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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Videogiochi
Dalla Serie: Tekken
Titolo Fanfic: ONCE UPON A TIME
Genere: Sentimentale
Rating: Per Tutte le età
Autore: akira14 galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 02/02/2003 20:17:33 (ultimo inserimento: 29/03/03)

vi piacciono le fiabe? allora leggete questa fanfic ^____^
 
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1° CAPITOLO
- Capitolo 1° -

Once Upon A Time
Autrice:Akira14
Parte:1/? (dipende cosa mi viene in mente)
Rating: AU di sicuro…
Serie: Nn conta affatto, xké è quasi un’original.
Pairing: Chissà?
Disclaimers: Magari appartenessero a me ^______^…Invece sono della Namco.
Note: Oggi mi sentivo particolarmente depressa, e quindi mi sono messa a scrivere questa cretinata…Per chi nn lo sapesse, ho scelto questo titolo perché ho ripreso molti stereotipi della favola, che come saprete comincia sempre “Once upon a time, there was a king…”
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C’era una volta un Re, un sovrano tanto ricco e potente quanto buono e generoso verso il suo popolo.
Tutti lo amavano, lo adoravano così tanto erano perfino contenti di pagare le decime e tutte le imposte impostegli dal loro re. Sapevano che quei soldi servivano per il bene del Paese, e che mai e poi mai quell’uomo di cui tanto si fidavano avrebbe sperperato invano i loro soldi.
Si poteva quasi definirlo un nuovo Eden. Anche se il tempo era alquanto pazzerello, e a fine gennaio c’era già un’afa da aspettarsi che ad Agosto sarebbero schiattati tutti dal caldo; il paesaggio era splendidamente etereo e incontaminato.Tanto che molti viaggiatori arrivando alla cittadella che sorgeva nei pressi del palazzo, pensavano di essere finiti in Paradiso, o nel Valalla se erano mercanti mussulmani o ancora di avere raggiunto il Nirvana se praticavano il buddismo. Infatti, il paese governato dal magnifico e risplendente Paul Phoenix era famoso anche per essere cosmopolita, e in generale molto aperto e accogliente verso gli immigrati.
Il regno si estendeva su un ampio territorio, che andava dal mare dove si affacciava la capitale fino alle alte montagne innevate, dove vivevano creature misteriose e pericolose come i Khor. Alti più o meno due metri e trenta se si mettevano in piedi (cosa che nessun abitante del regno avrebbe augurato neppure al suo peggior nemico, visto che quelle creature si alzavano solo per sferrare l’attacco mortale alla loro preda), e massicci ed imponenti…Sul metro e mezzo di larghezza, pelosi più dello stesso sovrano (difficile crederlo se non li hai mai visto di persona, anche per i popolani più fantasiosi), il loro manto è color del rame. Denti affilati e due zanne lunghe e ricurve come quelle degli antichi ed ormai estinti mammut.
Antiche leggende narrano che tra quelle impervie cime viva il Clan dei Mishima, dei reietti scacciati dal Regno tempo addietro. È ignorato se qualcuno possa veramente vivere tra quei monti, con quel freddo glaciale e bufere che lambiscono distese immense di neve. Luoghi che non hanno mai visto un raggio solare.
Se davvero quelle persone si erano rifugiate là da tempo immemorabile, o vi erano state esiliate; c’era d’aspettarsi che serbassero un rancore incredibile verso tutta la progenie dei Phoenix.
D’altra parte, era comprensibile che provassero invidia verso le terre pianeggianti del Regno della Fenice. Specie quelle che sorgevano vicino ad Ashjla, la capitale del regno. Terre fertili e ricche, capaci di dare agli agricoltori qualsiasi tipo di frutto come le succose e polpose arance, e di produrre le famose zucche fenensi, ortaggi che erano così chiamati perché a vista erano molto simili alle zucche comuni. Bastava però avere l’occasione di assaggiarne un pezzo, per rendersi conto che erano più dolci, morbide e gustose di qualsiasi altra zucca. Ti si scioglievano in bocca come il cioccolato, lasciandoti un retrogusto indefinibile tra il dolce e l’amaro per tutto il giorno. Siccome a quei tempi il cacao ancora non esisteva, i bambini del regno certo non potevano soffrire per la sua mancanza, e amavano strafogarmi dei manicaretti che le loro madri preparavano con quel prelibato ortaggio.
Essendo conosciuto su tutto il continente di Hazel per le sue zucche, infatti, con il crescere del turismo gli abitanti del regno avevano imparato a cucinarle in qualsiasi modo. C’era perfino la zucca ricurva, che a guardarla sembrava un gran punto interrogativo arancione. Era la qualità più prelibata, e solitamente si usava solamente per cucinare creme e zuppe per i pranzi reali. Molti avevano cercato di carpire la ricetta che gli abitanti conservavano gelosamente. Al di fuori del regno, nessuno era, di fatto, in grado di cuocere nella maniera giusta quella maledetta verdura venefica.
Solo coloro che abitavano sotto il re Paul Phoenix, sapevano come far scomparire l’effetto velenoso della pianta e non avevano alcuna intenzione di rivelare il loro segreto.
Perciò, particolarmente adorato era tutto ciò che era arancione, colore che ricordava il famoso legume.
Le foglie d’autunno, il fuoco, il rame, le albicocche, le carote…Qualsiasi cosa. Le case dei più ricchi, infatti, erano quasi tutte dipinte con tinte che andavano dal pallido del cielo al tramonto all’acceso colore degli aranci maturi. Più erano ricchi, più il colore tendeva all’arancione. (Koibito questo è il tuo paese! NdA14)
Fatta eccezione per le strade della capitale, che erano lastricate di marmo bianco, le restanti erano sterrate viuzze color terra di Siena, che contrastando con la singolare nuance delle case rendeva il tutto ancora più irreale.

C’era una sola cosa che il popolo contestava al suo re. E non era il fatto di aver avuto due mogli.
Poco importava se mentre si sposava con la Principessa dell’Eire Nina Williams se la spassava con sua sorella Anna.
Quello che non andava giù al volgo era questo: due principi nati nello stesso anno.
Il primogenito, nato nel freddo gennaio aveva i capelli biondi come il comunissimo grano e gli occhi dell’azzurro degli oziosi giorni d’estate. Si chiamava Steven o Steve. Nessuno aveva mai capito bene, perché il viziato ragazzino cambiava idea ogni dieci minuti.
Il secondogenito, era nato nel malinconico ed affascinante novembre, mese in cui si raccoglievano i frutti del lavoro di un anno.Aveva ereditato il molto da sua madre Anna, ma sulla sua testa vi era una peluria che non era di un rosso acceso. Era piuttosto un’arancio pallido che ricordava vagamente tanto che veniva chiamato affettuosamente pel di carota (che come avrete capito in questo paese non era affatto un insulto ma un complimento) e gli occhi del caldo, avvolgente e nostalgico color della terra natale.
Per di più, aveva tratti delicati ed efebici che avrebbero fatto divenire verde d’invidia anche la principessa Michelle, del regno vicino, il Kukam, che a detta dei più era la donna più bella dell’orbe terracqueo.
Certo, appena nato non si poteva dire come sarebbe diventato. Anche se crescendo superò, in fatto di bellezza, le più rosee aspettative.

Non era difficile intuire quale fosse il preferito dalla plebe, indifferente alle regole della nobiltà che imponevano di liberarsi del figlio cadetto facendolo diventare cavaliere o peggio indirizzandolo alla vita religiosa.
Paul, però, a costo di rendersi impopolare voleva difendere il suo piccolo Steve, quel neonato che tanto gli somigliava.
Sapeva bene che se avesse tenuto Hwoarang (così si chiamava il suo secondo pargolo) a palazzo, quei due avrebbero finito per scannarsi per chi avrebbe dovuto governare quell’immensa, verde e appetibile distesa di campi: il più amato dal popolo o chi lo aveva ereditato per nascita?
Sarebbe stato triste morire senza che nessuno si presentasse al suo capezzale, troppo occupati a farsi la guerra e a mettere a ferro e fuoco il paese per preoccuparsi del loro povero e decrepito padre.
Per di più, Hwoarang sarebbe stato il capo delle guardie private del re. Il più alto incarico che si potesse affidare, in quanto da lui sarebbe dipesa la stessa vita del sovrano. Come il comandante dei pretoriani al tempo dei romani, tanto per intenderci. Non voleva rischiare una reazione di scontento generale mandandolo a combattere sanguinose guerre, né nasconderlo in un abbazia. Semplicemente, si trattava di eliminare Anna e inscenare il rapimento del piccolo Hwocchan.
Una volta che la farsa fosse andata a buon fine, avrebbero pianto per due perdite così importanti e dopo qualche tempo tutti avrebbero dimenticato perfino dell’esistenza di un secondo principe. Beh, forse per la morte della sorella della regina non ci sarebbero state folle inconsolabili, ma era così per dire.

Quando non aveva nemmeno due mesi, e lontano era ancora lo svezzamento; si compì il piano che il re aveva studiato il giorno stesso della sua nascita.
L’amante del re, Anna, stava dormendo prendendosi il suo immeritato riposo. In effetti, ci si domandava cosa come potesse essere così stanca visto che non faceva altro che spendere i soldi accumulati con le tasse degli onesti contribuenti in vestiti, per altro di cattivo gusto.
Il piccolo era invece affidato alle cure della sua nutrice Kunimitsu. Era una giovane cui non era rimasto niente al mondo. La sua famiglia era stata uccisa in un saccheggio delle bande che venivano giù dalle montagne ad approvvigionarsi di ricchezze, e il suo villaggio bruciato. Aveva ceduto al fascino dei discorsi rivoluzionari e populisti di Yoshimitsu divenendo in breve tempo la sua pupilla. Anche se inizialmente non erano visti bene, essendo dei nomadi, pian piano la gente si abituò ad averli intorno a scadenze periodiche, e divennero degli amici cui chiedere informazioni sui parenti lontani o come andavano gli affari nel continente.
Purtroppo, proprio quando tutto pareva andare bene s’innamoro di uno dei suo compagni del Clan Manji. Il loro rapporto si protrasse per due anni, ed erano quasi intenzionati a lasciare il Clan per formare una famiglia propria, solo che si diffuse la voce che la giovane fosse incinta. Yoshimitsu le chiese conferma, e alla sua riposta affermativa chiuse le porte del Clan a lei e al suo ragazzo. Lui resistette qualche settimana, poi in preda alla disperazione di aver perso tutto, persino la sua famiglia putativa che l’aveva accolto con tanto affetto e amore, si uccise.
Lei, però, non si arrese. Cercò in ogni modo di rifarsi una vita, partecipando ai combattimenti clandestini al fine guadagnare qualche soldo per crescere lei e sua figlia. Ci era quasi riuscita, solo che una sera le era stato chiesto di perdere un combattimento. Per principio lei non lo fece, ed una volta fuori l’aspettarono in un vicolo sporco e buio.
La picchiarono a sangue fino a farle perdere conoscenza. Si svegliò nell’infermeria di corte, venendo a sapere che era stata trovata in fin di vita da Marshall Law, un caro amico del re, che l’aveva portata lì. Aveva perso la sua bambina, eppure neanche in quella situazione disperata si era lasciata sprofondare nella depressione. Ancora una volta, l’ennesima nella sua breve vita, aveva deciso di sfruttare l’occasione che le si presentava e ricominciare da capo.
Anna l’aveva presa in simpatia, e l’aveva assunta come dama di compagnia. Kunimitsu la sopportava appena, ma non si lamentava. Anche se la sua padrona, con la scusa della gravidanza le faceva pesare il fatto che lei avesse perso sua figlia, e la massacrava di lavoro lei sopportava in silenzio.
Sentiva di odiare quella creatura ancora prima che nascesse. Sua figlia sarebbe dovuta nascere i primi di novembre, ed invece non avrebbe mai visto la luce.
Tentò di conservare quell’astio anche quando vide quella creatura piangente artigliarsi a lei e succhiarle il seno, ma per la prima volta nella sua vita la sua forza di volontà le venne a mancare.
Hwoarang era tutta la sua vita. Avrebbe voluto essere lei la donna che avrebbe chiamato “Mamma”, verso la quale avrebbe mosso i primi passi.
L’esperienza le aveva insegnato che non era saggio fidarsi ciecamente di qualcuno, specie se era un aiuto che veniva dall’alto. Si sarebbero liberati di lei non appena Hwo fosse diventato più grande.
Inoltre sapeva che, essendo il secondogenito, il suo bambino (ormai lo aveva ribattezzato come suo) sarebbe stato obbligato a sparire nell’anonimato di un monastero o a morire per una guerra.
Perciò si mise d’accordo con il sovrano per rapire il piccolo, e portarlo nella casa di un suo caro amico, Baek Doo San.
Baek allenava giovani cavalieri. Se Hwoarang doveva seguire quel destino, voleva che avesse una morte gloriosa. Che almeno il suo nome fosse scritto sui libri di storia.
La giovane ninja, perciò, soffocò nel sonno la sua padrona, senza che Anna lottasse più di tanto. Dopo averla uccisa, chiamò sua sorella Nina, la regina, che si occupò di sbarazzarsi del cadavere. Era chiaro che fossero tutti d’accordo. In effetti, l’unico fine di quel piano era di riconquistare appieno il favore del popolo. Avrebbero potuto esiliarla, ma a quei tempi si preferiva una soluzione radicale ai problemi.
Se la morte del principino avrebbe sconvolto il popolo, portandolo ad immaginare un complotto, nessuno avrebbe indagato per scoprire cosa fosse successo ad Anna Williams.
Fecero perciò credere a tutti che l’amante del Re, dopo essere stata tagliata fuori dalla vita del sovrano e relegata al ruolo di mantenuta fannullona, avessero deciso di lasciare il regno portandosi con sé suo figlio.
Filò tutto liscio come l’olio. La ragazza fuggì da palazzo a cavallo, stringendosi al petto Hwoarang, il suo piccolo e preziosissimo tesoro, mentre cavalcando si dirigeva verso la Foresta Cinerea.
C’erano tre giorni di viaggio per raggiungere quel bosco, unica strada battuta per arrivare agli alti monti che segnavano il confine con il paese. (certo, se volevi essere picchiato dai contadini potevi passare per i campi)
La paura di essere aggredita non la sfiorava minimamente. Conosceva molti stili di combattimento, e pochi erano i fortunati che potevano dire di essere scampati ad una lotta con lei. Oltretutto, non ne avrebbero avute le ragioni.
Se c’era un motivo per il quale la regina e sua sorella la sopportavano, facendo finta di non sentirla polemizzare sul suo trattamento, era che non poteva certo vantarsi di essere una bella donna. Anzi, durante l’incendio della sua casa da parte dei briganti le fiamme le avevano bruciato il viso. Per cui, vergognandosi del suo aspetto (anche se a parte quello sfigurante segno sul suo volto, era piuttosto carina) portava una maschera bianca con muso ed orecchie da volpe. Da essa uscivano solo i suoi capelli, lunghi fino alla vita e legati in due codini. Inoltre portava sempre dei vecchi vestiti usati, vestiti da ninja che era riuscita a portare via prima di essere cacciata dal Clan.
L’unico oggetto di valore che aveva con se, poi, era quel bambino. Aveva solo una borsa di pelle sgualcita, dentro a cui teneva i medicinali da somministrare ogni tre ore a Hwoarang; che aveva la febbre alta da due giorni ormai, ed un pugnale.
Durante il tragitto, nonostante non stesse bene, non udì mai un brontolio da parte del piccolo. Al contrario, più il cavallo andava veloce più il bambino sorrideva, fino a lasciar trapelare una risatina di genuina felicità.
Kunimitsu, ogni tanto gli mandava qualche sguardo per accertarsi che stesse bene, ed ogni volta le si stringeva il cuore per la tenerezza che le faceva quella piccola creaturina che sorrideva e tendeva le braccia verso di lei. In quei due mesi scarsi, non l’aveva mai visto sorridere. Solitamente, mentre suo fratello Steve piangeva, urlava e strepitava per porsi al centro dell’attenzione; Hwoarang metteva su un muso ed uno sguardo assassino che ti faceva accapponare la pelle.
Tutti e due erano degl’irrimediabili egocentrici, ma il metodo di quest’ultimo sembrava avere un impatto migliore sugli adulti che si stancavano presto dei capricci del figlio maggiore, che ormai aveva quasi un anno.
Ora invece si mostrava per quello che era, un neonato entusiasta della vita.
Pregava perché il suo piccolo scricciolo non dovesse mai restare disilluso di fronte alle brutture del mondo. Che rimanesse sempre una persona semplice, anche se non necessariamente modesta.

I sudditi, come ci si aspettava restarono molto colpiti da questi intrecci di delitti e tradimenti nel palazzo reale, e furono dispiaciuti che il loro principe preferito fosse sparito assieme a sua madre; ma ben presto gli animi si acquietarono e poco tempo dopo quasi nessuno si ricordava che il re avesse avuto due figli.
Questo genere d’intrighi, naturalmente, non interessava il Granducato di Sword. Si poteva dire che era una realtà a se, un territori alquanto circoscritto che legiferava per conto suo, che si governava da solo.
Lì si rifugiavano tutti i criminali, i perseguitati politici e tutti quelli che meditavano vendetta contro Phoenix.
Mentre i Manji erano una comunità fondatamente pacifica, cioè combattevano solo per difendersi; i seguaci del Granduca Heihachi Mishima erano molto bellicosi e scendevano spesso a saccheggiare ed incendiare i villaggi.
Inutile dire che fu un’armata comandata dal figlio di Heihachi, Kazuya, a devastare la cittadina dov’era e cresciuta Kunimitsu.
Non c’era esercito in grado di battere quell’armata di mercenari, anzi ad ogni battaglia erano sempre di più i guerrieri al servizio di Paul, soprattutto i più abili, che preferivano passare al nemico essendo pagati di più e avevano più possibilità di far carriera.
Nessuno osava denunciare alle autorità di essere stato attaccato da loro, anche perché erano pochi quelli che veramente credevano che qualcuno potesse vivere tra quelle montagne.
Forse avevano dimenticato l’incredibile capacità d’adattamento dell’uomo. In mezzo ai monti, infatti, c’era un piccolo avvallamento protetto da una corona di vette che lo circondavano. Era impossibile arrivarci senza conoscere a perfezione i passi, i sentieri, e soprattutto il terreno, che potevi aprirsi improvvisamente sotto i tuoi piedi e farti finire i tuoi giorni assiderato in un crepaccio. Si viveva di saccheggi e di pesca.
Solo i pochi che vivevano lì, inoltre, conoscevano a menadito tutte le grotte e gli anfratti ove potersi riparare in caso ci si fosse imbattuti in una delle frequentissime tormente di neve. A causa di questi frequenti rovesci, era impossibile seguire le tracce dei briganti al servizio di Mishima, ed individuare la sua fortezza.
Essa sorgeva su di una collina, separata da tutte le altre abitazioni. Era molto grande, con massicci muri in granito e pochissime finestre da cui talvolta si poteva scorgere lo sguardo triste di Jun Kazama, la settima moglie di Kazuya.
A detta dei contadini del regno, erano dei barbari incivili, sporchi e pidocchiosi che vestivano sempre con pellicce puzzolenti. Avevano anche degli stivali di pelliccia, e dei pantaloni di lana per tenersi caldi.
Si notavano subito, seppur vestiti da popolani per la loro poca maestria con i cavalli. A quelle altitudini non potevano certo usare degli animali così delicati, quindi non avevano alcuna dimestichezza nel cavalcare. Per i lunghi tragitti sulle creste, avevano ammaestrato i Khor. Nonostante il loro aspetto non molto rassicurante, si erano, infatti, dimostrati d’indole tranquilla e amichevole ed ogni abitante del granducato ne teneva uno come animale domestico. Furono poi usati anche per indicare lo status di chi li possedeva. Più ne avevi, e più forti erano, più eri rispettato e temuto.
Si giocava anche sul fatto che i nemici vedevano quei bestioni solo come delle fiere mostruose e devastatrici.
Erano quindi molti i punti di forza del popolo di Sword.

A differenza dei cavalieri del re, se vogliamo dirla tutta, che avevano una gamma molto limitata d’armi che andavano dal giavellotto agli archi, e dalle spade classiche alle lance; i briganti disponevano d’ogni tipo di spada come alabarde, sciabole, katane e moltissime balestre delle dimensioni più disparate.
Per di più il loro stregone, un certo Abel, e il suo assistente Boskonovic avevano la fama di essere i Maghi Neri più forti del mondo.

Jun Kazama soffriva molto di questo strapotere di Heihachi e suo figlio. Loro ordinavano e gli altri dietro ad ubbidirgli come pecoroni. Aveva invano cercato di convertire alla pace quei guerriglieri, ma ogni suo tentativo si era rivelato inutile.
Lei che era nata sulle rive del fiume Lwoki, in un piccolo paesino nei pressi di della capitale. Lo stesso fiume che attraversava Ashjla dividendola in due parti, lì dove aveva passato la sua infanzia giocando per le vie lastricate…Che era stata rapita, dopo che Kazuya si era visto costretto a ripudiare anche la sua sesta moglie, incapace di dargli il figlio maschio che pretendeva.
Le mancava moltissimo Myricae, il suo cavallo color caffè con una macchia bianca sul muso. Dalla criniera fluente e l’andatura nobile. Senza contare quanto desiderasse assaporare ancora una volta i risotti di sua madre, o la sua buonissima crema di zucca.
Sarebbe potuta scappare da molto tempo, dal momento che anche lei disponeva di poteri magici non indifferenti. Magia bianca, certo, ma molto più potente che qualsiasi trucco a cui avessero potuto ricorrere Abel e il suo scagnozzo.
Perché era ancora lì? Semplice ed allo stesso tempo paradossale: amava Kazuya.
Lo aveva odiato così tanto, quando ancora sedicenne venne portata tra quelle montagne, che le sembrava impossibile che quel profondo disprezzo si fosse tramutato in un sentimento diametralmente opposto. In fondo al suo cuore, però, sapeva benissimo perché questo fosse successo. Erano stati quei suoi occhi neri come una notte senza stelle, velati di una tristezza infinita, dolcemente melanconica. Kazuya era stato cresciuto all’insegna della violenza, non aveva conosciuto altro che urla e sangue. Suo padre gli aveva fatto il lavaggio del cervello, ed era comprensibile che lui pensasse di essere nel giusto maltrattando disumanamente i più deboli.
In realtà era un uomo dalla cultura incredibile, che spaziava dalla letteratura alla storia antica, dalla filosofia greca alla cartografia. Rimase molto sorpresa nel sapere che quelle carte dettagliatissime di Hazel, le stesse che quel tirchio di Aziluth vendeva ad un prezzo esorbitante, fossero state disegnate da lui. Non c’era luogo che Kazuya non avesse visitato, ed i suoi racconti erano così particolareggiati che erano degni di essere annoverati tra i migliori resoconti etno-geografici di cui Jun avesse memoria. In quelle descrizioni non c’era alcuna nota di disprezzo verso le altre popolazioni, e questo tradiva il fatto che forse Kaz non fosse così malefico e sprezzante come voleva far credere.
Ormai non avrebbe saputo come vivere senza suo marito. Si era affezionata ai suoi burberi mugugni, ai sorrisi appena accennati…Alla tenerezza nei suoi occhi e nella sua voce, quando parlava del suo fratellastro Lee.
Gli voleva molto bene. Lo aveva capito quando gli aveva chiesto che fine avesse fatto, e lui l’aveva guardata come se avesse commesso chissà quale delitto.
Poi le aveva risposto che durante una battaglia era stato catturato dalle truppe del generale Wulong, capo dell’esercito al servizio di Michelle Chang. E che probabilmente non era più in vita, visto che nelle prigioni del Kukam certo non risparmiavano ai prigionieri maltrattamenti e sevizie se non confessavano. E se nessuno era ancora arrivato tra quei monti significava che Lee non si era piegato alle loro torture.

Per questi, ed un milione di altri motivi; Jun voleva tenere il suo bambino lontano da quel individuo infido di nome Heihachi Mishima.
Jin era l’unica creatura, in quella masnada che era il Clan Mishima, ad essere ancora puro e innocente.
Come fare? Beh, a quel vecchiaccio non mancavano certo gli uomini, ed era senza dubbio maggiormente interessato a distruggere psicologicamente suo figlio piuttosto che occuparsi di un poppante.
Kazuya si era dichiarato intenzionato solamente ad insegnare la difficile arte del combattimento a Jin, mentre delegava a sua moglie il compito di educare il figlio.
Una volta cresciuto, lo avrebbe mandato a sfidare il campione della scuola di Baek.
Se fosse riuscito a batterlo, infatti, avrebbe potuto entrare nella scuola. Kazuya non avrebbe avuto niente in contrario a lasciare che il suo Jin perfezionasse le sue tecniche prendendo lezioni dal miglior stratega sulla faccia del pianeta.

E se non lo avesse sconfitto?
C’era anche questa remota evenienza, ma Jun preferiva non pensarci.
In questo assomigliava a suo marito…Era sicurissima che non ci sarebbe mai stato nessuno sarebbe stato in grado di competere con il suo pargoletto.

Ed in ogni caso, bisognava dare tempo al tempo.
Interrogarsi adesso non sarebbe servito a niente.

Sperando che Jin non morisse prima di arrivare alla maggiore età.























 
Continua nel capitolo:


 
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