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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Libri e Film (da libri)
Dalla Serie: Harry Potter
Titolo Fanfic: PENSIERI DI UN ASSASSINO
Genere: Drammatico, Introspettivo
Rating: Per Tutte le età
Avviso: One Shot
Autore: mangaka91 galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 04/07/2007 10:41:01

"Anima?Ho ancora un anima io?Credo di si.Altrimenti non sentirei che si consuma sempre più,bruciata,arsa dal mio costante comapgno,il senso di colpa.
 
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- Capitolo 1° -

Piccola shot che sarebbe dovuta essere per il concorso di -alisya-, ma che non ho fatto in tempo a consegnare... così l'ho conclusa lasciando perdere le regole e l'ho pubblicata! Ditemi che ne pensate!



È notte. Una bella notte. Una di quelle notti da ammirare, da rimanere svegli a rimirare il capolavoro del cielo, notte di pensieri romantici, di coppie di innamorati. Una notte in cui ti accorgi di quanto sei piccolo in confronto all'immensità del cielo, una notte in cui le stelle ti sovrastano e sembrano caderti addosso.
Una notte in cui si ha l'impressione che tutto debba andar bene, che la vita sia meravigliosa e che il male non esista. Una notte di bei sogni, di riposi tranquilli.
Ma non per me.
Il sonno, il dolce oblio dei sensi, il piacevole ristoro dalle fatiche diurne mi è stato infatti negato, da troppo tempo ormai perché io ne abbia memoria. Il tempo della mia vita non è più scandito in notti e giorni, minuti ed ore, riposi e veglie. Niente di tutto questo esiste più. Se mi guardo indietro, se ripenso ai giorni trascorsi, non vi è altro che ombra, una cupa ombra in cui si aggirano, solitarie ed evanescenti come i fantasmi che popolano questa scuola, figure tetre e silenziose. Amici, genitori, parenti... tutte quelle persone che prima erano al centro della mia vita, e che ora non sanno nemmeno che razza di inferno la mia vita sia diventata.
Vita? Non so se la mia oramai si possa considerare vita. Se io mi possa considerare vivo. Cammino, ma senza sapere dove andare. Parlo, ma senza dire niente che in cui creda. Respiro, ma non so perché continui a farlo.
Provo delle emozioni, quello si. Emozioni così disparate, così opposte, così stridenti tra loro che è come se mi tirassero contemporaneamente da più parti, e di scricchiolio in scricchiolio la mia anima si va lentamente lacerando.
Anima? Ho ancora un'anima, io?
Credo di si. Altrimenti non sentirei che si consuma sempre più, bruciata, arsa da quel costante compagno che è diventato il senso di colpa. Quel peso enorme, insopportabile eppure rinfrancante che grava su ogni gesto, ogni parola, ogni falso sorriso. Rinfrancante perché dimostra che non sono in tutto e per tutto quella creatura dannata che appaio, che non trovo né gioia, né piacere, né alcun genere di soddisfazione in questa situazione, che se potessi darei ogni cosa, la mia anima, la mia vita, per poter tornare indietro.
Ma non posso. Ormai non posso. Ed è inutile fare la vittima, la colpa è mia, solamente mia. Non cercherò giustificazioni, non addurrò scuse o pretesti, a parte il fatto che evidentemente Dio, la natura, il caso o qualunque altra cosa regoli questo mondo deve aver dato a James anche la mia dote di coraggio. La colpa è mia, lo ripeto. Mia che per viltà, per paura della morte e dell'ignoto non ho afferrato le occasioni che ho avuto di liberarmi di questa situazione, di uscire da questo inferno per riappropriarmi della mia vita, per quanto breve poteva essere il tempo che mi sarebbe rimasto.
Sono un debole. Lo so, l'ho sempre saputo. Ma mai, mai avrei immaginato che questa mia debolezza, questa mia codardia mi avrebbero portato a sporcarmi le mani col sangue dei mie amici.
Non so perché sono qui, adesso. Perché sia tornato nel luogo dove ho trascorso i miei giorni più felici, proprio ora che sto vivendo quelli più cupi, sempre ammesso che io possa dire di stare vivendo.
Forse per distrarmi, per confondermi nell'oscurità, per dimenticare quello che sono diventato e tornare almeno con il pensiero alla persona che sono stata in questo luogo. Come se potessi liberarmi di questo corpo che ha fatto cose irreparabili, di questa bocca che ha pronunciato parole che mai avrebbe dovuto pronunciare, come se potessi sciogliere ogni legame con la realtà e, essere di puro spirito, tuffarmi nel mare dei ricordi, e lì affondare dolcemente per non fuoriuscire più.
E quando il mio sguardo si posa sul Lago Nero, sento quasi il desiderio di sprofondare in esso, sperando in un oblio che solo la morte in questo momento mi potrebbe dare.
Ecco, la mia anima è come quel lago, ora. Scura, nera, impenetrabile... eppure, come credo, spero, desidero disperatamente che in me ci sia ancora del bene, così sulla superficie del lago brillano, tremule ed evanescenti come fuochi fatui, delle luci, il riflesso delle poche finestre ancora illuminate a questa tarda ora della notte.
Alzo il capo e, come mi aspettavo, si scorge ad una di esse la figura di un ragazzo chino su un tavolo. I compiti, lo studio...
Senza volerlo il mio pensiero torna a qualche anno fa, alle nottate insonni passate ad ammazzarci sui libri, in quella piccola e soffocante stanzetta in cima alla Torre dei Grifondoro, mentre Rem, il caro secchione caposcuola Rem, mai in ritardo con nessun compito, dormiva placidamente nel suo lettino.
Senso di vuoto. Un orribile, soffocante senso di vuoto, che all'improvviso mi ha stretto il cuore in una morsa gelida. Come se l'aria fredda della notte non arrivasse ai polmoni, come se non potessi respirare, come se qualcosa mi avesse chiuso la gola. Non... non devo lasciarmi sommergere dai ricordi, da avvenimenti di una vita che non potrà tornare mai più. Non devo...
Mi sento debole. Debole e stanco, come se di colpo avessi il doppio dei miei anni. Senza neanche sapere come, mi ritrovo sdraiato sull'erba ghiacciata, a guardare il cielo pieno di nuvole. E all'improvviso dieci, cento, mille fiocchi di neve cominciano a danzare davanti ai miei occhi, attraverso il vapore del mio fiato condensato per il freddo di questa splendida e crudele notte d'inverno. Piccoli batuffoli, così evanescenti da illudere chi tendendo la mano crede di averne preso uno mentre si ritrova a stringere una goccia d'acqua fredda. Un piacere effimero, da guardare e non toccare, una bolla di sapone della quale non ci si può impossessare. È bianca, la neve, di un bianco che trasmette candore, purezza, innocenza. Tutte sensazioni che non mi appartengono più.
Non posso stare qua. Qua, immerso in questo bianco che fa risaltare il nero della mia coscienza, qua, nel luogo dove è nata la nostra amicizia, quel legame che credevo saldo, potente, eterno come il castello che mi sta davanti. No, non posso. Non io, non ora che tutto è finito. Ed a causa mia, per giunta. Io sono stato l'artefice, il colpevole indiretto, l'assassino per vie traverse.
Mi si mozza il fiato, davanti all'enormità delle mie azioni. Io... io non volevo. Non... non...
Le parole mi rimangono in gola, mentre la neve, le nuvole, il lago, il castello si fondono attraverso le mie lacrime in una macchia sfocata, dove non esistono colori, confini, come in un magico caleidoscopio. E mentre sul mio viso umido il caldo delle lacrime e il freddo della neve si confondono, lentamente l'oscurità si impossessa di ogni cosa, finché le tenebre più fitte avvolgono i miei occhi e il mio cuore.

Un salotto, modesto ma grazioso. Nell'aria un vago odore di fiori freschi, e il sussurro dolce di una ninnananna. Il rifugio di Godric's Hallow.
E, seduti su un logoro divano a fiori, loro due. Lui, gli occhi nocciola che mi fissano con gravità dietro le lenti degli occhiali; lei, lo sguardo tenero e allo stesso tempo angosciato rivolto al bimbo tra le sue braccia, che con la manina paffuta giocherella con una ciocca dei suoi capelli rosso fuoco. Quel momento. Quel terribile momento.
E poi il buio, per qualche lunghissimo, interminabile secondo.
E quando torno a vedere, la scena è completamente cambiata. O meglio... la casa c'è, e loro anche. Ma decisamente non come prima.
Nell'aria c'è odore di fiori marci, e niente più ninnananne, ma echi di grida lontane. Il salotto ha perso ogni accoglienza, ogni calore. Sembra una camera mortuaria, dove domina il color porpora: porpora le pesanti tende che ombreggiano le finestre, porpora la carta da parati alle pareti, porpora il drappo solenne che ricopre una specie di altare.
E sopra, coricati per un sonno che mai avrà fine, loro. Lui, gli occhi vuoti, fissi, a guardare qualcosa che non c'è, o che ormai soltanto lui può vedere, attraverso gli occhiali incrinati; lei, il viso terreo che mostra l'angoscia dei suoi ultimi momenti, le braccia che si protendono a stringere ormai solo il vuoto.
E lentamente, dal soffitto della stanza una goccia, rossa come il vino appena stillato, cade sul viso di lei, rigandole la guancia come una lacrima mortale. E dopo quella altre dieci, cento, mille, innumerevoli gocce di rubino che scorrono lungo i muri , in una macabra pioggia. Sangue. Il sangue delle vittime innocenti, il sangue del sacrificio ad un dio sbagliato.
Ed io sono colui che l'ha versato.
È questo che mi dicono i loro sguardi, mentre i loro corpi senza vita si alzano dall'altare.
È questo che significano i loro indici, tesi ad additare la mia colpa.
È questo che risuona nella mia testa, in un interminabile eco, ogni istante della mia ormai misera vita.

Quante volte ho pensato di farla finita, di trovare l'unica pace possibile, quella eterna, ponendo fine ad un'esistenza di sofferenza e dolore, di sensi di colpa, di rimpianti e rimorsi tardivi. Quante volte sono stato sul punto di farlo...
Ma non ce l'ho fatta. Come la mia viltà allora mi ha impedito di resistere all'Oscuro Signore, così oggi mi trattiene dal togliermi la vita.
La Morte, la Nera Signora...spaventosa, fuggita eppure così spesso agognata! La Morte, che guida le azioni degli uomini, che accompagna ogni loro pensiero, la Morte a cui nessuno si vuol mai piegare, ma che alla fine piega tutti...
La Morte, per paura della quale io ho compiuto un gesto irreparabile, la Morte, il destino al quale ho condannato i miei migliori amici. La Morte, che mille e mille volte ho invocato quando il rimorso rodeva il mio animo come un fuoco ardente...

Tutto è nero ora. Spariti quegli sguardi accusatori, quegli indici puntati verso di me, come lame affilate, a trafiggermi il cuore. Ma non per questo mi sento meglio... perché sono sempre dentro di me, ci sono da quel fatidico giorno.
E intanto... intanto sto affondando in un baratro oscuro, sempre più a fondo nelle tenebre, come se lacci d'ombra si avvolgessero attorno ai miei polsi, alle caviglie, tirandomi giù nel buio. Mi divincolo con tutte le mie forze, lotto, combatto, annaspo verso la superficie, dove scorgo una piccola luce, ma inesorabilmente i lacci mi trascinano giù, sempre più giù...
Ma forse sto sbagliando. Forse è inutile che io mi sforzi tanto. Forse dovrei semplicemente lasciarmi andare, smettere di opporre resistenza... lasciarmi lentamente scivolare finché anche il mio nome, e con esso la mia colpa, spariscano nelle tenebre, fondendosi ad esse nel tanto sospirato oblio...

E di Peter Minus nessuno avrà più memoria.




 
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