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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Videogiochi
Dalla Serie: Kingdom Hearts
Titolo Fanfic: CID HIGHWIND INVESTIGATION - IL CASO 235.B
Genere: Azione
Rating: Per Tutte le età
Avviso: AU, Shounen Ai
Autore: axel-sora galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 15/11/2006 21:04:44

un compito di ordinaria amministrazione per il c.h.i. ... ma se quel burlone del presidente highwind avesse spiegato solo una mezza verità?
 
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IL CASO MIYASAKA
- Capitolo 1° -

Buongiorno a tutti da Sora ^O^
Eccomi qui con una nuova fanfiction che il mio cervellino ha partorito... le cose da dire sarebbero molteplici, quindi inizio subito XD
Anche questa storia è una shounen-ai, sebbene non sia intorno a questo che ruota l'intera vicenda ^__^
E' una alternative universe, anche se non so di preciso dove il tutto si svolga XD
Alcuni personaggi potrebbero apparire un po' OOC... soprattutto uno ù_ù <strane frecce colorate e lampeggianti indicano Marluxia> chi ha acceso queste luci al neon? ?__?
E per finire... in tutta la ff ci saranno degli special guests, chiamiamoli così XD alla fine svelerò le loro identità... u___________u XD
E ora, senza perdermi in altre chiacchiere... vi auguro una buona lettura e vi lascio un grande ringraziamento per aver deciso di leggere questa storia ^O^

Sora



Capitolo 1. “Il caso Miyasaka”

“Sei sicuro che si trovi qui dentro?”.
“Sì, non ho dubbi”.
“Allora andiamo, non dobbiamo perdere altro tempo”.
Era una piccola palazzina ancora in costruzione in una cittadina della provincia occidentale, uno di quei posti dove la gente preferisce tenersi alla larga da problemi che non la riguardano e difficilmente si prodiga nell’aiutare il prossimo. I due giovani avevano di certo soggiornato in luoghi migliori, nell’adempimento delle varie missioni che venivano loro affidate, e la tentazione di lasciare quella città in balia del male che vi stava prendendo piede li aveva pungolati più di una volta; non avevano mai preso sul serio quella possibilità, però, ben consapevoli delle conseguenze che quel gesto avrebbe portato.
E non si trattava solo di una minaccia di licenziamento.
L’ingresso, a cui ancora mancava la porta, era stato chiuso con una grande tavola di legno appoggiata ai due stipiti. I due ragazzi ne afferrarono saldamente le estremità e con leggera fatica riuscirono a liberare il passaggio, appoggiando poi la tavola al muro di fianco all’ingresso. Finito il lavoro avrebbero dovuto rimettere tutto a posto, ma per il momento l’importante era portare a termine la missione.
Entrarono: il corridoio era immerso nella penombra, con l’unica luce presente che proveniva dal varco appena aperto; le finestre al primo piano, prive di vetri, erano state sbarrate con del legno come la porta.
Il più grande chiuse per un istante gli occhi, e quando li riaprì stava guardando verso le scale. Nello stesso istante degli esseri oscuri presero forma dall’ombra, annusarono l’aria e puntarono tutta la loro attenzione verso i visitatori.
“Ancora Heartless… e chissà quanti ne appariranno, visto che siamo qui… Sora, la serratura è al secondo piano, la terza porta sulla sinistra… vai, di loro mi occupo io!”, esclamò uno dei due, mentre tra le mani gli appariva una falce.
“D’accordo, vado!”. Il più piccolo guardò il compagno che iniziava a battersi con i loro nemici, e senza più indugiare si lanciò verso le scale; ringraziò mentalmente i muratori che lavoravano lì per aver lasciato aperte le finestre dei piani superiori, così che riuscì a vedere dove andava. Stava attraversando il primo piano, quando anche per lui apparvero degli Heartless: l’unica cosa che poteva fare era combatterli ed aprirsi la strada fino alla stanza che gli era stata indicata… gli bastò visualizzarlo per un istante, perché il Keyblade apparisse tra le sue mani.
In pochi attimi si era liberato dei piccoli nemici neri, ma continuavano ad apparirne senza un attimo di pausa; decise quindi di non prestare loro troppa attenzione, ma di distruggere solamente quelli che gli impedivano il procedere. Adottando questa tattica raggiunse la stanza, spalancandone la porta: ora che si trovava vicinissimo poteva sentirne anche lui il potere… alzò il Keyblade puntandolo verso la parete più estesa, e la sagoma luminosa di una grande serratura comparve; dalla sua arma partì un raggio lucente che andò a colpire proprio la forma appena apparsa facendola dapprima risplendere intensamente, per poi farla scomparire.
Missione quasi compiuta, la serratura attraverso la quale gli Heartless raggiungevano il loro mondo era stata chiusa.
Sora sentì dei passi dietro di sé.
“Tutto a posto, Sora?”.
Il ragazzo fece il segno della vittoria: “Certamente Marluxia! Ora dobbiamo solo occuparci degli Heartless rimasti, poi il nostro lavoro qui sarà finito”.
“Non vedo l’ora di tornare a casa”, disse l’altro, liberandosi di un Neo Shadow che l’aveva attaccato.
Sora sorrise. “Ci torneremo presto, per fortuna!”.

– Istituto privato Saint Lawrence, tre giorni dopo –
Erano le nove passate da cinque minuti e non c’era studente presente nell’aula che non si stesse chiedendo dove fosse finito il professore, di solito sempre puntuale alle nove spaccate per iniziare la prima lezione della giornata.
Le ipotesi sulla sua scomparsa erano le più svariate: la sveglia che non aveva suonato, un raffreddore, una bomba esplosa nella sua camera, gli alieni che lo avevano rapito durante la notte. Cose che possono capitare a chiunque e in ogni momento, quindi.
L’improvviso aprirsi della porta andò a distruggere i sogni dei ragazzi, che già progettavano due ore da passare nella più completa inattività: il loro insegnante era lì, a scrutarli con occhi quasi ridotti a due fessure.
“Ragazzi, smettetela di far confusione! E… tornate ai vostri posti”, aggiunse, vedendo il gruppetto per le scommesse che si stava formando in un angolo della classe. “Bene”, proseguì, non appena fu tornata la calma, “penso abbiate notato i due banchi che sono stati aggiunti prima del vostro arrivo”.
Nessuno proferì parola.
“D’accordo, non ci avete fatto caso…”, sospirò, davanti alle espressioni completamente smarrite dei suoi allievi. “Da oggi avrete due nuovi compagni. Vi prego di accoglierli come si conviene a degli esseri umani educati”. Dopo aver detto ciò l’uomo fece cenno verso la porta di venire avanti, e due ragazzi entrarono nell’aula mettendosi di fianco alla cattedra. Il primo sorrideva leggermente imbarazzato davanti a tutti gli alunni, mentre il secondo guardava verso la finestra con aria distaccata e quasi annoiata.
Di nuovo il professore prese la parola: “Loro sono Sora e Roxas Asahi. Avrete modo di conoscerli durante le pause – alzò leggermente la voce per sovrastare i mormorii che si erano levati dalla folla – ma ora è il caso che la lezione cominci. Roxas, Sora, i vostri banchi sono quelli là in fondo. Prego”, concluse mostrando il posto appena indicato, iniziando a spiegare non appena i due ragazzi si furono accomodati.
“Nel contesto di oggi potremmo dire che l’estetica di Petronio…”.
Erano passati solo due minuti dall’inizio della spiegazione che Sora era già tutto preso dal trascrivere sul suo quaderno ogni parola che il professore stesse dicendo; molti ragazzi lo guardavano stupiti da tanta diligenza, sentendosi ben lontani dall’essere come lui. Roxas, invece, aveva subito fatto passare velocemente lo sguardo su tutti i loro nuovi compagni, per posarlo infine sull’oggetto delle sue ricerche: quei capelli argentati erano inconfondibili, non poteva che essere lui.
Decise quindi di interrompere l’alacre lavoro del fratello, toccandogli un braccio con la mano; quando questi si voltò, gli indicò con un impercettibile movimento del volto il ragazzo seduto dall’altra parte dell’aula, appoggiato svogliatamente alla parete che aveva al suo fianco.
“Riku Miyasaka, è lui…”, sussurrò Sora più a se stesso che a qualcuno in particolare.
Come attirato dagli sguardi dei due gemelli su di lui, Riku voltò il viso nella loro direzione e incrociò i propri occhi con i loro: il moretto distolse subito lo sguardo, imbarazzato, mentre Roxas rimase fisso a guardarlo.
Sembrava si stessero sfidando a chi avrebbe smesso per primo di fissare l’altro.
Sora sospirò, conscio che difficilmente il fratello si sarebbe arreso in quella gara. Che cosa aveva fatto di male per doversi sopportare Roxas in quella missione? Maledetto il suo orgoglio e l’impicciarsi di quei due… se fosse potuto tornare indietro di soli due giorni, le cose in quel momento sarebbero state completamente diverse.

– Base segreta del C.H.I., due giorni prima –
La porta a vetri dell’enorme palazzo si aprì, lasciando entrare i due ragazzi. Entrambi tirarono un profondo respiro, lieti di essere tornati di nuovo in quella che consideravano la loro casa; le scale che imboccarono subito dopo rappresentavano per loro la discesa più gradita che mai avessero affrontato in tutti i loro numerosi viaggi, e la porta della caldaia che raggiunsero in fretta aveva quel non so che di familiare che non si può evitare di apprezzare.
La aprirono; si ritrovarono effettivamente nel buio locale della caldaia, che con prontezza illuminarono accendendo una lampadina pericolosamente penzolante dal soffitto. Richiusero la porta da cui erano entrati, dopo aver dato una veloce occhiata per controllare che nessuno stesse scendendo, e si avvicinarono alla parete contro la quale era appoggiata una scala; Marluxia prese dalla tasca dei pantaloni una piccola tessera magnetica e, individuata la piccola fessura nel muro, ve la fece scorrere.
“Finalmente a casa…!”, mormorò Sora, mentre la porta automatica camuffata davanti a loro scorreva fino a presentare un nuovo corridoio, illuminato da vari lampadari di foggia antica appesi alle pareti, e arredato con statue e quadri “dal dubbio gusto”, pensavano sempre entrambi.
Quello era il C.H.I.: un enorme appartamento sotterraneo dove venivano gestiti i casi che non potevano essere di competenza delle normali autorità, e nel quale vivevano i dipendenti di quell’eccentrico centro investigativo.
Niente concorsi o raccomandazioni, per entrare lì: era il C.H.I. a trovarti e ad assumerti se possedevi i particolari requisiti necessari, ovvero doti psicofisiche non comuni ad ogni essere umano.
“Il capo vorrà il rapporto sulla missione, come al solito”, quasi sbuffò il più grande, passandosi svogliatamente una mano tra i capelli.
L’altro lo guardò con un’espressione furbetta, che venne subito contraccambiata.
“Esatto, può almeno aspettare il tempo di una doccia!”, proseguì di nuovo Marluxia, trionfante, mentre Sora annuiva felice di essere stato completamente capito.
“Magari poi ci scappa anche una dormitina…”.
“E un giretto fuori, per rilassarci…”.
“E anche quattro chiacchiere con gli altri…”.
Se fosse stato per loro, in poche parole, avrebbero fatto rapporto al capo dopo un mese o giù di lì.
Ormai decisi a mettere in atto il loro proposito aumentarono il passo, consapevoli che la parte più pericolosa sarebbe giunta non appena avessero dovuto passare davanti alla porta dell’ufficio del loro superiore, per raggiungere la zona adibita a domicilio degli appartenenti al C.H.I.. Il piano era di semplice comprensione, ma di imprevedibile attuazione: lasciarsi velocemente alle spalle la porta del nemico senza voltarsi, sperando che al capo non venisse in mente di sgranchirsi le gambe fuori dal suo ufficio proprio in quel momento.
Ma che altri dipendenti potessero varcare la medesima soglia in quell’istante… non era un’eventualità che avevano preso in considerazione.
“Sora, Marluxia, siete tornati!”, esclamò radiosa una ragazza dai lunghi capelli castani, mentre i due giovani spiccavano un salto di dieci metri per essere stati scoperti in quella delicata parte del piano.
“Ciao Meiko”, sussurrarono sorridendo, rivolgendo poi uno sguardo alla figura al fianco della mora. “Buongiorno anche a te, Leon”.
L’interpellato, silenzioso come al solito, fece un cenno con il capo in segno di saluto.
“Ci tratterremmo volentieri qui con voi, ma… dobbiamo scappare”, disse ancora a bassa voce Marluxia, mentre con il compagno arretrava con circospezione.
“In realtà il capo vi sta proprio cercando, sapete? Ma non preoccupatevi”, continuò Meiko, facendo l’occhiolino ai due, “non diremo che vi abbiamo visti!”.
Sora sorrise dolcemente: “Sei un angelo, Meiko!”.
“Hai proprio ragione, Asahi, non sai quanto vorrei che tutti i miei dipendenti fossero come Misaka e Leonhart! Ma non si può voler tutto dalla vita”.
Quello era un brutto sogno, no? Si stavano riposando dopo la doccia, era tutto a posto. Strano però che Cid Highwind, il presidente del C.H.I., apparisse così normale e non in bikini o in tutù come spesso accadeva nei loro sogni…
“Ikari, Asahi, bentornati”.
No, quella era proprio la realtà… il fallimento del loro piano quasi perfetto. Marluxia deglutì a vuoto, mentre Sora rimase imbambolato a fissare la figura ritta sulla porta.
“Ikari, sveglia il tuo compagno finito probabilmente sulle nuvole ed entrate subito qui, io vi aspetto dentro. Misaka, Leonhart, voi potete andare, sapete già cosa fare”. Detto questo Cid Highwind rientrò chiudendo la porta dietro di sé, lasciando i quattro ragazzi a guardarsi tra di loro.
“Su, su, dovete solo fargli rapporto, poi potrete sfuggire alle sue grinfie”, cercò di consolarli Meiko dopo alcuni istanti di silenzio, battendo amichevolmente una mano sulla spalla dei due.
“Sì, ma saranno ore e ore di racconto dettagliato”, piagnucolò Sora guardando con timore la soglia che avrebbero dovuto varcare, quasi che fosse stata la porta dell’Inferno. E forse lo era davvero.
“Coraggio, ci si rivede presto”, li salutò infine la ragazza sorridendo dolcemente, prima di essere presa per mano da Leon che con un cenno li congedò entrambi dai due condannati. Questi seguirono con gli occhi la coppia allontanarsi lungo il corridoio che li avrebbe portati nel mondo esterno, prima di tornare a scambiarsi uno sguardo di pura arrendevolezza al proprio destino.
“Sarà solo il solito rapporto della missione, sopravvivremo come al solito Sora!”.
Dicendo questo mentre entravano nell’ufficio, Marluxia non sapeva ancora quanto si stesse sbagliando.
“Benvenuti ragazzi, accomodatevi pure su quelle poltrone”.
Ad un attento esame, si sarebbe avvertito che qualcosa non andava già dal primo istante. Da quando il presidente Highwind era così cordiale con i suoi dipendenti? Di solito per fare rapporto li teneva in piedi, accorgimento che dava al tutto un’aria più militare.
I due esitarono un attimo prima di accettare l’invito del loro superiore, ma si sentirono infine sollevati di poter sprofondare in quelle comode poltrone di pelle.
“Allora ditemi… nessun problema per la missione?”.
Marluxia prese la parola, preparandosi psicologicamente ad un sermone di ore e ore: “Sì presidente, la serratura è stata chiusa e tutti gli Heartless presenti eliminati. Eran-”.
“Perfetto, perfetto, mi basta questo”, lo interruppe il loro capo, imponendogli il silenzio con un gesto della mano. Ecco, quello che più temevano era accaduto: avevano rapito il presidente Highwind e sostituito con un suo sosia! Da bravi dipendenti avrebbero dovuto cercare quello originale e liberarlo… però… questo poteva essere migliore! Riassunto dei pensieri dei due ragazzi: evviva!!!
“Non voglio perdere tempo, ho un’altra missione da affidarvi con urgenza”.
Ok, ok, il capo non era stato rapito, era ancora Cid Highwind. Lo sapevano che ci doveva essere l’inghippo, da qualche parte…
“Ma presidente… siamo appena tornati…!”, si oppose debolmente Sora, sebbene sapesse che quando una serratura si apriva in qualsiasi posto del mondo, lui e il suo compagno erano gli unici a potersene occupare.
Marluxia sospirò, abbandonando ogni sogno di riposo. “Un altro attacco degli Heartless?”.
“No, niente Heartless questa volta. Si tratta di un compito abbastanza particolare, ma sono sicuro che vi divertirete!”, rise Cid Highwind, pensando forse di risultare simpatico.
I due giovani inarcarono un sopracciglio.
“Guardate questa foto – il loro superiore aprì un cassetto della sua scrivania e prese l’immagine in questione, mostrandola – voglio che proteggiate questo ragazzo, Riku Miyasaka. Frequenta il prestigioso istituto privato Saint Lawrence, senza dubbio l’avrete già sentito nominare. Questo studente è il figlio di un importante imprenditore, un pezzo grosso della nostra città. Ci sono giunte voci che dei rapitori sono interessati a lui, probabilmente per via del riscatto che potrebbero chiedere in cambio della sua libertà. Quello che-”.
“Aspetti capo, un attimo… questo caso non ha niente da spartire con gli altri di cui si occupa il C.H.I., o mi sbaglio…?”, si intromise Marluxia.
“Esatto, non è una delle solite cose di cui ci occupiamo… è un caso di normale amministrazione. Qualche problema?”. L’occhiataccia del presidente avrebbe zittito chiunque, ma non Sora. “Ha accettato questo caso solo per i soldi, vero?”, disse.
Gli occhi di Cid Highwind si fecero luccicanti, spaventosamente luccicanti. “Asahi, cosa vai a pensare? Io lo faccio per accrescere i miei dipendenti nello spirito! Dovreste essermene grati! Ohohoh!”.
Si vedeva lontano un miglio che stava mentendo.
“Beh presidente, il nostro spirito ora non ha voglia di essere accresciuto! Può affidare questo compito a qualsiasi dipendente, quindi io e Sora ci rifiutiamo di accettare!”. Quando Marluxia prendeva queste decisioni avventate si faceva quasi paura da solo. Ma d’altronde sapeva che non rischiavano il licenziamento, il C.H.I. non poteva fare a meno di loro… non aveva però preso in considerazione le terribili vendette psicologiche che il presidente amava usare.
“Potresti ripetere, Ikari…?”, fece minaccioso quest’ultimo.
“Dicevo… che… non accettiamo… l’incarico…?”. La convinzione fatta persona.
La porta si spalancò senza troppi complimenti mentre il capo stava per ribattere: “Già, perché dovrebbero accettarlo loro? Sora e Marluxia hanno sempre le missioni migliori, mentre noi ci annoiamo con compiti che anche i bambini dell’asilo saprebbero risolvere!”.
Cid Highwind spostò lo sguardo sui due nuovi venuti, non troppo sorpreso da quell’entrata in scena. Il giovane dai capelli rossi che aveva appena parlato gli si avvicinò, seguito da un ragazzino biondo che lanciò un’occhiata in tralice a Sora.
“Nataku, Asahi, vi sembra questo il modo di presentarvi? E poi… cos’è, stavate origliando?”, li ammonì il presidente.
“Sì, stavamo origliando!”, ammise il più grande, Axel, con una sincerità sconvolgente.
“Capo, affidi a noi questo compito, lo sapremo svolgere mille volte meglio di loro!”, disse l’altro, Roxas, indicando dietro di lui i due giovani rimasti interdetti da quell’affermazione.
L’uomo mosse qualche passo, fermandosi a guardare un grosso quadro che aveva appeso alla parete. “Mmmh, potrebbe essere un’idea…”, esclamò, senza voltarsi.
“Presidente cosa sta dicendo? Questa missione è nostra, la stava affidando a noi!”, si scaldò Sora.
“Giusto, quindi non può cambiare idea!”, rincarò Marluxia.
La solita storia… i due fratelli Asahi avevano trasmesso con il tempo ai propri compagni quella competizione che era sempre esistita tra loro, sin da quando erano bambini; le piccole scaramucce tra le loro due squadre erano all’ordine del giorno, e non solo una volta alcuni dipendenti si erano messi a scommettere su chi avrebbe vinto quella o quell’altra ‘sfida’.
Cid Highwind finalmente si voltò, con una strana luce negli occhi: “Potrebbe essere divertente… Ho deciso, affiderò il caso a tutti e quattro! Vedremo quale sarà la squadra migliore… Certo, ora avrò bisogno di ulteriore denaro per una seconda iscrizione, ma so già come procurarmelo”, disse.
“Iscrizione…?”. Che grazioso coretto a quattro.
“Esattamente! E ora accomodatevi tutti e quattro… vi spiegherò nei minimi dettagli come ho organizzato questa missione!”.
E così, da quell’inaspettato colloquio con il presidente era iniziato tutto…

“Ciao ragazzi, possiamo presentarci?”.
La prima mattinata scolastica per i due fratelli era finalmente terminata. Stavano riponendo i quaderni e gli astucci nei loro zaini, liberi di rilassarsi un po’ dopo tutto quell’impegno mentale (che Roxas aveva per lo più usato per la sfida di sguardi con Riku) quando due loro compagni si erano piazzati davanti a loro. Sora annuì alla domanda che era stata rivolta a lui e al biondino, mentre questi li scrutava attentamente: la cosa che più lo colpì fu lo strano ciuffo del ragazzo più alto, più bizzarro dei capelli del fratello.
“Io sono Wakka Yamazaki e lui è Tidus Sakamoto!”, esclamò il giovane che stava attirando l’attenzione di Roxas, sorridendo cordialmente. Quello che aveva presentato come Tidus agitò una manina in segno di saluto, e Sora fece lo stesso. I due Asahi non sapevano a cosa stessero andando incontro… in dieci minuti Tidus e Wakka avevano parlato così tanto da averli messi a conoscenza di vita, morte e miracoli dell’istituto e del suo regolamento, per non parlare del corpo docenti e tutto ciò che lo riguardava. Il moretto avrebbe voluto fermarli, ma pensava che fossero gentili a preoccuparsi della loro informazione e quindi sarebbe stato sgarbato zittirli; Roxas, invece, era talmente ubriaco di parole da non capire più nulla. Fu solo grazie ad un flash improvviso che riuscì a tornare alla realtà, spostando il viso verso il banco di Miyasaka: come ci si poteva aspettare questi non c’era più, come la maggior parte degli studenti della classe. Tanto valeva tornare a prestare attenzione a Tidus e Wakka, cercando soprattutto un metodo per farli star zitti.
Che non presupponesse la soppressione immediata, ovviamente.
“E se volete potete anche iscrivervi alle attività pomeridiane! Sport, musica, teatro, tutto quello che desiderate!”.
“Noi siamo nel club di Blitzball, è uno sport bellissimo!”. Ecco Wakka, che andava a completare la spiegazione di Tidus. Quella era l’occasione propizia… i due fratelli sembrarono leggersi nel pensiero quando i loro occhi si incontrarono, come attirati violentemente l’uno dall’altro, ed esclamarono insieme: “Fantastico! Andiamo subito a vedere cosa possiamo scegliere!”.
“Vi accompagniamo noi!”, si offrì il giovane dal ciuffo strano.
“Non dovete preoccuparvi, ci arrangiamo noi…”.
“Ma non sapete dove dovete andare… su, venite con noi, così vi facciamo anche vedere la mensa e pranziamo insieme!”, concluse Tidus.
Per quanto velocemente Sora e Roxas stessero ripassando mentalmente tutto il manuale di sopravvivenza che Cid Highwind aveva fatto loro studiare, non riuscivano proprio a trovare un’idea che li salvasse da quella sorte.
Alla fine dovettero accettare il loro destino, e tenendosi mentalmente per mano per infondersi coraggio a vicenda si gettarono nell’impresa di superare indenni i minuti che li aspettavano.

Le quattro del pomeriggio, che segnavano il tanto agognato termine delle ore pomeridiane di lezione.
La pausa pranzo non era stata drammatica come i due Asahi avevano temuto: Tidus e Wakka si erano rivelati una piacevole compagnia, in fin dei conti, e delle ottime guide della scuola; sapevano tutto di tutti e di ogni ala dell’istituto… c’era da pensare che fossero stati creati lì dentro. L’ora di pausa non si era però rivelata proficua per lo svolgersi della loro missione in qualità di inviati del C.H.I.: non sapevano dove Riku avesse trascorso tutto quel tempo, avendolo visto riapparire solo all’inizio delle lezioni.
Della serie che, se fosse stato rapito, non se ne sarebbero neanche accorti. Ma Axel e Marluxia erano lì da qualche parte a controllare di nascosto come aveva predisposto il presidente Highwind, no? Loro due dovevano anche pensare alla propria nuova carriera scolastica.
Si stavano avvicinando le quattro e mezza, ora in cui iniziavano le attività pomeridiane. Roxas e Sora avevano salutato Tidus e Wakka quando quest’ultimi avevano raggiunto il campo di Blitzball, e si erano avviati verso la palestra che durante la pausa pranzo si erano fatti mostrare. Sulla porta campeggiava il cartello: “Sala scherma”.
Entrarono, sicuri della loro decisione; nella grande stanza, illuminata da finestre poste in alto al limitare delle pareti con il soffitto, l’unica persona presente era un uomo sui quarant’anni che stava sistemando delle spade nei propri sostegni addossati al muro. Il passo dei due fratelli attirò l’attenzione dello sconosciuto che, dopo averli scrutati attentamente, esclamò cordiale: “Benvenuti!”.
I due ricambiarono il saluto e si presentarono, chiedendo se fosse stato possibile iscriversi al corso anche ad anno già iniziato.
“Certamente!”, li rassicurò l’uomo, che altri non era che l’allenatore. “Avete già dell’esperienza in qualche specialità? O è la prima volta?”.
“Mmmh… diciamo che un pochino di esperienza l’abbiamo già”, disse Sora, sperando che quegli anni di riposo dalla scherma non tradissero le sue parole.
“Benissimo… vi va di farmi vedere come ve la cavate? Un piccolo assalto tra voi due, a cinque stoccate… ditemi voi l’arma che preferite”, propose il maestro, mentre nella sala iniziavano ad entrare alcuni studenti già in divisa, provenienti dallo spogliatoio.
“Per noi va bene. Come arma scegliamo la sciabola”, esclamò risoluto Roxas, a cui l’uomo annuì. “Seguitemi nello spogliatoio, abbiamo dell’attrezzatura. Dovrei riuscire a trovare delle divise della vostra taglia”, li invitò, per poi guidarli nel luogo appena nominato.
Come immaginato, le divise della loro misura erano nell’armadio delle attrezzature; l’insegnante li lasciò nello spogliatoio ed andò ad iniziare la lezione con gli altri allievi, mentre i due si preparavano.
“Da tanto tempo non ti vedevo così…”, esclamò Sora con un sorriso quasi malinconico, guardando il fratello che aveva indossato il completo per scherma.
Roxas venne colpito maggiormente dalle immagini che stavano riempiendo la sua testa dal loro arrivo nella sala… due bambini sorridenti, con le proprie sciabole in mano, fieri di poter gareggiare sotto gli occhi orgogliosi ed entusiasti dei genitori… le voci degli altri ragazzini nella palestra, e la felicità dei due piccoli fratelli…
“Il bianco mi dona ancora?”, cercò di scherzare il biondino, allacciandosi la giacca della divisa.
“Sai che ha sempre donato più a me”, rispose l’altro, facendogli una linguaccia. “Se sei pronto andiamo, non vedo l’ora di impugnare di nuovo una sciabola!”, concluse emozionato, quasi saltellando.
“Solo se ti calmi, perché così mi fai quasi paura…”.
Tornati nella palestra Roxas e Sora parteciparono all’ultima parte di riscaldamento, sotto gli occhi incuriositi della decina di ragazzi già presenti. In seguito l’insegnante diede diversi esercizi da svolgere ai suoi allievi, chiedendo poi ai due Asahi di avvicinarsi con lui alla pedana più isolata.
“Bene ragazzi, è il vostro momento! Vi arbitro io, collegate i vostri passanti e iniziate pure”, disse, sinceramente interessato ai due nuovi ragazzi. Questi fecero come era appena stato detto, e dopo il saluto giunse il momento dell’inizio dell’assalto.
Quello non era più il momento dei ricordi, dei sorrisi felici, della gioiosa genuinità; c’era solo la sfida tra i due, la competizione che mai li abbandonava, il desiderio reciproco di non lasciarsi sconfiggersi dall’altro.
Tornare a muovere quei passi, ad articolare quei movimenti una volta tanto familiari, non fu così difficile come avevano creduto: in un attimo avevano ritrovato lo spirito di un tempo, quel senso di realizzazione che provavano ad ogni assalto, quando erano piccoli, quella libertà che solo l’impugnare la propria arma dopo tanto tempo avrebbe saputo comunicare.
L’insegnante rimase subito colpito dalle loro capacità, e soddisfatto si disse che sarebbe di certo giovato alla squadra l’averli con sé. L’incontro, però, sembrava essere sbilanciato: per quanto entrambi attaccassero e si difendessero con abilità, Roxas era in vantaggio di due stoccate a zero sul fratello. Ma si sa, due punti di vantaggio sono facilmente recuperabili.
“In guardia… pronti, a voi!”.
Roxas si fece avanti repentinamente, tentando un affondo che Sora parò; questi tornò subito in guardia e lo attaccò per colpirlo di piatto sulla maschera, ma il suo avversario fu più veloce e dopo una parata lo colpì al petto. Tre a zero.
“Mi chiedo come il potere del Keyblade abbia scelto te…”.
Sora non capì… non capì il tono con cui il fratello gli aveva rivolto quel commento, non capì perché l’avesse fatto.
“Roxas, cosa stai dicendo…?”.
“In guardia…”.
Per quanto potessero essere state parole a cui non dare un peso particolare, il moretto si sentì infastidito. Che cosa andava a pensare il gemello, in quel momento poi…?
“Pronti, a voi!”.
Beh, doveva fargli cambiare opinione. Questa volta fu Sora a scattare, riuscendo quasi a colpire Roxas; questi però riuscì a deviare appena in tempo la lama, ricevendo comunque un colpo appena sopra il ginocchio. Bersaglio non valido, dunque. E, dopo pochi istanti, un nuovo punto per il biondino.
“È così che tieni alto l’onore del tuo compito?”.
“Finiscila Roxas, è solo un assalto!”.
“È il tuo modo di combattere, sciabola o Keyblade non fa differenza”. Detto questo Roxas voltò le spalle all’avversario senza attendere alcuna risposta, e tornò dietro la riga che indicava il punto in cui avrebbe dovuto mettersi in guardia. Non sapeva cosa gli stesse prendendo, perché quel rancore che celava dentro di sé da tempo si stesse liberando proprio in quel frangente… Non era mai riuscito ad accettare che Sora gli avesse preso ciò che sarebbe spettato anche a lui di diritto, e che ora si stesse facendo battere con tanta facilità.
Stavano per ricominciare, l’insegnante aveva appena dato il via.
Ma qualcosa era cambiato.
Entrambi i fratelli non si stavano più fronteggiando in un normale allenamento: in ballo c’era ora una questione per cui si erano già trovati a scontrarsi più di una volta, con la loro testardaggine e l’odio verso l’idea di essere l’uno inferiore all’altro.
Rimasero per alcuni istanti a studiarsi: Sora sapeva che se avesse ricevuto un’altra stoccata Roxas avrebbe vinto, anzi lo avrebbe surclassato. No, non l’avrebbe mai accettato.
Il biondino fu sorpreso dal cambiamento immediato del fratello e dell’incontro, quando scoprì che mettere quell’ultima stoccata si stava rivelando più difficile di tutto il resto dell’assalto, e che Sora non voleva assolutamente arrendersi. L’insegnante poté vedere, anche attraverso la maschera, lo sgomento di Roxas nel subire la rimonta inaspettata dell’avversario, fino a ritrovarsi in parità.
Quattro a quattro.
“Dunque, Roxas…? Che cosa stavi dicendo?”, gli sussurrò il moretto, mentre con fare noncurante gli era rimasto accanto per mettere a posto la lama che si era leggermente piegata dopo l’ultima stoccata.
“Non abbiamo ancora finito”, gli sibilò l’altro, sistemandosi meglio il guanto. Un istante dopo si stava già rimettendo in guardia, per quello che sarebbe stato il punto decisivo: non era la spada, il colpo doppio non era previsto, e così il cinque pari.
E Roxas non poteva perdonarsi di essersi fatto raggiungere così stupidamente…
“A voi!”.
Ecco il segnale.
Il potere del Keyblade era andato a Sora, dalla nascita, per una ragione a loro sconosciuta… a lui rimaneva solo un Keyblade senz’anima, così diverso da quello del fratello, così tremendamente inutile a confronto… odiava infuriarsi per quella storia, ma non riusciva a fare diversamente.
“Alt! Tocca destra, vince Roxas!”.
Sora strinse un pugno, abbattuto, mentre avvertiva un lieve dolore alla spalla dove aveva ricevuto il colpo. Per un attimo entrambi diedero l’impressione di non provare nulla, mentre tornavano alle proprie postazioni per il saluto; poi tornarono al centro della pedana e si diedero la mano, gesto sportivo che avevano adorato sin da quando erano bambini.
“Siete davvero bravi, sapete? Vi faccio i miei complimenti!”, esclamò il maestro, battendo una volta le mani compiaciuto.
I due sorrisero, evitando di guardarsi.
“Venite, voglio che facciate qualche incontro con gli altri”, concluse l’uomo, facendo cenno di seguirlo mentre muoveva qualche passo in direzione del gruppo dei suoi allievi. Sora si avviò, affiancato da Roxas; dopo solo un istante quest’ultimo gli sussurrò: “È tuo solo per errore…”, per poi allontanarsi da lui.
Entrambi sapevano che quelle parole si sarebbero ripetute senza sosta nella mente di tutti e due, fino alla fine della lezione… e che quasi sicuramente non li avrebbero abbandonati per molte ore a venire.

Era ormai da tre anni che non dividevano la camera, come erano stati abituati sin dalla nascita. Un’altra delle idee del loro amato presidente: ognuno nella stanza con il proprio partner di lavoro, per accrescere l’affinità e la complicità, cosa che Axel e il suo compagno avevano fatto forse fin troppo.
In qualsiasi modo avessero pensato che quella nuova “convivenza” potesse essere… nessuno si era rivelato quello reale. Entrambi i fratelli avevano evitato di rivolgersi la parola dalla fine dell’allenamento; durante la cena in mensa si erano fatti dividere dall’infinito fiume di parole di Tidus e Wakka, che sembravano non rimanere mai a corto di energie; giunti in camera Sora si era messo a riordinare gli appunti presi durante la giornata, mentre Roxas aveva iniziato a leggere un libro.
Riku Miyasaka era stato l’unico pretesto di un breve riavvicinamento tra i due, quando non lo avevano visto in mensa all’ora di cena; ma i due compagni di classe li avevano rassicurati dicendo che molto raramente si recava in mensa quando c’era la maggior parte degli studenti, preferendo momenti più tranquilli. I due Asahi fugarono però del tutto le loro preoccupazioni solo quando videro Riku rientrare nella propria stanza mentre anche loro stavano raggiungendo quella a loro assegnata.
Sora chiuse il quaderno, stanco di far passare gli occhi sulle righe che aveva scritto senza riuscire a concentrarsi realmente sul contenuto; rimase per qualche istante a fissare il vuoto, poi si infilò sotto le coperte deciso a dormire, nella speranza che la giornata successiva si potesse rivelare migliore di quella che stava per finire. Roxas gli lanciò un’occhiata, mise il segnalibro nel volume che teneva in mano e lo pose sul comodino; andò anche lui sotto le coperte e spense la luce.
Il silenzio che si creò era più opprimente di qualsiasi rumore, e il sonno per entrambi sarebbe tardato ad arrivare.
“Roxas… ti auguro la buonanotte”. Parole pronunciate con lieve timore e poca convinzione che fosse il caso di dirle.
Nessuna risposta, nessun movimento. Sora si voltò verso il muro, una mano sotto al cuscino, e la tristezza che tutto d’un colpo lo aveva invaso.
“Sora, scusami per oggi”.
Silenzio, rotto solo dal rumore del moretto che si metteva seduto.
“Sono stato odioso… ma non so cosa mi sia preso… non volevo dirti quelle cose…”.
“Su, non dire così, non è successo nulla”. Sentire di nuovo il fratello vicino era più importante della ferita che quelle parole avevano aperto. “Io non vorrei che fosse così… sai che se potessi dividerei il mio potere con te…”, disse ancora Sora, avvertendo il forte senso di colpa che si era accresciuto con gli anni.
“Lo so… e non provare a sentirti colpevole per questo, hai capito?”. Roxas accompagnò questa pseudo-minaccia con un’occhiatina, che il gemello avvertì anche se la stanza era completamente buia.
“D’accordo, d’accordo”, ridacchiò Sora, che ormai non si stupiva più del modo in cui il fratello riusciva a leggergli dentro.
Ora erano di nuovo entrambi sereni… anche se il problema sarebbe sempre rimasto, facilmente recuperabile dai loro cuori in qualsiasi momento.
“Sai, mi stavo chiedendo una cosa…”.
Sora si voltò verso il letto del fratello. “Cosa?”.
Roxas continuò: “Chissà come ha fatto il presidente Highwind a trovare i soldi per le nostre iscrizioni”.
Proprio in quell’istante una sorridente Meiko in grembiule, all’entrata di una pizzeria, salutava con la manina un Leon a dir poco scocciato che si apprestava ad andare a consegnare delle pizze a cavallo di una bicicletta.
“Di sicuro deve aver trovato una soluzione geniale e sofisticata”, commentò il moretto, annuendo alle proprie parole.
“Già, una che anche a vederla da mille chilometri di distanza mostra il marchio Cid Highwind”.
Attimo di pausa, poi scoppiarono entrambi a ridere.
“Beh fratellino, ti auguro la buonanotte… domani voglio essere riposato per batterti come si deve a scherma!”.
“Sora non dovresti sognare ancora prima di esserti addormentato…”.
“Sei il solito antipatico, Roxas…”.
Il biondino finse vanagloria: “Lo so, e ne vado fiero”.
La notte calava, e il rancore sembrava scomparso. Ma cosa sarebbe bastato a riaccendere quella scintilla, sempre pronta ad infiammarsi…?

Era il secondo giorno di lezioni all’istituto Saint Lawrence, per i fratelli Asahi, e le ultime due ore della mattina erano di educazione fisica. Tutti i ragazzi erano riuniti in palestra con il professore, impegnati in noiosissimi esercizi per imparare i fondamenti della pallavolo, o qualcosa di simile.
“Bene ragazzi, voglio che vi mettiate a coppie e vi alleniate nella battuta dall’alto. State sulle due linee opposte di una metà campo”, spiegò l’insegnante, a cui gli allievi ubbidirono velocemente.
Iniziarono l’esercizio: Sora era in coppia con Roxas, mentre Tidus e Wakka erano stati divisi; il più alto dei due era finito in coppia con Riku, il quale iniziava ad avere istinti omicidi perché il giocatore di Blitzball lanciava la palla in qualsiasi posto che non fosse verso di lui. Risultato: doveva continuamente correre a destra e a sinistra per recuperare quella cavolo di palla.
L’ennesimo lancio di Wakka, l’ennesimo lancio che faceva chiedere a tutti se sapesse davvero giocare a Blitzball; questa volta, però, la traiettoria mirava ad una persona… Sora vide una palla volare verso di lui, così la prese al volo.
“Sora, la palla…!”.
Il moretto fece appena in tempo a voltarsi verso la voce del fratello per ricevere il suo lancio dritto in faccia, e cadere lungo disteso per terra. Un leggero impiccio per Riku, che se lo ritrovò quasi addosso.
“Asahi… tutto bene…?”, domandò Miyasaka, immobile. Sora si mise seduto, sbattendo gli occhietti mentre lo guardava; cercò di mettere a fuoco la situazione, sino a quando si decise a rispondere con aria smarrita: “Mi fa vagamente male il naso…”.
“In effetti sta iniziando a sanguinare”, fu il commento tranquillo di Riku.
Momento riflessivo generale.
“Asahi, va tutto bene?! Ma cos’è successo? No tu non stai bene!”. In mezzo secondo un preoccupatissimo professore aveva raggiunto la scena del delitto, seguito dagli altri studenti.
“Non si preoccupi professore, sto bene…”.
“A me non sembra, devi andare in infermeria! Miyasaka – il primo capitato sotto al suo sguardo – accompagnalo”.
“Professore, se vuole posso accompagnarlo io, è stata tutta colpa mia se si è fatto male”.
Sora girò di scatto il viso verso Roxas, che in modo fin troppo convincente si stava fingendo dispiaciuto per lui. La verità, invece, era che non voleva lasciarlo solo con Riku, perché questo avrebbe significato un punto in favore della squadra Ikari-Asahi. Se l’insegnante avesse dato ascolto a suo fratello… probabilmente Axel avrebbe presto avuto bisogno di un nuovo collega. Già già.
“Ancora non conosci bene la scuola, Asahi biondo – ce l’ho un nome, pensò Roxas – andrà Miyasaka con lui. Noi invece riprendiamo la lezione!”, concluse il docente, rivolgendosi infine a tutti gli altri studenti.
Sora decise di tenere per sé una ola al professore, ma mentre il fratello lo guardava indispettito lui gli rispose con una linguaccia; più tardi lo avrebbe anche ringraziato per la pallonata in pieno volto.
“Forza, andiamo”, fece Riku, aspettando di essere affiancato dal moretto. Quest’ultimo stava diventando pallido, e sarebbe stato meglio controllarlo per tutto il tragitto per evitare di ritrovarsi dal due al tre a camminare da solo.
Stavano passando davanti al laboratorio di chimica, che si trovava nel corridoio in fondo al quale c’era l’infermeria, quindi erano quasi arrivati.
“Asahi, ti gira la testa?”, domandò Riku, fermandosi.
“No, sto benissimo, perché?”, rispose Sora, sorridendo in modo molto poco spontaneo.
“Perché… stai andando contro un muro”, commentò l’altro, pacatamente, mentre il giovane ferito si ritrovava effettivamente con la faccia contro una parete.
“Vedrai che in infermeria avranno anche qualcosa per i lividi”, sospirò Riku, prendendo poi gentilmente Sora per un braccio e guidandolo fino alla loro meta.
Quando aprirono la porta scorrevole furono testimoni di uno strambo spettacolo: un giovane dai capelli rossi, in camice bianco, stava costruendo un qualcosa di non ben definito con le confezioni di medicinali che aveva preso dall’apposito armadietto. Il ragazzo dai capelli argentati rimase interdetto da quella scena, fermo sull’uscio; l’altro invece apparve sorpreso e, puntando l’indice contro il costruttore in erba, esclamò: “Axel!”.
Il diretto interessato sussultò e, nel tentativo di mostrare un minimo di professionalità, si sedette sulla scrivania davanti alla sua opera in modo da coprirla.
“Ragazzi, avete bisogno?”, domandò, mentre le scatolette dei medicinali cadevano dopo essere state urtate. Addio costruzione destinata ad un museo di arte contemporanea.
Riku guardò il compagno di classe, ancora esterrefatto: “Lo conosci?”, domandò.
Axel lanciò un’occhiata torva a Sora, che capì di aver combinato un mezzo guaio nel chiamarlo per nome. “Oh no, assolutamente no! Ho letto il suo nome sul cartellino!”, cercò di spiegare il moretto indicando il punto in cui avrebbe dovuto esserci il suddetto oggetto di plastica… che però non c’era.
“Eh già, il cartellino!”, sorrise imbarazzato lo pseudo-addetto all’infermeria, frugando nelle proprie tasche per poi applicarsi l’oggetto trovato sul camice.
L’espressione di Riku era indecifrabile: ci sarebbe voluto uno dei migliori psicologi al mondo per capire quale fosse il suo stato d’animo, in quel momento.
“Beh, ditemi, qual è il problema?”, decise di intervenire Axel, prima che la situazione degenerasse… più di quanto avesse già fatto, ovviamente.
“Ehm… ho qualche problema al naso se non l’ha notato, signor infermiere… sa, il mio caro fratellino mi ha tirato una pallonata in faccia…”, spiegò Sora, il cui tono alludeva a miliardi di cose che di certo l’altro avrebbe capito.
“Scommetto che eri tu disattento…”.
“No, è tutta colpa di mio fratello che doveva stare attento…”.
“Sono sicuro di no…”.
“Invece sì…”.
Mancava solo che si saltassero negli occhi, con fare però da veri gentleman.
“Tieni Asahi, metti questo ghiaccio sul naso… siediti però, altrimenti rischi di cadere”. Detto questo Riku lo guidò fino a una sedia e ve lo fece accomodare, poi gli mise un sacchettino di ghiaccio sul naso e glielo fece tenere con una mano. Se avesse aspettato che quella specie di dottore facesse qualcosa… molto probabilmente sarebbe uscito da quell’infermeria il giorno del suo diploma.
Sora si sentì per un attimo sperduto per quel gesto che lo aveva rapito dal simpatico scambio di battute con Axel, ma apprezzò il fatto che il compagno avesse voluto occuparsi di lui… o più probabilmente l’aveva fatto perché aveva perso le speranze che il rossino facesse qualcosa… beh, in ogni caso gliene era grato.
Axel si risedette alla sua scrivania, mettendosi a pasticciare su un foglio; Riku si sedette su un’altra sedia, in disparte, deciso probabilmente a sotterrare nel suo silenzio quella situazione quasi assurda.
Ok, il tutto si stava facendo imbarazzante per Sora… lo pseudo infermiere era impegnato nel suo momento creativo, mentre il compagno di classe era avvezzo a quella calma… decise quindi di chiudere gli occhi, chiedendosi se Axel avesse capito che quello fosse Miyasaka… beh, certamente sì, anche lui aveva visto la foto… certo che ritrovarselo lì, in infermeria, era stata davvero una sorpresa. In quel modo, comunque, poteva occuparsi del caso senza dare troppo nell’occhio… per quanto un tipo come lui difficilmente passasse inosservato. Roxas sarebbe stato contento di avere sue notizie, così decise di dirgli di averlo trovato non appena si fossero rivisti. Però… sarebbe stata una piccola vendetta non avvisarlo… no, lui non era tipo da fare certe cose. Al pomeriggio che lezioni avrebbero avuto? Matematica? Il suo pancino iniziava a brontolare… chissà cosa ci sarebbe stato per pranzo… perché i suoi pensieri stavano degenerando?
“Fortunatamente non stai più perdendo sangue dal naso”.
Sora aprì gli occhi, sentendo quelle parole e una mano appoggiarsi delicatamente sulla sua testa, trovandosi Riku inginocchiato davanti a lui con il viso a pochi centimetri dal suo che lo guardava quasi con sollievo. Il moretto sentì mancargli un battito, e il suo viso diventò più rosso di un pomodoro.
Riku aggrottò per un istante un sopracciglio. “No, mi sbagliavo… aspetta, ti passo un fazzoletto di carta pulito”, disse, alzandosi e prendendo dalla scrivania di Axel un fazzolettino che poi gli porse. Sora, però, era troppo occupato a ricordarsi di respirare.
“L’ora di educazione fisica sarà quasi finita…”, esclamò il moretto, tanto per dire qualcosa che gli facesse pensare ad altro.
“Non appena starai meglio ti riaccompagno”, disse il compagno, mentre Axel dà un po’ aveva smesso di applicarsi al suo lavoro e li stava osservando.
“Se non dovessi sentirti ancora bene torna pure da me!”, invitò il giovane in camice, pensando che un medico probabilmente lo avrebbe detto.
“Per rischiare la mia vita…?”.
“No, per salvarla…”.
“Non penso che tu ne sia in grado…”.
“Ma se sono qui per questo…”.
“Ma se questo è il posto meno adatto a te…”.
“Se sono qui un motivo ci sarà…”.
“Appunto, qualcuno non molto a posto ti ha assunto…”.
Riku sperò che Sora si sentisse presto meglio per fuggire da quell’incubo, o che qualcuno lo portasse via da lì. È superfluo dire che l’intero C.H.I. non sarebbe stato molto d’accordo con quel suo pensiero felice.

“Ciao Roxas, ciao Sora! Sora, come va il tuo naso?”.
I due fratelli si sedettero al tavolo per la cena che Tidus e Wakka avevano occupato per loro quattro, mentre loro si facevano una doccia dopo gli allenamenti del pomeriggio. Più che sedersi… si lasciarono letteralmente cadere sulla sedia, esausti, senza molta voglia di alzarsi per avvicinarsi al banco dove venivano serviti i pasti.
Alla domanda di Tidus, Sora lanciò un’occhiata omicida al gemello. “Abbastanza bene, grazie!”, rispose.
“Non preoccuparti Sora, durante gli allenamenti di Blitzball ho ricevuto spesso pallonate in faccia, ma non ho mai avuto alcuna conseguenza!”, lo rassicurò Wakka con un grande sorriso.
“Mi chiedo perché non consideri mai la tua stupidità crescente come una conseguenza…!”, scherzò l’amico, sapendo che il più alto non se la sarebbe presa per quel commento, come infatti accadde. I due Asahi ringraziarono mentalmente Tidus per aver rubato loro le parole di bocca.
“Ehi ragazzi!”. Wakka si esaltò tutto in un attimo, ricordandosi improvvisamente di ciò che stava per dire: “Avete visto che è arrivata una nuova ragazza a lavorare alla mensa? È troppo carina! Guardate, è proprio là!”.
I due fratelli seguirono il suo sguardo sognante fino a vedere l’oggetto di tanto interesse: dopo un attimo di sorpresa per entrambi Sora dovette dar fondo a tutto il suo autocontrollo per non scoppiare a ridere, mentre Roxas si voltò sconvolto verso Wakka chiedendosi se le pallonate in faccia non gli avessero procurato gravi danni permanenti al cervello, o perlomeno alla vista.
“Ehm… io e Sora andiamo a prendere da mangiare così la vediamo più da vicino”, esclamò il biondino afferrando il fratello per un braccio per portarlo con sé.
La “ragazza” dei sogni di Wakka sorrise quando li vide arrivare.
“Buonasera Marluxia!”, esclamò Roxas a bassa voce.
“Uh, sei tu quindi la nuova ragazza della mensa!”, ridacchiò Sora, che in realtà era felicissimo di sapere dove si fosse cacciato l’amico.
Marluxia sbatté gli occhietti, non capendo.
“Hai fatto breccia nel cuore di un nostro compagno… che pensa che tu sia una ragazza”, spiegò il moretto, serissimo, forse fin troppo.
Grande pausa di riflessione, accompagnata dalla comparsa di un nervetto pulsante sulla fronte del giovane più grande. “Giuro che gli avveleno la cena”, disse con tutta la naturalezza possibile, accompagnando l’affermazione con un sorriso cordiale e tanto lontano dall’essere minaccioso. C’era solo da sperare che le più volte citate pallonate in faccia non lo avessero reso anche immune ai veleni.
Roxas guardò alla sua sinistra, mentre pensava che forse l’idea di Marluxia non fosse affatto male, e notò che alcuni ragazzi in coda stavano aspettando che lui e il fratello prendessero la cena e se ne andassero. Così fece presente a Sora la situazione, che di malavoglia si fece servire dal compagno per poi salutarlo.
“Ci si rivede presto ragazzi! Io non mi muovo da qui…!”, ricambiò Marluxia, nella cui voce si avvertiva una leggera nota incline all’omicidio. Nei confronti del caro presidente Highwind che l’aveva messo lì a lavorare, ovviamente.
“Questa è una delle idee sofisticate del presidente di cui parlavamo ieri sera…?”, domandò Roxas al gemello, mentre si risedevano al tavolo con i due amici. Uno dei due li stava guardando con occhi speranzosi… non ci sarebbe bisogno di dire che si trattava di Wakka.
“Wakka, mi spiace, non hai speranze con lei”.
Il ragazzo guardò Sora con disperazione crescente mentre il fratello aggiungeva, in tono lapidario: “Fidati, noi queste cose le capiamo”.
Così nasce e finisce un’intensa storia d’amore di una sera d’autunno, tra l’aitante principe azzurro e la piccola graziosa Cenerentola.

“Uh, è ancora gonfio, guarda qui…”.
Roxas sospirò, disteso sul suo letto con le braccia incrociate dietro la testa. L’allenamento di quel pomeriggio era stato abbastanza faticoso, ed era quindi felice di essere tornato in camera per potersi finalmente riposare.
“Guarda…”, piagnucolò di nuovo Sora, sporgendo la testolina fuori dalla porta del bagno dove stava controllando le condizioni del suo povero nasino.
“Sora ti ho già detto che mi dispiace… e poi non sei morto…”.
“Cosa strana, visto che Axel si occupa dell’infermeria”, fece ironico il moretto, riuscendo ad evitare per un soffio il cuscino che il fratello gli aveva tirato mirando appositamente al volto.
“Potevi dirmelo prima che Axel era in infermeria… quando ci sono andato prima di cena il suo turno era già finito, e non so dove possa essersi cacciato”, esclamò Roxas sbuffando, ricordando il suo viaggio a vuoto di quella sera. Sora spense la luce del bagno e aprì il cassetto dell’armadio per prendervi il pigiama: “Ti ho rivisto solo alla prima lezione di questo pomeriggio, non potevo mandarti un piccione viaggiatore per avvisarti”, disse, sedendosi poi sul letto.
Roxas spostò lo sguardo fuori dalla finestra: “Hai ragione, scusa”.
Il fratello lo guardò: tutto d’un tratto il biondino si era fatto malinconico, e Sora conosceva benissimo il perché: “Su, lo vedrai presto! Domani puoi andare a cercarlo in infermeria prima dell’inizio delle lezioni, ad esempio”, gli propose, con un sorriso gigante.
L’altro si voltò verso di lui, e annuì sorridendo anch’egli.
Nel corridoio del dormitorio si sentiva di tanto in tanto il passo di alcune persone, e alcuni scambi di battute tra studenti che si auguravano la buonanotte prima di dividersi per andare ciascuno nelle rispettive stanze.
Sora guardò l’orologio, che segnava cinque minuti alle undici. “Sono passati quasi due giorni da quando siamo qui, e non è ancora successo nulla. Chissà quando dovremo entrare in azione”, disse, sdraiandosi sul proprio letto.
“Certo che non stiamo sottoponendo Miyasaka ad un grande controllo… ma d’altronde non possiamo stargli appiccicato ventiquattro ore su ventiquattro. C’è da dire però che questa scuola sembra molto sicura già di per sé, e trattandosi di un caso normale non dovremmo avere problemi. Magari non ci sarà neppure bisogno di noi”, constatò Roxas.
Altri passi iniziarono a sentirsi, provenienti dal fondo del corridoio, ma quando raggiunsero l’altezza della loro porta non si allontanarono come i due ragazzi si aspettavano. Inoltre, qualcuno bussò.
I due fratelli si guardarono interrogativi, siccome non si aspettavano alcuna visita.
“Chi è?”, chiese infine Sora, titubante.
“Qualcuno ha bisogno di un dottore?”.
Il moretto era sicuro di non aver mai visto il gemello correre così velocemente verso una porta ed aprirla; due secondi dopo era già tra le braccia di Axel.
“Allora piccolo, come stai?”, gli chiese il giovane dai capelli rossi, per poi dargli un tenero bacio.
Roxas assaporò per un attimo quel gesto, poi la sua bocca assunse una piega dolcemente imbronciata: “Bene, ma sono offeso perché non mi hai detto nulla del tuo lavoro qui”, gli rispose, facendolo entrare in camera così da poter chiudere la porta.
Sul viso di Axel si dipinse un’espressione da cucciolo triste, che avrebbe fatto sciogliere chiunque: “Non ho avuto modo di dirtelo, il presidente Cid mi ha detto tutto all’ultimo minuto, come suo solito”.
L’altro finse di essere pensieroso per alcuni attimi, poi sorrise maliziosamente: “D’accordo… ma devi ugualmente farti perdonare…”.
“Lo faccio immediatamente”, fu la risposta soddisfatta del giovane, mentre lo spingeva verso il letto regalandogli un altro bacio.
“Ehm, scusate, ci sarei anch’io…”. Sora era rimasto in piedi immobile da quando il loro ospite era entrato nella stanza, fissando l’evolversi della situazione con la crescente sensazione di essere di troppo. Roxas e Axel non erano tipi da sentirti troppo facilmente in imbarazzo, non lo erano mai stati e di certo non lo sarebbero mai diventati; ma il moretto non era come loro, e proprio non ci teneva ad essere reso partecipe di certe cose.
I due ragazzi voltarono di malavoglia lo sguardo verso il terzo presente, e il più grande gli rispose: “Oh, meno male che te ne sei accorto”.
Poche parole che avevano un significato profondo.
“Ok, vi lascio un’ora per perdonare ed essere perdonati, ma solo una e poi tornerò. Sapete benissimo che chiudere la porta a chiave non vi servirà a niente, e se usaste qualsiasi altro trucchetto finirei per chiamare qualcuno della scuola… e non penso sarebbe bello se venissero trovati insieme uno studente e un dipendente dell’istituto, per giunta appena assunto”, li pseudo-minacciò Sora, prendendo la sua giacca dall’appendiabiti.
Roxas inarcò un sopracciglio, senza riuscire a trovare una soluzione diversa tra quelle che il fratello aveva elencato. “Sembra che l’unico modo per avere più tempo sia ucciderti, quindi”, disse.
“Esattamente”. Detto questo il moretto sorrise e fece un cenno di saluto con la mano, aprendo la porta e chiudendola a chiave dopo essere uscito. Quei due di certo non avrebbero pensato ad una cosa semplice come il far girare la piccola chiave nella serratura… avevano perso la capacità di ragionare nell’istante in cui si erano visti.
Bene, gli si prospettava un’ora da passare in qualche modo… già, ma come? Si chiese cosa sarebbe accaduto se qualche professore lo avesse sorpreso in giro a quell’ora, e subito comprese che sarebbe stato meglio trovarsi un posto dove la gente non passasse alle undici della sera. Fece mente locale delle zone della scuola che conosceva, per arrivare alla conclusione di doversi studiare un po’ meglio la cartina dell’edificio. Alla fine, con terrore crescente datogli dall’essere ancora davanti alla stanza sua e di Roxas, pensò che il luogo più adatto allo scopo fosse la terrazza che si trovava sul tetto. Non faceva di certo caldo per immaginarsi che qualcuno salisse lì a quell’ora… meno male che aveva avuto l’idea di prendere la giacca prima di uscire.
Senza perdere altro tempo attuò il suo piano, e riuscendo a non perdersi – si stupì da solo – raggiunse la terrazza. Guardò il cielo, limpido, e respirò l’aria fresca; camminò fino al davanzale e vi si accostò, guardando quanto tempo lo separava dal rientro in camera. Troppo, decisamente troppo.
Mentre pensava che quella situazione si sarebbe di certo ripetuta spesso se non avesse trovato una soluzione, udì un lieve rumore metallico alla sua sinistra; d’istinto si voltò da quella parte, e vide che proprio il fulcro del caso 235.b si era appoggiato di spalle alla ringhiera, senza dare l’impressione di essersi accorto di lui.
Sora ci pensò un po’ su: avrebbe voluto avvicinarsi, anche solo per ringraziarlo per quella mattina – probabilmente non ricordava di essere andato a sbattere contro un muro perché lui non l’aveva fermato – ma c’era qualcosa in quel giovane che lo metteva in imbarazzo, sin dalla prima volta che aveva incrociato lo sguardo con il suo; se ripensava poi a quell’istante in infermeria… sperò vivamente di avere un fazzoletto con sé in caso di eventuali fuoriuscite di sangue dal naso.
D’altronde, pensò ancora, aveva altri tre quarti d’ora da passare lassù: forse sarebbe stato più piacevole trascorrerli in compagnia di qualcuno, che a rimirare il cielo freddo in compagnia di un ben poco loquace parapetto. Quindi si decise: si mosse in direzione del compagno e lo salutò non appena lo ebbe raggiunto; questi lo guardò, con espressione indefinita, poi gli rivolse a sua volta un debole saluto. Probabilmente era salito lassù per starsene un po’ da solo, e Sora lo stava disturbando; il moretto si trovò così in una difficile situazione: andarsene gli sarebbe sembrato stupido, ora che si era finalmente avvicinato, ma rimanere gli pareva altrettanto sconveniente… quella di buttarsi giù dalla terrazza gli sembrava l’idea più azzeccata.
“Senti… volevo ringraziarti per questa mattina”, gli disse infine, sperando che fosse la mossa giusta.
“Non devi ringraziarmi… spero che tu ti sia ripreso”.
“Oh, sì, certo, sto benone!”, rispose con un grande sorriso. Fortuna che Riku non l’aveva visto lamentarsi poco prima in camera con il fratello.
Miyasaka lo guardò incuriosito. “Come mai sei qui? Non riuscivi a dormire?”, gli domandò.
“Oh, no, avevo solo voglia di fare un giro!”, replicò Sora con un risolino imbarazzato, ripensando al vero motivo per il quale si trovava lì. Di certo non sarebbe riuscito a dormire, anche se ci avesse provato; probabilmente neppure dopo essere tornato… ma quello lo avrebbe scoperto più tardi.
“Ah, quindi non c’è una ragione particolare per la quale sei in pigiama e in ciabatte”.
Il moretto ci mise un po’ per capire quella frase, ma quando arrivò alla comprensione iniziò a pregare mentalmente che il misterioso rapitore prendesse lui come bersaglio, seduta stante, e non Riku. Come diavolo aveva fatto a non accorgersi del suo abbigliamento? D’accordo, non ci aveva riflettuto troppo quando era fuggito dalla camera, ma almeno far caso a cosa portava ai piedi… a volte la sua stupidità spaventava anche lui. “Ehm… non me n’ero accorto… eheheh…”, spiegò alla fine, ancora più imbarazzato di prima.
Dopo quell’ultima battuta, il silenzio tornò di nuovo a fare padrone di quella notte. Sora iniziò a sentirsi a disagio, ma ogni cosa che gli saltava in mente da potergli dire risultava di una stupidità disarmante. Aveva una vasta scelta: ‘come mai sei così silenzioso?’, ‘per quale motivo te ne stai spesso solo?’, ‘Potresti non andartene in giro da solo soprattutto a quest’ora di notte visto che c’è qualcuno che vuole rapirti?’, ‘Hai mica una soluzione contro un fratello e il suo ragazzo che ti cacciano via dalla propria camera?’ erano solo alcune di quelle meno assurde. Figurarsi le altre.
“Asahi… – ‘chiamami Sora, chiamami Sora!’ pensò il diretto interessato – perché tu e tuo fratello siete venuti qui?”.
Il moretto rimase leggermente spiazzato da quella domanda, accompagnata da uno sguardo quasi penetrante, come se volesse strappargli la verità dagl’occhi.
“Beh… per studiare… come tutti i ragazzi che sono qui, no?”, rispose dopo un po’, insicuro, evitando di guardare il viso dell’altro.
Riku non disse nulla; Sora si sentì ancora più oppresso da quel silenzio, ma ogni voglia di iniziare un discorso gli era totalmente scivolata via con quel quesito. Passarono alcuni minuti così, come due sconosciuti ad una fermata del tram, a respirare il tempo che passava su quella fredda terrazza; poi, d’improvviso, il ragazzo dai capelli argentati si staccò dalla ringhiera e mosse alcuni passi verso l’entrata. “D’altronde non ho il diritto di sapere quello che nascondete a tutti noi… beh, ti auguro la buonanotte, Asahi!”, concluse, aprendo la porta e rientrando nell’edificio.
L’altro rimase praticamente a bocca aperta; come poteva aver capito che lui e Roxas erano stati mandati lì con una missione ben precisa? Di certo ne avrebbe parlato con il fratello, o meglio ancora con Marluxia… il sospetto che il presidente Highwind avesse nascosto qualcosa a tutti loro cresceva sempre di più.
“Uh, fa freddo a stare qui fuori, soprattutto in pigiama!”, piagnucolò, guardando di nuovo l’orologio; se non fosse congelato prima, avrebbe rivisto il suo lettuccio in poco meno di mezz’ora.

La stanza si era fatta calda, ma nessuno dei due avrebbe voluto abbandonare quel calore provocato dal contatto dei loro due corpi.
“Dovresti farti perdonare più spesso, sai…?”, mugugnò Roxas, mentre offriva tutto il collo ai baci del compagno. Adorava come il lieve tocco delle sue labbra sapesse provocargli dolci brividi, mentre le mani che sentiva posate sulla propria schiena lo infiammavano ad ogni minimo movimento.
Mentre Axel si occupava del suo collo, il biondino alzò un braccio e iniziò a passargli lentamente le dita tra i capelli, per tutta la loro lunghezza, per poi posargli una lieve carezza sulla tempia. Fece per abbassare il viso per attirare le labbra del compagno sulle proprie, quando venne colpito da un dolore penetrante poco più sotto al ginocchio che lo paralizzò per qualche istante, lasciandolo senza fiato; in un solo attimo fu come se una ventata gelida lo avesse investito, una tormenta di neve che accompagnava una voce più fredda del ghiaccio.
*Piccolo Roxas, io lo so… so che quel vuoto da sempre dentro di te sta crescendo, e tu non puoi fermarlo… Ti divorerà presto, oh, lo farà…*.
Quel freddo intenso, quella voce così pacata e pungente, non riusciva a non ascoltarla…
“Roxas…?”.
In un attimo fu di nuovo nella sua stanza; il gelo era sparito portando con sé quella voce, e così l’improvviso dolore.
“Roxas, è tutto a posto? Mi sembravi perso”, esclamò Axel preoccupato, osservandolo nei profondi occhi azzurri. Il biondino respirò a fondo, mentre nella mente gli si affollavano mille pensieri: in un istante capì che la cosa più importante in quel momento era non mettere in pensiero il suo ragazzo, cos disse: “Sei tu che mi fai perdere in un mondo bellissimo ed inebriante…”.
Per quanto quell’affermazione gli facesse piacere, Axel non sembrava convinto della sua veridicità; il più piccolo se ne accorse, capendo quindi di dovergli far dimenticare qualsiasi preoccupazione in altri modi.
“Dico davvero Axel, non mi credi?”, chiese, mentre gli impediva un’immediata risposta sigillandogli la bocca con la propria. Quando dovettero mettere fine a quel contatto il ragazzo dai capelli rossi sembrò essersi convinto, e la voce di ghiaccio solo un ricordo.
“Ed ora approfittiamo di questi ultimi momenti, prima che il tempo crudele ci separi di nuovo…”.

Le sei di mattina… quanto tutto è ancora silenzioso, l’aria è tranquilla, e il sole autunnale non sembra aver alcuna intenzione di svegliarsi. Anche l’istituto Saint Lawrence era immerso in una dimensione senza suono, completamente priva di disturbi… fatta eccezione per il rumore provocato da un passo strascicato nelle cucine della scuola.
“Ma dico io… sono le sei, chi cavolo può venire a fare colazione a quest’ora…?”, si lamentò Marluxia con pentole e posate, visto che non c’era anima viva a parte lui, mentre si avviava verso la mensa. Chi aveva appena terminato il turno di notte aveva preparato tutto nella sala per la colazione, e al giovane sarebbe toccato rimanere sino alle otto e mezza per lavorare.
Marluxia sbadigliò, rischiando di andare a sbattere contro un carrello… evento che gli permise di svegliarsi un pochettino di più; l’uscita dalla fase REM, però, sembrava ancora lontana. Avrebbe raggiunto la mensa facendo invidia al più vitale degli zombie, se una sensazione che ben conosceva non gli avesse messo i sensi all’erta; aggrottò le sopracciglia, pensieroso, e si fermò un attimo.
“Non posso sbagliarmi, questa è l’aura di Sora… ma neanche se mi pagassero crederei che quel dormiglione è in piedi a quest’ora…”.
Non poteva che essere così, però, e l’idea che avrebbe rivisto subito una faccia amica lo fece entrare nella mensa a passo più convinto. Tutti i tavoli, come previsto, erano vuoti, e ad una prima occhiata sembrava che nessuno fosse nella sala. Ma Marluxia aveva sentito la presenza vicina del compagno, non era possibile che si fosse sbagliato… si concentrò maggiormente per individuare la fonte di quell’energia, e finalmente lo vide: un ragazzo seduto ad un tavolo poco in evidenza, immerso nei suoi pensieri, che dava l’impressione di trovarsi totalmente a suo agio in quell’ambiente deserto e silenzioso.
Un presentimento colpì Marluxia, accompagnato da un ricordo che mai aveva creduto o sperato di poter cancellare.
*Non ci rimane altro che trovare le due Chiavi. Sono sicuro che con il tuo potere non sarà un’impresa difficile… Marluxia*
Il caso 135.b non era ciò che il presidente Highwind aveva fatto credere loro, e il giovane non aveva alcuna intenzione di aspettare per scoprire quanto quella sua sensazione fosse veritiera.
Perché quel ragazzo seduto da solo non era Sora… ma Riku Miyasaka.

– Fine primo capitolo –

 
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