torna al menù Fanfic
torna indietro

MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: THE LOST WEEK-END
Genere: Romantico, Fantasy, Soprannaturale, Dark
Rating: Per Tutte le età
Autore: erikuccia galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 19/04/2007 20:10:10 (ultimo inserimento: 20/08/07)

La maledizione di un'antica casata rumena...Un medaglione spaccato a metà...Un antico amore...Una giovane dal nome Marie che tutti vogliono...
 
Condividi su FacebookCondividi per Email
Salva nei Preferiti
   
PROEMIO: NEL SANGUE
- Capitolo 1° -

Capitolo 1*
“Proemio: nel sangue”

«Noi siamo gli schiavi del tempo.
Noi siamo gli ostaggi dell’eternità che ci racchiude.
Se vuoi la tua vita sarà uguale per sempre a questa notte.
La nostra casa è la nostra morte
La nostra vita è nella nostra bara.
Puoi tu sopportare di viverci accanto?
I tuoi occhi continueranno a fissare i nostri?
Ci hai chiamato vampiri.
Ci hai dato un posto nelle tue credenze.
E noi sempre veniamo…
Il Sangue invoca altro sangue!
Ma chi fa il bene?
Coloro che hanno crocefissi?
Coloro che portano la forza del Sole?
Ma il sole è mortale, e noi viviamo per sempre.
Noi che facciamo il male.
E anneghiamo nel sangue.
E che importa se non ricordiamo piu il nostro nome?»



Una giovane donna se ne stava accoccolata nell’angolo di una grigia e fetida cella. I lunghi capelli scuri erano bagnati sopra le spalle lasciate scoperte dal vestito che indossava al momento della cattura. Gli occhi azzurri, del colore del ghiaccio, erano gonfi e leggermente arrossati. Probabilmente perché da quando viveva in quelle condizioni non era più riuscita a dormire bene. La notte non poteva permettersi di chiudere gli occhi in cerca di sollievo, perché sapeva che qualcosa di orribile sarebbe comunque accaduto. E se proprio doveva subire, preferiva farlo nella dignità di chi prova comunque a difendersi. Ed il giorno, quando quel male tornava a nascondersi nella terra, se solo provava ad abbandonarsi alle spire del sonno, sentiva gli artigli degli incubi che salivano ad abbracciarla. Stava impazzendo, letteralmente. Quella cantilena che sua madre era solita cantarle quando era ancora una bambina era l’unico appiglio che trovava per non lasciarsi morire. Sapeva che male stava combattendo, e sapeva che, nonostante tutto quello che avrebbe fatto, sarebbe finita come Loro volevano. Ma cantare quella lugubre ninna-nanna le permetteva, anche se per pochi istanti, di tornare ai giorni della sua fanciullezza, alle immagini di sua madre con un canovaccio in testa, i lunghi capelli scuri stretti in una crocchia, e la grappa d’uva che bolliva sul gas. Per un attimo ritrovava la pace che aveva trovato nella sua terra natale, a Rosita, in Romania.
Una fioca luce filtrò attraverso le grate dell’unica finestra di cui la cella era provvista. Pallidi raggi illuminarono i piedi sporchi della ragazza che, istintivamente, li scansò. Alzò la testa e vide l’ombra della luna piena nel cielo blu -notte. Di colpo il suo canto si interruppe,mentre le mani si stringevano intorno al suo corpo, nel vano tentativo di trovare calore in quel luogo.
“Ed essa tornerà, in salute e in malattia.” Bisbigliò la giovane, con gli occhi che si velarono di lacrime. Si portò una mano al collo, dove avvertì, con fastidio, il rilievo di due cicatrici recenti. Strinse i denti, quando sfiorò con più veemenza i due punti di sangue. “E sotto il suo influsso non saranno più umani.” Ancora una volta le parole di sua madre, per quanto orribili e macabri, le permisero di trovare l’ultima goccia di speranza. E pensare che da bambina non aveva mai voluto credere a quello che sua madre Eva era solita dirle. Pensare che quando era giovane prendeva quelle tradizioni popolari come semplici paure di un tempo che ormai non esisteva più. Nell’era dei pc, della tecnologia, del benessere, non c’era più spazio per voivoda, per strigoi…
«Una notte» le diceva sempre sua madre, quando lei provava a far valere il proprio punto di vista su quelle superstizioni. «alla tua finestra apparirà un demone con due grandi occhi dentro cui vorrai tuffarti. Gli donerai il tuo cuore, vedrai, e lui te lo succhierà via.»
Povera Eva: aveva sempre avuto ragione, eppure sua figlia non le aveva mai dato abbastanza fiducia! Anzi, era partita per studiare all’ Università di Parigi, aveva preso un dottorato e aveva smesso di essere la popolana rumena che era sempre stata. Poi una sera, in un locale vicino al Sacro Cuore aveva incontrato un uomo con un frac che le si era avvicinato, elegantemente. Avevano parlato un po’, del più e del meno, e poi lei ,Erzebeth, aveva visto gli occhi dell’uomo e aveva visto quanto erano simili ai suoi. L’uomo aveva estratto dalla tasca un medaglione,rappresentate una mezza luna con una B fatta di rubini e le aveva detto che era suo, dalla nascita. Erzebeth aveva provato a fare delle domande, a chiedere delle spiegazioni, ma quell’uomo era sparito nella nebbia, e lei non lo aveva mai più visto. Ma da quando era diventata la proprietaria di quel ninnolo delle creature avevano cominciato a tormentarla. Erzebeth li vedeva dovunque: all’angolo della caffetteria, in un reparto della biblioteca, vicino al suo dormitorio. Non sapeva chi fossero, né perché la spaventassero così tanto. Così, quando nelle vacanze primaverili, era tornata a casa, aveva mostrato a sua madre quel dono così strano. Eva l’aveva preso tra le mani come la più sacra reliquia e aveva chiesto a sua figlia dove lo avesse preso.
«Me l’ha dato un tipo, a Paris. Perché? Sai cos’è?»
«Non esattamente» aveva risposto Eva, scrollando la testa «Ma so chi lo possedeva. Tuo padre aveva un medaglione esattamente come questo.»
«Vuoi dire che quell’uomo era mio padre?» sbottò Erzebeth, stringendo i pugni. Non aveva mai conosciuto il cromosoma y che le aveva permesso di venire al mondo. Non aveva mai visto suo padre, e quando provava a chiedere di lui, sua madre diventava così triste che ben presto Erzebeth smise di fare domande, covando in segreto odio per quell’uomo che aveva illuso sua madre, che l’aveva presa, ci si era divertito per poi lasciarla.
«Non so, come potrei dirlo?» chiese Eva, mentre nei suoi occhi scintillava quella che poteva essere definita semplicemente come speranza. «Descrivimelo, come era fatto?»
«Aveva gli occhi molto simili ai miei.»
«Si»
«Era alto, elegante, dai modi affettati»
«Si»
«E aveva lunghi e folti capelli neri.»
«ah» disse Eva. La sua delusione era così palese che sembrava si potesse toccare. «Tuo padre aveva i capelli così chiari da sembrare bianchi. Era molto più grande di me»
«Allora non era lui. Quest uomo avrà avuto al massimo dieci anni più di me, non di più. Però sembrava che stesse male. Non so: era pallido e parlava a fatica. Mi ha detto che questo mi apparteneva dalla nascita…»
Da allora per Erzebeth era cominciata un estenuante ricerca. Mentre scriveva la sua tesi di laurea, viaggiava da un capo all’altro del mondo cercando la verità sull’uomo che le aveva regalato quel medaglione, e sulla natura di quest ultimo. In uno di quei tanti viaggi, a Roma, incontrò uno splendido uomo, Lorenzo, che si impossessò del suo cuore. E grazie a lui Erzebeth trovò la pace: lasciò perdere quell’interrogativo che per due anni l’aveva spinta oltre i confini di sé stessa, e si era concentrata solo sull’amore che l’aveva travolta e abbracciata. Aveva avuto una figlia, e aveva riposto quel medaglione. Aveva fatto venire sua madre dalla Romania per permetterle una via decisamente più agiata di quella che avrebbe potuto mai avere nella sua città natale. Aveva vissuto come una semplice ragazza, e persino Eva aveva smesso di parlare di demoni e di vampiri. Erzebeth le aveva vietato di cantare la vecchia filastrocca alla piccola Marie ed Eva aveva detto che la pensava allo stesso identico modo. Tutto andava per il meglio.
Poi, in una notte estiva di novilunio, la curiosità l’aveva spinta a riprendere tra le mani il ninnolo. L’aveva osservato a lungo alla luce di una piccola abat-jour nel vestibolo della sua stanza da letto per poi accorgersi che oltre la finestra davanti alla quale si era sistemata, c’erano altri due occhi che la spiavano. Due occhi che brillavano più delle stelle che erano in cielo.
«Sapevo che ci saresti ricaduta.» disse una voce nella sua testa. Una voce profonda, rauca, che sembrava giungere da un altro mondo. Erzebeth si era guardata attorno, spaventata. Per un attimo aveva pensato ad un folle scherzo da parte di suo marito, ma conosceva abbastanza bene la voce di Lorenzo per credere davvero a questa possibilità. Guardò di nuovo verso il vetro che dava su via Nomentana, e allora due occhi verdi, cristallini, si erano palesati in tutto il loro splendore, e in tutta la loro crudeltà. Istintivamente, Erzebeth aveva chiuso il pugno intorno al medaglione e l’aveva nascosta dietro la schiena.
«ah ah» aveva riso quella voce, con una nota di perfidia. «E’ inutile. Non puoi nasconderti. Sono anni che ti cerchiamo. E finalmente hai ripreso quel medaglione e hai fatto brillare il suo potere.»
«Chi sei?» bisbigliò Erzebeth, ancora non abbastanza spaventata da dare all’allarme.
«Il mio Signore ti sta aspettando.»
Poi la finestra si era aperta come se una folata di vento l’avesse colpita. Ma in pieno Agosto era improbabile. Una presa ferrea le circondò la vita, trascinandola via. IL vampiro si era poi palesato in tutta la sua statura e in tutta la sua soprannaturale bellezza. Era alto, dalla figura slanciata. Le spalle sottili leggermente spioventi davano un’aria dinoccolata all’intera sagoma. La pelle così candida da far risaltare ancor maggiormente i grandi occhi verdi ornati da lunghe ciglia scure.
Un demone. Un vampiro.
«Chi è il tuo signore? Che vuole da me? Dove mi sta aspettando?»
«Se vorrà, potrai fare a lui tutte queste domande. Io non sono che un emissario. Ora vuoi venire con le buone o devo ricorrere alle cattive?»
«Se mi vuoi dovrai impegnarti!»
Il vampiro rise ancora, sempre con quel tocco di perfidia che, stranamente, la eccitava. «Dolcezza, io non scherzerei con il fuoco. Il mio Signore è già abbastanza arrabbiato con me, per averti perso. Ti porterò subito da lui, che tu lo voglia o no.»
E ancora in pigiama, Erzebeth venne presa. Quel giorno lasciò la sua amata vita, la sua preziosissima figlia, ed ormai erano passati dei mesi. E sapeva che, anche volendo, non l’avrebbe più potuta vedere. Non avrebbe mai visto Marie diventare una splendida donna, non l’avrebbe accompagnata nella meravigliosa esperienza che poteva essere la vita. Aveva perso tutto. Ma loro non avrebbero mai avuto quel medaglione. Il vampiro infatti non si era accorto che mentre veniva trascinata via, Erzebeth aveva lasciato cadere in terra il medaglione, che era sprofondato nel tappeto, speranzosa che sua madre avrebbe capito che erano in pericolo. E questo fu tutto quello che potè fare per i suoi cari e per sé stessa.
Un pianto disperato si impossessò di lei. Nascose il volto tra le mani, e cercò di trovare dentro di sé la forza per poter morire in pace, senza rabbia o ripensamenti. Se da ragazza avesse dato maggior ascolto alle parole di sua madre, magari il suo futuro avrebbe potuto essere differente.
«Buonasera, principessa.»
La voce melliflua e fastidiosa del vampiro che l’aveva rapita si insinuò tra le sue lacrime, costringendola, orgogliosamente, a mostrare il volto.
«Non hai una buona cera, sai?»
«Si può dire lo stesso di te, James»
James buttò la testa all’indietro e si lasciò andare alla sua solita risata. Erzebeth lo guardò, desiderandolo. Da quando l’aveva visto per la prima volta, da quando i suoi occhi avevano incrociato quelli verdi del vampiro, il desiderio in lei si era acceso come un fuoco in mezzo ad una foresta ormai secca. Per quanto odiasse ammetterlo, per quanto sapesse che James poteva leggere la sua avvampante passione, non poteva vietare a sé stessa di provare quello che provava.
Il vampiro si passò la lingua sulle labbra in un gesto che su altri sarebbe parso volgare e rozzo, ma che su di lui era come la panna sulle fragole. Si avvicinò ad Erzebeth e le alzò il viso con due dita.
I loro volti erano così vicini che, se James fosse stato ancora un essere umano, Erzebeth avrebbe potuto avvertire il suo respiro. « So cosa vorresti fare a questo mio corpo» disse il vampiro, portandosi le mani all’altezza dei pettorali ben sviluppati che si intravedevano attraverso la t-shirt blu. «Conosco il sapore del tuo desiderio, e mi piace.» Si abbassò fino a sfiorare le labbra di Erzebeth che contraccambiò. James continuò a baciarle le labbra, poi le sfiorò le guance, e pian piano scese verso la giugulare. Annusò l’odore di sangue che riusciva a percepire, mentre i suoi timpani accompagnavano il battito cardiaco della ragazza.
«James!»
Una voce altisonante si intromise in quell’attimo di tentazione. Erzebeth riaprì immediatamente gli occhi che aveva socchiuso mentre si era lasciata andare all’ultimo piacere che poteva permettersi, anche se voleva dire andare con un cadavere ambulante. Sulla porta c’era una donna bellissima: i lunghi capelli biondi scendevano in ordinati ricci sulle spalle lasciate scoperte dal vestito di satin bianco. I grandi occhi celesti, con lunga ciglia che gettavano delle ombre sulla pelle nivea sembravano gettare fiamme e saette all’indirizzo dei due.
«Jacqueline…» sbuffò James, senza guardare l’altra vampira. «…Non ti hanno insegnato che è buona educazione bussare, eh?»
«Che cosa stavi facendo?» contrattaccò Jacqueline, facendosi avanti. I suoi tacchi alti echeggiavano nella cella. «Non devi morderla, non puoi morderla. Lui si arrabbierebbe.»
«Ma sta per morire!» si lamentò James «Ed io l’ho trovata! Sono stato io…e non posso bere neanche un sorso del suo sangue»
Erzebeth non reagì alla notizia della sua prossima morte: non era mai stata così stupida da pensare che sarebbe uscita viva da quella prigionia. E proprio perché lo sapeva, era ben decisa a portare a termine l’ultima missione che si era proposta. Solo in quel modo sarebbe stata libera.
«Non puoi!» disse chiaramente Jacqueline, la cui rabbia era palesemente quella di una donna gelosa. «Il nostro Signore la vuole per se…vuole scoprire la verità attraverso il suo stesso dna.»
«Ma lei non sa niente della maledizione dei…» ma prima che James potesse finire la frase, un rantolo lo fece voltare verso Erzebeth. Quest ultima lasciò cadere a terra un pugnale. James si guardò i jeans: la fodera era vuota! Come aveva fatto a non accorgersi che la cintura era molto più leggera? Essere vampiri alle volte aveva le sue complicazioni: per via della sua forza non poteva accorgersi di un simile minimo cambiamento di peso. Ed ora Erzebeth, l’ostaggio che aveva seguito per circa dieci anni, l’umana che per prima l’aveva fatto risentire in vita, stava affogando nel suo stesso sangue. Si era tagliata le vene: aveva scelto una morte lenta e dolorosa, ma che ai suoi occhi sarebbe stata di certo meglio di quella dei vampiri.
«MALEDIZIONE!» imprecò, piegandosi in ginocchio vicino alla prigioniera. «Stupida! Che cosa hai fatto?! Adesso condannerai a morte anche me!»
Per la prima volta Erzebeth sorrise, con cattiveria «Tornerai dove è giusto che tu sia: nella polvere! Sei già morto, James.»
«Non ti permetterò di farlo!» sbottò ancora il giovane vampiro. Davanti a Jacqueline non avrebbe mai confessato il motivo per cui lo stava facendo. Probabilmente non avrebbe mai trovato la forza di ammetterlo neanche davanti a sé stesso. Con velocità si morse il polso, dove delle gocce di sangue cominciarono a cadere. Erzebeth aveva già ricevuto tre morsi: il quarto l’avrebbe uccisa, ma se al terzo morso beveva del sangue vampirico…
Con forza james le premette il suo polso sulle labbra, e suo malgrado Erzebeth si trovò con del sangue nella bocca. Si trovò a bere: la bocca che non aveva intenzione di fermarsi, mentre la pelle di James diventava sempre più bianca, come la sua. La trasformazione era cominciata.
«Adesso…» disse james leggermente trafelato per la trasfusione che aveva dovuto fare «…mi apparterrai per sempre.»

 
Continua nel capitolo:


 
  » Segnala questa fanfic se non rispetta il regolamento del sito
 


VOTO: (0 voti, 0 commenti)
 
COMMENTI:
NON CI SONO ANCORA COMMENTI, SCRIVI IL PRIMO! ^__-
 
SCRIVI IL TUO COMMENTO:

Utente:
Password:
Registrati -Password dimenticata?
Solo su questo capitolo Generale sulla Fanfic
Commento:
Il tuo voto: