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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: QUANDO GLI ANGELI PIANGONO
Genere: Sentimentale, Drammatico, Dark, Autobiografico
Rating: Vietato Minori 18 anni
Autore: katzehiwatari galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 25/02/2007 16:15:34 (ultimo inserimento: 01/04/07)

[....] L’immagine che vidi mi fece disgusto. [....] E il viso era talmente marcato da non farmi quasi riconoscere. Sembravo un cadavere. [....]
 
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01
- Capitolo 1° -

"Questo racconto non è stato scritto a scopo di lucro. Ma è stato scritto per parlare, testimoniare, quanto possa essere orribile un mondo che, purtroppo, riesce ad attirare sempre più un maggior numero di ragazzi. E, contrariamente a quello che si sente dire in giro, non è la curiosità che ci spinge a drogarci. Ma è solo il dolore di non essere realmente amati...ed essere abbandonati a se stessi."




[….] In ogni caso…fu a tredici anni che iniziai con l’hashish. Tutto mi sembrava più bello quando stavo con i ragazzi con cui avevo cominciato ad uscire. Erano tutti di diciotto o diciannove anni. Fatta eccezione per Marco e Renato. Loro, come me, avevano ancora tredici – quattordici anni. E stare insieme a quegli altri penso ci facesse sentire, in qualche modo, grandi. E me ne accorgevo specialmente dal modo in cui i nostri compagni, o le nostre vecchie compagnie ci guardavano. Eravamo più avanti di loro in tutti i sensi. Noi non eravamo più soltanto “quelli che uscivano col gruppo di Daniel”. Noi ora facevamo parte del gruppo di Daniel. Io e Marco prendevamo lo stesso pullman per andare a scuola. E lì stavamo con Kappa e con il Tiro. Due del gruppo. Avevamo i posti in fondo al pullman. E gli altri primini erano terrorizzati da noi. Mentre i più grandi lo erano solo da Kappa e dal Tiro. Ma io mi sentivo più che grande. ed entravo con fierezza in quel pullman. Pronto, con gli altri, a solfeggiare appunto i primi e, a volte, i secondi.
Non avevo quasi mai i soldi. E ci di noi dietro li aveva…non li spendeva certo in gomme da masticare. Così spesso mi facevo da cima a fondo il pullman per farmele dare da qualcuno. Quando qualcuno non me le dava mi facevo dire il suo nome. Quello sarebbe stato chiamato, al ritorno, per il solfeggio. Anche per chiedere le sigarette a volte lo facevo. Così anche Marco, o Kappa. Lo facevamo a rotazione. Il Tiro invece non si muoveva mai. Stava sempre seduto sul suo posto, con gli occhiali da sole. Anche se pioveva, o c’erano le nuvole. Era inquietante anche per me, all’inizio. Arrivavamo alla fermata del pullman. Li, dal tabaccaio, ci ritrovavamo tutti e sette. Io, Marco, Kappa, Tiro, Davide, Renato, e Daniel. Stavamo seduti ai tavoli interni per una buona mezz’ora. Fumando, parlando, e qualcuno intanto faceva colazione. Era diventato un rito questo. Poi andavamo nelle rispettive scuole. Io, Marco, Tiro, e Daniel all’Istituto d’Arte. Kappa allo Scientifico. Renato e Davide al Commerciale. Eravamo sempre in ritardo. Ma a nessun preside, o insegnante, fregava più di tanto. Almeno ai nostri dell’Istituto. Che come massima punizione mettevano una R sul nostro nome, e scrivevano sul registro – sullo spazio della comunicazioni al preside – “Cioci e Trelkovski entrano in classe alle ore 08.45”.

Le lezioni non le stavo quasi mai a sentire. All’infuori di quelle che qualche volta mi interessavano. Mi piaceva Pittorico, quando dovevamo disegnare. Mi piaceva Italiano, quando ci veniva dato qualche tema libero. Oppure Inglese, che già sapevo piuttosto bene. A Educazione Fisica stavo quasi sempre con Marco nel cortile. Sotto le scali antincendio. A fumare erba o a sniffare il popper. E a noi riunivano sempre due ragazzi. Lorenzo e Michele. Il resto della classe, quasi tutte femmine, ci guardavano con ammirazione. Sperando che qualcuno di noi quattro le invitasse, prima o poi, ad unirsi a noi, o ad uscire. Fatta eccezione per una tipa casa e chiesa, che ci guardava sempre come se fossimo stati demoni. E per una cazzo di perbenista, che in futuro sarebbe diventata come noi. Ma a nessuno di noi quattro, eccetto credo a Michele, interessava far venire anche solo una ragazza nel “secondo gruppo”.

Lorenzo…ero felice che si fosse unito a noi. Mi era piaciuto parecchio già dalla prima volta che lo avevo visto in aula magna, il primo giorno di scuola. Ci avevano fatto un ridicolo gioco per farci conoscere tra di noi. Che consisteva nel lanciarsi una palla bianca. E quando ti veniva lanciata bisognava dire, in inglese, la frase “Io mi chiamo Tizio…Caio…ecc….”. Ognuno il proprio nome insomma. E poi era il tuo turno di tirare la palla a chi volevi.
Non ricordo bene se fui io a tirargli la palla,o meno. Ma quello che ricordo fin troppo bene fu il primo istante in cui lo notai davvero. E in cui mi soffermai a guardarlo. Mentre reggeva la palla bianca in mano e diceva “My name is Lorenzo.”. Non lo dimenticherò mai.
Michele…era molto diverso da lui. E lo avevo notato per la prima volta in palestra. Mentre giocavo a basket, e lui si unì a me in un: uno contro uno, che si trasformò in due contro due, quando a noi si unirono anche Marco e Lorenzo. Vincemmo, per un pelo, io e Marco. Poi approfittammo dei reciproci commenti sulla partita per conoscerci meglio.

Comunque non solo durante educazione fisica. Ma anche durante le normali lezioni uscivamo per andare in bagno a fumare erba, o per il popper. Mentre il momento culmine della mattinata era la ricreazione. Io, Marco…assieme a Daniel e al Tiro. Era il massimo. Camminare per i corridoi con tutti gli occhi puntati addosso. Andare nel retro dell’aula di Architettura, passando per la palestra. E stare li dietro a fumare, sniffare, e fare i cazzi nostri. Per poi rientrare ancore in ritardo in aula.
Ricordo la prima volta in cui saltai la mattina, entrando solo per le due ore del pomeriggio.
Avevo fatto sega, per andare ad ubriacarmi con gli altri del gruppo nel parco, già molte altre volte. Ma poi non ero mai entrato nel pomeriggio. Quel giorno, non so il perché, lo feci.
La mattina, col gruppo, eravamo andati dal tabaccaio direttamente all’alimentari, e avevamo comprato parecchia birra. Così andammo al parco a berla. Ci ubriacammo, fumammo, e sniffammo tutto assieme. Eravamo fuori alla grande. Soprattutto perché Daniel, oltre all’hashish, aveva portato dell’olio di hashish. Io vomitai proprio dietro l’albero sotto al quale stavamo stesi. Ma, eccetto questo, nessuno di noi stesse eccessivamente male.

Le lezioni del mattino erano finite. Gli studenti ora avevano la pausa per il pranzo. Così, visto che non avevo la minima voglia di tornare a casa, decisi di andare in classe. Marco venne con me. Il resto del gruppo invece rimase a smaltire nel parco.

Quando varcammo l’ingresso dell’Istituto quelli che erano nel cortile a mangiare capirono subito che stavamo completamente fuori. Io e Marco ci aggrappavamo l’uno all’altro per riuscire a rimanere in piedi. E avevamo un aspetto assurdo. Entrammo nel corridoio e mi volli fermare davanti ad uno degli specchi appesi alle pareti. L’immagine che vidi mi fece disgusto. Avevo la faccia completamente sbiancata. E le pupille talmente dilatate che sembravano semafori. Delle occhiaie assurde. E il viso era talmente marcato da non farmi quasi riconoscere. Sembravo un cadavere. Marco era ridotto poco meglio di me. Ma ugualmente: si vedeva che stavamo fuori. E la sbornia che mi ero preso, mischiata all’hashish, all’olio dell’hashish, e al popper, mi faceva sentire tutt’altro che euforico. E la leggerezza che provavo al parco era diventata pesantezza. Un’incredibile pesantezza. [….]

 
Continua nel capitolo:


 
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