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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: BLOODY CARNIVAL
Genere: Horror, Drammatico
Rating: Per Tutte le età
Autore: momiji89 galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 29/11/2006 03:02:26

Tra un mese il tuo amichetto resusciterà!
 
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GREG
- Capitolo 1° -

"Tutti i personaggi di questa storia sono maggiorenni, i fatti e i personaggi non sono esistiti o esistenti."
{e chi mancherebbe altro, per Dio}



Capitolo primo. “Greg”

Sull’uscio di casa era già percepibile, forte e distinto in mezzo a mille altri odori, il caratteristico aroma di “casa”. Quella fragranza, quel profumo caldo, piacevole, l’unico capace di avvolgere col suo tepore chiunque abbia la fortuna di sentirlo, chiunque abbia il suo luogo da definire “casa”.
Inserii la chiave color arancio nella toppa. Entrai in casa, con una rinnovata allegria.
“Seeeera! Aah, che buon odore che c’è, Greg! Che si mangia?”
“Metti la giacca sull’attaccapanni, ruffiano.”
Ben consapevole delle mie abitudini, preferì ricordarmi le sane consuetudini, comune alla gente normale – poggiare gli abiti in posti umani piuttosto che per terra a fare da nuova colonia per le formiche o altri insetti fastidiosamente simili, ad esempio.
“Che si mangia di buono?” ripetei, recandomi in cucina con lo stomaco che brontolava – altro mio vizio era saltare sempre il pranzo.
“Pollo arrosto.”
“Oh, caaarne…”
“Niente bava sul cibo, incivile. Fila a lavarti le mani, subito.”
“Ti stuferai mai, un giorno, di farmi da mamma?”
“Mai, finché ne avrai bisogno.”
“Ti verrà un esaurimento nervoso, se continui a seguirmi come fai ora!”
“Capita.”
Parlandomi, non aveva alzato un istante gli occhi dalla cena. Non stava bene.
Un suo grosso difetto era tentare di scacciare il dolore – o il fastidio, o comunque un sentimento simile – impegnandosi molto in una cosa (essendo disoccupato, in quei giorni metteva tutto se stesso nelle faccende di casa), credendo così che i brutti pensieri non gli avrebbero poi fatto più visita, finendo solo per assimilare negatività che, data la sua indole esageratamente tranquilla trovava difficile sfogare.
“Non hai visto Christine neppure oggi, vero?”
“No.”
“Lavora tanto in questo periodo?”
“Lo sai. Non fare domande inutili, per favore. Va a sciacquarti.”
“Vaaa bene…”
La sua ragazza, in quel periodo, era impegnata a fare carriera come avvocato. Non si vedevano da un paio di settimane, ma al mio amico pareva un’eternità, amandola così tanto.
Christine… la bellissima Christine…
Togliendomi di dosso la polvere – simbolica e reale – accumulata durante la giornata, scossi forte la testa, in modo che lei si levasse dalla mia mente. Non potevo avere alcun pensiero su di lei, ch’era la fidanzata del mio migliore amico.
Non potevo.
Lei era di un altro. Pensare a lei era come tradire la persona a me più cara al mondo.
Respirai a fondo e, per non dare ulteriori pensieri alla “mamma” indossai nuovamente una bautta costruita con fili di pura allegria che, autonomamente, mi ero confezionato – inconsapevole, sciocco. Non che di mio non fossi vivace (anche troppo, soleva borbottare Greg quando facevo troppa confusione con gli amici), ma quella mia compagna impediva di farmi esternare ogni sentimento negativo, che avrebbe causato solo altro dolore e preoccupazione.
Ed era l’unica cosa che non volevo.
Uscii dal bagno, raggiungendolo nuovamente.
“Pronto per mangiare!”
“Okay, si mangia…”
Alzando finalmente lo sguardo grigiastro verso di me, il volto gli si pietrificò. Nel medesimo istante, iniziai a sudare freddo.
“Hai-fatto-di-nuovo-a-botte?!” mi chiese, a denti stretti, indeciso su che frusta usare per darmi una definitiva lezione sulla convivenza civile tra esseri umani.
“Mentre consegnavo un pacco un tipo ha attaccato briga e io l’ho steso! Rompeva!!” risposi, come per giustificarmi, sapendo benissimo che questo non mi avrebbe tirato fuori dai guai comunque.
Irato, mirò tutta la mia figura, centimetro per centimetro. Io rimasi immobile, osservando la sua rabbia crescere ogni attimo di più.
Detestava dal profondo vedere che mi facevo male. Il suo senso di protezione era gigantesco.
Contemplò i lividi sulle gambe che gli abiti corti dovuti alla stagione mostravano in tutta la loro gloria, le ferite del ginocchio destro e di entrambi i gomiti. Fissandomi negli occhi, arrivò l’orrore per l’occhio destro pesantemente nero, il labbro inferiore spaccato e la grossa ferita ancora intensamente rossa sulla guancia.
“Greg, non è niente, sono due graffi! Dai, ho fame, mangiamo?”
“In bagno.”
“Ho fa--”
“In bagno.”
“Ma ti ho detto che non è nien--”
“In bagno. Oppure vedi che ti convincerai che ci sarà qualcosa da medicare.”
Dietro-front, seduto sulla tavoletta del water. Lo guardai prendere, frettoloso, cotone, cerotti, bende e alcool, borbottando in malo modo. Sembrava dovesse curare un esercito.
“Sempre in giro a fare a cazzotti, a litigare come un moccioso, senza neppure disinfettarsi… hai perso il lavoro?”
“…sì.”
“Eh, ovvio! Sono stufo di contare sempre sui tuoi genitori, Ace!!”
Mezzo infuriato, imbevette di disinfettante un batuffolo di cotone, portandolo senza grazia alcuna sul ginocchio, procurandomi una fitta allucinante.
“Cazzo, brucia!! E stai attento, cavolo!!”
“Te lo meriti, imbecille!!”
“Non rompere!!”
“Non rompere tu!! Perdi un lavoro dopo l’altro senza la minima preoccupazione e a noi tocca campare sulle spalle dei tuoi, ma ti sembra logico?! Non te ne eri andato di casa per cavartela da solo?! Hai ventitrè anni, non sei un bambino, te ne vuoi rendere conto?! Sono stufo di te che continui a recitare la parte del bamboccio!!”
No, mi sbagliavo. Riusciva a sfogarsi. Rimproverando me.
Ogni sua parola stillava verità e mi colpirono come frecce avvelenate. Abbassai la testa, sconfortato, mentre mi metteva i cerotti.
“Mi dispiace…” sussurrai – poiché la rabbia era del tutto sparita.
“Non serve a nulla! Mi dai sui nervi quando fai così, quando ti comporti da irresponsabile e rischi la vita per cretinate! Ci sarà la volta che becchi uno fatto o ubriaco e ti accoltella! Sempre fuori a menare le mani e perdere lavori! E neanche un sfottuto salto al pronto soccorso! Un giorno dovrò venire all’ospedale a riconoscere il tuo corpo!”
“Scusami…”
Greg aveva questo terribile vizio: quando si trattava di me, diventava estremamente logorroico nei rimproveri. Ripetitivo, pessimista, arrabbiato – ma solo nei miei confronti.
Con nessun altro.
“Non capisco poi perché tutta sta voglia d’immischiarsi in scazzottate, sei incomprensibile…”
“…è eccitante?”
“IDIOTA!!”
Finì di medicarmi col silenzio assoluto, naturalmente solo spezzato dai suoi sbuffi di rabbia e preoccupazione.
“Insomma…!” iniziò, alzando il capo e fissandomi negli occhi. Sbuffò, soffiando verso l’alto e spostando un ciuffo di capelli ebano. “Se non ci fossi io, dove finiresti?”
“Sottoterra.”
Non avrei potuto dare risposta più veritiera. Mi era impossibile procedere per la retta via senza avere lui al fianco, a reggermi mentre inciampavo, a indicarmi la strada.
Finita la medicazione, mi tirò un ceffone dietro la nuca.
“Su, che il pollo si sarà già freddato…”
“Cibo, cibo, cibo!!”
Sedendoci a tavola, Greg accese la televisione, appena in tempo per la principale notizia del telegiornale locale. La voce monotona (senza anima) nel giornalista parlava di qualcosa d’estremamente grave. Ci sistemammo e subito i nostri occhi furono catturati dalle immagini che scorrevano sullo schermo.
“Salgono a dodici le vittime del mese del maniaco che sta terrorizzando la città e l’America intera. Questa volta si tratta di una bambina di dodici anni, figlia di immigrati, entrambi onesti lavoratori. Come al solito si è potuti arrivare all’identità grazie alla testa, unico resto che l’assassino che sembra scegliere le vittime a caso lascia su luogo del delitto, assieme alla firma ‘Redrum’, di calligrafia infantile, scritta col sangue del morto sulla sua fronte. Diamo la voce al padre, distrutto, che non chiede altro che giustizia per la sua piccola…”
“Vedi?”
“Cosa?”
“Potresti finire così anche tu, se non la pianti di metterti nei guai.”
“Ma figurati! Mi so difendere! Più che bene! Sei tu quello deboluccio tra noi due, nonostante l’altezza!”
“Ma mangia e sta zitto, tappo.”
“Non sono un tappo. Sono alto.”
“Beh, comunque sei più basso di me.”
“Non ci vuole tanto, pertica!”
Da lì, cominciammo a discutere, a parlare di cavolate, partendo dall’altezza arrivando alla virilità, alla legge della L (“Io ce l’ho più lungo perché sono più basso!” “Ma i bassi se li filano in pochi.” “Ma quei pochi godono di più!” “Ma i bassi rischiano più cecità, cuccando di meno.” “Cosa stai insinuando?!” “Il motivo per cui ci metti così tanto al bagno la mattina…”), dall’abilità nella lotta e nello studio. Arrivammo alle due di notte senza che ne accorgessimo. Quando ci rendemmo conto dell’ora tarda, filammo a letto, senza sparecchiare. Mentre Greg mi dava la buonanotte, fu come se qualcuno mi pugnalasse più volte allo stomaco, con sempre più forza. Di scatto, senza pensarci, lo abbracciai, stringendolo forte. Fu naturalmente una mia impressione, ma sentii il suo calore sfumare poco a poco, come rubato. Un brivido mi traversò la schiena.
Rimani…
“Che hai?” mi domandò, scettico.
“Niente.” Risposi, staccandomi, imbarazzato. “Ehi, Greg…”
“Che c’è?”
“Posso… dormire con te?”
“Non hai le tette, non sono eccessivamente contento di questa richiesta…”
“Daaai, ho paura del buio! Dormiamo insieme! Fai la brava mamma! I genitori non lasciano mai da soli i figli!”
“…su, marmocchio che ce l’ha più lungo, muoviti.”
Abbaiai, in segno di giubilo, infilandomi sotto le sue lenzuola in boxer. Mi strinsi come ad un enorme pupazzo. Imitando un gatto, cominciai con le fusa e gli leccai il viso, una cosa che odiava sopra ogni dire, tutto con l’obiettivo di dargli fastidio.

Non riuscii a prendere sonno per un paio d’ore. Si era radicato in me un’odiosa sensazione, dal sapore amaro e acido. Al momento non seppi spiegarmi cos’era. Stavo male senza dare un nome al morbo che mi stava succhiando ogni barlume di felicità. Sapevo solo che non volevo che la notte finisse. Non volevo lasciare la vita di Greg. Non volevo più abbandonare quel luogo, perché avevo paura che, al ritorno, avrei trovato solo macerie di una vita serena che con lacrime e sangue mi ero finalmente costruito. Non volevo assolutamente chiudere gli occhi perché nessuno mi assicurava che, una volta riaperti, avrei trovato ciò che volevo.
Ma Morfeo fu prepotente ed inopportuno, rapendomi quando ancora ero nel mezzo della mia afflizione.

Quando mi svegliai, il letto era vuoto. Altre volte mi era capitato, ma in quelle occasioni le lenzuola odoravano di sesso consumato, mentre quelle di Greg, appena lavate, portavano ancora l’odore del detersivo.
Il malessere della sera prima s’impadronì nuovamente del mio essere. Come sconvolto – come se avessi visto il fantasma del mio migliore amico – iniziai a gridare il suo nome, cominciando a camminare per casa con passo febbrile. In cucina, però, trovai quasi subito un suo biglietto che mi comunicava, nella sua calligrafia lunga e sottile – non comprensibile a tutti gli umani, però –, leggermente animata dall’allegria, che Chris l’aveva chiamato e che quindi era uscito presto per comprarle un regalo e organizzare per bene il loro primo appuntamento dopo tanto. Diceva anche che mi aveva lasciato per pranzo un po’ di pasta. Tirai un sospiro di sollievo e il masso sullo stomaco fu distrutto.
Osservai l’orologio; le lancette nere segnavano le undici passate. Nell’istante in cui distolsi lo sguardo da esse, il cellulare iniziò a squillare.
Don’t wanna be an american idiot…
“Pronto? Qui Ace Ventura Missione Africa!
“Ti sei appena svegliato, vero?”
“No!”
“Lo sento dalla voce, non mi freghi mica. Hai letto il biglietto?”
“Sì, mamma, e ti assicuro che mangerò tutta la pappa!”
Ridacchiò. Buon segno.
“Allora ci vediamo stasera sul tardi. Forse.”
“Se Chris non incatena al letto.”
“Appunto. Per la cena forse è meglio se ti arrangi, che tanto a trovare cibo sei un asso. Oggi non uscire, okay?”
“Perché?”
“Non vorrei trovarti solo carne NON respirante.”
“Okay, okay, che palle…”
Fui stranamente docile. Non protestai, non feci storie. Gli ubbidii semplicemente.
Fui così salvo. Altrimenti, forse, al suo posto ci sarei stato io…
E forse sarebbe stato un bene."
Trovati qualcosa da fare in casa, tipo lavare i pia--”
“Giocare con la PSP!!”
“…io pensavo a qualcosa di più utile e meno distruttivo per le tue cornee, però okay, basta che non incendi casa.”
“Neanche un piccolo fuocherello per le salsicce?”
“Neppure per i marshmallow.”
“No!! Non puoi togliermi i marshmallow!! Aguzzino!! Crudele!! Pisello corto!!”
“…quest’ultimo commento non so che c’entri. E comunque ti sembra normale a MAGGIO mangiare robe bollenti? …mi rispondo da solo: sì. Chiudo, ci vediamo.”
“Buon appuntamento, capo!”

Verso le otto di sera gli occhi, forzati da quasi sei ore sul piccolo schermo della consolle, iniziavano a tradire segni di cedimento – nel senso più letterale possibile; poco ci mancava che uscissero dalle palpebre.
Svogliato, mi alzai dal letto, trascinandomi in cucina, con la precisa intenzione di farmi un panino per cena, infilandoci qualsiasi cosa commestibile avessi trovato in frigo. Accesi la televisione a caso e cominciai a fare una pila di varie cibarie. Esattamente mentre, in cima alla torre (di wurstel, uova, pomodori, mozzarella, pane italiano, insalata, radicchio) il tubetto di maionese, il cellulare squillò. In fretta e furia, riposi tutto sul tavolo.
“Pronto?”
“Ace?”
“Che c’è, Christine?”
“Greg è lì?”
Il masso si riformò, maledetto.
“Eh? No, dovrebbe essere con te…”
“Appunto… avevamo appuntamento tre quarti d’ora fa per il cinema… non è mai arrivato in ritardo, è molto strano…”
“Se arriva ti faccio sapere.”
Chiusi bruscamente la telefonata. Il macigno si fece più pesante, fino quasi a bloccarmi il respiro. D’improvviso, le orecchie furono catturate dalla voce della reporter.
“Sì, salgono ora a tredici le vittime di Redrum. Questa volta si tratta di un giovane maschio, di razza bianca…”
Lo schermo mi attirò a sé. Le gambe risposero.
“…di cui è stata già riconosciuta l’identità. Si tratta di John Gregorian Matthews, di ventisei anni…”
La telecamera stava inquadrando la testa mozzata di Greg. Gli occhi grigi sbarrati, l’orrore dipinto nelle iridi.
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!!!"

 
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