E… e io non ho bisogno di altro, io voglio solo te, a me va bene così!”
Edward scosse la testa, sospirando e guardando la luna.
“… Ti do fastidio?” mormorò poi Al, sollevando lentamente gli occhi verso quelli del fratello.
I sensi di colpa fanno male, Al.
“No, stupido. – e gli poggiò la mano sulla testa, lasciando che avvertisse quella piccola ondata di gelo tra i suoi capelli. – è solo che io… Io sto per sparire, Al.”
Il rimpianto può essere letale. Anche per un morto.
“C-cosa?”
Le sue mani cominciarono a tremare di colpo, senza preavviso.
Stava per sparire? Cosa voleva dire? Che significava?
“N-no! – esclamò, alzando le braccia per cercare un appiglio nelle sue senza risultato. Osservò le loro abbraccia incrociate, quelle sue di carne dentro quelle d’aria del fratello – N-non voglio!”
“Al…”
“No!”
“ALPHONSE, ASCOLTAMI.”
E si ammutolì, mordendosi il labbro. Forte, fortissimo.
Faceva male tutto. Muscoli, ossa, cuore.
“E-Ed…”
“Al. Non puoi stare con me. Non saresti felice. Sono solo un… fantasma. Non posso darti niente se non la mia verità.”
La sua verità?
La sua verità.
“Quando sarai più grande, ti dirò una cosa.”
La sua verità.
“F-fratellone…”
“Prima chiudi gli occhi.”
“C-cos…”
“Chiudi gli occhi. Fidati.”
E Alphonse non si sentì di disobbedirgli. Lentamente chiuse le palpebre, sentendo solo il cicaleccio degli insetti sui suoi fiori, e qualche macchina che ancora sfrecciava per strada. E poi di colpo, il peso sul letto sembrò farsi doppio.
Sentì il cigolio delle molle del materasso, e una presenza farsi sempre più vicina.
“Fratellone, cosa…”
E si zittì.
Era caldo. Caldissimo. Era la cosa più calda, e bella che avesse mai sentito poggiare sulle sue labbra. Era un tocco dolce. Gentile.
E lo spaventava. Tanto.
Ma non si spostò. Era suo fratello.
Era la sua verità.
Una verità che sapeva d’aria e caramelle, che impregnava le sue labbra, e penetrava con dolcezza nella sua bocca, solleticandola, stimolandola.
“Al…”
Scivolò via, lasciando che le mani si poggiassero sulle spalle del suo fratellino, che aprì gli occhi nel momento in cui il contatto si interruppe.
Sentiva caldo, e gli occhi pizzicavano.
Pizzicavano sempre, quando il suo fratellone faceva qualcosa che lo irritava, lo contraddiceva, lo emozionava.
La sua verità.
Non voleva più sentirla.
“Al, io…”
“Non voglio…”
“Al, devi ascoltarmi, ti prego. Fa male anche a me.”
E si ridestò, mentre le lacrime cominciavano a scivolare rapide, offuscandogli da vista.
Era così bello, sembrava quasi… vivo.
I rimpianti tengono legate le anime a questo mondo.
Ciò impedisce loro di varcare la sottile linea che li separa da quello che gli esseri umani si ostinano a chiamare aldilà, dove si vive sereni, circondati da angeli canterini e tante altre stronzate che i genitori amano raccontare ai figli quando un nonno troppo anziano per continuare a vivere diventa cenere che nutrirà la terra dove verrà sepolto.
Tutto il dolore che queste anime conservano non da loro pace e li tiene imprigionati alla loro vecchia terra, finché le anime non risolvono i loro conti lasciati in sospeso con il mondo dei vivi.
Quello era il suo rimpianto.
Quel gesto, e quelle parole che tentavano di ordinarsi nella sua mente gassosa, quello era il suo rimpianto.
Era il segreto di dieci anni passati a guardare suo fratello come una creatura immacolata.
Non aveva fatto in tempo a macchiarla neanche un pochino. E anche lui era ancora puro, nonostante tutto.
Il suo era soltanto amore incondizionato.
“Alphonse.”
Il suo segreto di bambino.
“Alphonse.”
Il suo segreto.
“Alphonse, guardami.”
Il suo…
Alzò gli occhi, trattenendo a stento le lacrime. E quel labbro ancora tra i denti venne liberato dal dito di suo fratello, che glielo massaggiò, scuotendo la testa.
“Bene. Al, Al, io ho impiegato qualche mese, prima di capire che un’anima non potesse andare oltre per colpa di un rimpianto. L’ho capito quando mi sono accorto di pensare sempre, ripetutamente alla stessa cosa. Volevo vederti, volevo stringerti, toccarti. Volevo averti vicino. sarai più grande, ti dirò una cosa. Ricordi? Te lo dicevo sempre. Ora sei grande. E devi guardare avanti, dimenticarti di me e…”
“Non potrei MAI dimenticarmi di te, Edward!” esclamò quello, alzando la voce, sottolineando quel mai così piccolo, così forte.
Ma lui scosse la testa, poggiandogli il dito sulle labbra.
E tutto sembrava farsi più pallido.
“Al. Devi dimenticarti di me e costruirti una nuova vita. Ma non prima di sapere il mio segreto. – gli afferrò le mani. – Quando papà sé ne andò, mi imposi di proteggerti, di starti vicino come un fratello. Ma non ce l’ho fatta.”
“Che stai dicendo, fratellone? Certo che ce l’hai…”
“Dovevo starti vicino come fratello e non ce l’ho fatta. – lo interruppe, correggendosi. – Alphonse, la verità è che… Ti amo.”
E Alphonse spalancò gli occhi, mentre le lacrime raddoppiavano, e il cuore si stringeva, come se volesse implodere, e poi esplodere pochi attimi dopo.
“Ti amo e non te l’ho mai detto. Perché non eri pronto. Perché non avresti capito.”
Edward avvertì per un attimo le mani di Al – quelle manine così tenere, così piccole nonostante tutto – attaccarsi al suo braccio, e stringere, stringere forte, come se volesse strapparglielo, come a dire Lo senti? Lo senti il dolore che sto provando adesso nel petto?
Piegò il volto, singhiozzando, mentre le mani scivolavano dolcemente dentro il suo braccio, diventando gelide. Sussultò, rialzando lo sguardo.
“Perché? Perché…?”
E lui sorrideva.
“Perché ti amo. E non è giusto che tu stia attaccato al mio ricordo.”
Singhiozzò, terrorizzato nel vedere suo fratello prendere lentamente il colore del muro, mentre tutto attorno cominciava a brillare, e punti di luce si riunivano al petto, dove un tempo c’era un cuore che batteva.
“S-stai sparendo…”
“Si, Al. Sono libero dal rimpianto. Grazie a te. Mi dispiace, mi dispiace per tutto. Per averti lasciato solo, per non…”
“NON ANDARTENE, TI PREGO!”
“… Al…”
“Io… - e cercò di acchiappare più volte l’aria, per poi arrendersi e poggiare le mani laddove prima c’erano le sue gambe – io ho passato… gli anni a pensare che tu… che tu fossi morto per colpa mia! E ti vedevo sempre rotolare per le scale, e… e ti sentivo gridare, di notte! E pensavo che tutto fosse colpa mia, solo colpa mia… T-ti prego, non te ne andare… Perdonami, Edward… Perdonami…”
“Alphonse, non è stata colpa tua. – Sussurrò al suo orecchio, sfiorandoglielo con la punta del naso. – Non è stata per niente colpa tua. Smettila di pensarlo, ti fai solo del male.”
“Io… Io non ti avevo sentito… Io… Io…”
“Non è colpa tua.”
“Oh, Edward…”
“Non hai colpe, Al. L’unica colpa che hai avuto è stata di starmi vicino in ogni momento. E ti assicuro che è il torto più bello che qualcuno potesse farmi.”
Gli baciò il naso, la fronte, le labbra, ben consapevole che ormai di quel calore non avrebbe sentito più nulla.
“Non andartene…”
“Sarò sempre vicino a te. Non mi vedrai, ma ci sarò. Sempre, Al, sempre.”
“Ed…”
“Grazie per essere tornato, e per avermi liberato, Al. Ti aspetto ma… Tu cerca di venire il più tardi possibile, ok?”
Rise, cristallino, augurandogli in quel momento tutta la felicità del mondo: una famiglia sua, figli, nipoti e chissà cos’altro ancora. E Alphonse si passò una mano tra gli occhi, scacciando via le lacrime.
“O-Ok…” disse, una risata leggera scappatagli dalle labbra che ancora sapevano di lui.
“Io vado, allora. Fai… fai il bravo. E stai vicino a Win. E riguardati. E… Cristo.”
Era l’ultima cosa. Le ultime parole e poi sarebbe svanito nel nulla.
“Ed… Io…”
“Mi mancherai, Al.”
“Anche tu! Anche tu, Ed! Io… Io…”
E il suo corpo diventò più luminoso, mentre il suo sorriso si accentuava, e ora poteva sentirsi leggero, dannatamente leggero, mentre si frammentava e scompariva nell’aria.
Al si accartocciò su sé stesso, stringendo con forza le coperte, mentre il corpo gli si scuoteva, e impressa nella sua mente rimaneva l’immagine di lui che lo graziava.

Quella mattina d’ottobre il cielo era stranamente terso. Solitamente a Londra era difficile ammirare un colore tanto intenso.
Mi ricordava Edward. Forse era un suo modo per dirmi “Ehi, guarda che non mentivo, io sono davvero vicino a te!”
Ridacchiai, sotto lo sguardo curioso di Winry, che teneva in mano un mazzo di fiori bianchi come la neve.
“Perché hai delle rose, Al?”
“Volevo… cambiare un po’. E poi Edward amava i fiori rossi.”
In verità, ad Edward non sono mai piaciuti i fiori bianchi. Diceva che erano troppo puri per uno come lui.
Lei fece spallucce. In fondo aveva sempre ammesso di non riuscire a capirci a fondo. Neanche quando Edward era vivo capiva le sue parole. La cosa quindi non mi stupiva affatto.
Avanzò, avvicinandosi alla tomba.
La guardai, sospirando e fissando poi il cielo.
Avevo il cuore in gola come quel giorno in cui mi era sbucato davanti, salutandomi come se nulla fosse.
Winry si rimise in piedi, rassettandosi la gonna e sibilando un “Ciao, Ed.”, prima di allontanarsi e lasciarmi spazio per scambiare due chiacchiere con mio fratello.
Erano passate appena due settimane.
Cinque anni tondi tondi.
“Ciao, Ed.”

Mi inchinai a sfiorare la foto, sorridendo.
“Ti ho portato questi, ti piacciono? Sono le rose del nostro giardino, sono sempre tornato a casa a curarle, perché fossero un tantino presentabili…”
Ridacchiai, mentre sentivo in lontananza la voce di Winry che parlava con zia Sara.
Via libera.
“Ed, Ed, ci ho pensato, a quello che mi hai detto. Ci ho pensato con tutto me stesso. Ho girato per la casa, cercando i punti nascosti del tuo affetto. E li ho trovati.”
Nelle pareti, quando era andato a sbatterci contro quando giocavamo a guardie e ladri per la casa, e avevo cominciato a sanguinare e tu, prendendomi in braccio – Cristo, se ero pesante! – avevi avuto la pazienza di tamponarmi la ferita sulla fronte.
Nelle lenzuola, per ogni notte che mi stringevi a te, cantandomi qualcosa per farmi dormire, quasi mai le ninnananne della mamma, perché quelle erano solo sue, e solo sue dovevano restare. Erano le tue ninnananne, inventante, condite di cioccolata e parole dolci.
Tra i gradini delle scale, perché a Natale quando ero bambino io correvo tenendomi al corrimano, e tu gridavi “Al, stai attento, se cadi ti farai male!”, e venivi a salvarmi ogni volta, evitando di farmi cadere.
Nel soffitto, perché quando pioveva tu mi portavi lì, dove le pareti erano più spesse, dove i tuoni sembravano soltanto un leggero vibrare dell’aria, e avvolti in una coperta reggevi un libro illuminato da una candela, a raccontarmi storie di terre lontani e tesori perduti.
Nel tuo cuore, perché ci sono sempre stato, e poco importa se fosse amore fraterno o quant’altro, perché tu quell’amore lo avevi desiderato, lo avevi provato con tutto te stesso, e avevi avuto la pazienza di tenere tutto dentro, per non impaurirmi, per non sconvolgermi.
Fino a pochi giorni fa.
“Sono stato bravo, vero?”
Poggiai i fiori sulla tomba, mentre le ginocchia incontravano il marmo bianco, così come le mie mani. Mi allungai sulla sua foto, poggiandovi appena le labbra, a sentire il fresco del vetro.
Era fresco come lui.
“Fratellone, - così, affettuosamente, come amavo chiamarti ogni tanto – Le mie gambe sentivano la tua richiesta. Avrei voluto raggiungerti subito, ma non ho potuto. Tuttavia, alla fine sono riuscito a liberarti. Anche se, si sono egoista, avrei voluto che tu rimanessi con me. – Sospirai. – Ma non importa. Devo dirti solo… - mi sedetti sui talloni, osservando gli occhi dorati su quella foto. – una cosa. Anche io ti amo. Avrei voluto che tu mi sentissi. Avrei voluto dirtelo in quel momento, ma avevo paura che non fosse una cosa sentita. Non volevo dirti una bugia. Ma ora ne sono sicuro. Ti amo. E starai sempre qua, – mano sul petto. – per sempre.”
“Alphonse, forza andiamo!”
“Si, arrivo! – dissi a voce alta, agitando la mano. – Ora devo andare, ma tornerò presto, d’accordo?”
Con le ginocchia accarezzai il terreno, con le labbra la lastra bianca.
“Ci vediamo, fratellone.”
E un alito di vento mi scompigliò i capelli, e il sole si fece più luminoso.


Sarebbe andato tutto bene.
 
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VOTO: (1 voto, 1 commento)
 
COMMENTI:
Trovato 1 commento
crazyexcel - Voto: 10/08/08 18:24
mamma mia!!!!!!!
Non ci sono parole per descrivere quello che ho provato leggendo la tua fic......è stupenda! Mi sono commossa fino alle lacrime! T.T
Ma davvero hai scritto questo papiro in così poco tempo? Ti faccio i miei più sentiti complimenti, la salvo subito tra le mie fic preferite!!!!!! ^O^
Passo parola con una mia amica che adora FMA e conosco i suoi gusti al riguardo, preparati ad avere un' altra fan oltre alla sottoscritta!!!! XD
ciao!!!!! ^*^
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