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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Libri e Film (da libri)
Dalla Serie: Harry Potter
Titolo Fanfic: ACCIDENTALY IN LOVE
Genere: Sentimentale
Rating: Per Tutte le età
Avviso: Spoiler, Slash
Autore: hiei-chan galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 20/10/2006 19:07:05 (ultimo inserimento: 19/06/07)

James Potter si trova da solo alla stazione di King`s Cross, dove scorge Severus Piton allontanarsi di tutta fretta. Decide di seguirlo. JP/SP slash
 
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NEL QUALE JAMES POTTER PEDINÒ LA SUA VITTIMA
- Capitolo 1° -

Salve a tutti! Come state? Spero molto bene. Vorrei chiedere scusa se nella prima versione da me pubblicata qualche giorno fa non ho lasciato nemmeno un commentino ad inizio capitolo, cosa che, se avete letto le mie ultime fanfictions, faccio sempre. Il fatto è che ho pubblicato così di fretta che non ho neppure riletto la prima stesura (infatti era terribile), e non ho avuto il tempo materiale per potermi rivolgere a voi.
Quello che state andando a leggere è la versione “riveduta e corretta” del capitolo, perché la prima stesura non mi piaceva molto… nulla che chi abbia già letto l’altro capitolo non possa risparmiarsi di leggere, sia chiaro, l’ho solo reso un po’ più bello. Se lo leggerete sarà solo per il gusto di scoprire se davvero ho fatto un buon lavoro.
Ringrazio ulteriormente chi mi ha commentato il primo capitolo, e chi ha avuto il coraggio di scrivere che “è davvero ben scritto”!
Fatte queste premesse non mi resta che augurarvi:

BUONA LETTURA!

* * * * * * * * *


Sette di sera. Londra. Un gran numero di treni provenienti dalle stazioni più disparate stava convogliando nella stazione di King’s Cross, annunciando il proprio arrivo con fischi e sbuffi di fumo biancastro. I freni stridettero sulle rotaie, le porte si aprirono, e tutti i passeggeri si riversarono fuori dai treni con un gran fragore di tacchi, rotelle e voci concitate. Il brusio era assordante.
Tuttavia, anche se ci fosse stato un silenzio perfetto, nessuno avrebbe potuto sentire il fischio che annunciava l’entrata in stazione della cangiante locomotiva scarlatta dell’Espresso di Hogwarts, nascosta da una particolare barriera situata oltre il muro che divideva il binario nove dal dieci.
Il treno frenò con dolcezza, permettendo poco dopo ad un innumerevole numero di ragazzi dagli undici ai diciotto anni di riversarsi come un fiume in piena sullo spiazzo ai lati del binario così da potersi ricongiungere ai propri, ansiosi genitori, sgomitando e gridando per farsi lasciare libero il passaggio.
James Potter non ne aveva bisogno. Seguito dai suoi tre inseparabili amici, gli bastò sfiorare la spalla di un ragazzotto piuttosto affannato perché tutti si scansassero per farli passare. Neppure la ragazzina lentigginosa con le trecce, che era tutta sudata per aver ottenuto un posto privilegiato nella fila, ebbe nulla da ridire: quei quattro erano famosi, e nel bene e nel male ottenevano sempre ciò che volevano.
I ragazzi scesero dal treno in una profusione di sorrisi e smorfie, per poi bloccarsi sulla piattaforma formano un piccolo cerchio. Una cerchia ristretta, e benché i suoi componenti fossero molto diversi tra loro, anche molto unita.
James, bel fisico, capelli scuri scarmigliati, e ridenti occhi castani nascosti da una sottile montatura d’occhiali, rise di gusto alla battuta del suo migliore amico, un ragazzo molto affascinante dai lunghi capelli neri di nome Sirius Black.
“Oh, andiamo, Sirius! A te sarebbe piaciuto vederlo?”
“James!”
Gli occhi castani di James e quelli neri di Sirius si spostarono su quelli miele di un altro ragazzo, Remus Lupin, vestito abbastanza miseramente con un visetto amabile contratto in una smorfia di disappunto, tradita dalla luce divertita dei suoi occhi.
“Ti pare il modo di parlare? Come sei volgare…”
“Uffa, non cominciare Remus! Ti stavi divertendo anche tu! E poi Mocc…”
Le parole di Sirius vennero stroncate da uno squittio acuto, partito dal ragazzino basso col naso a punta e gli occhietti acquosi che stava insieme a loro.
“Non parlare così, Sirius. Se qualcuno, qualche insegnante ti sentisse saremmo nei guai.”
James esplose in una risata tirando un colpo leggero in testa al ragazzino.
“Non fare lo stupido, Peter! Che insegnante vuoi che ci senta, qui? Non siamo mica a scuola.”
E James e Sirius, ancora, risero di gusto.
“Insegnante o non insegnante, Peter ha ragione. Piantatela!”
James stava per rincarare la dose, ma Sirius gli appoggiò una mano sulla spalla. James lo guardò negli occhi. Rilassò le spalle, e si rivolse a Remus:
“Tu che farai quest’estate?”, chiese.
“Non lo so… il solito credo.”, rispose quello con un’alzata di spalle.
Peter, dal canto suo, prese ad elencare tutta una serie di noiosissime attività che avrebbe fatto con la sua famiglia, ascoltato comunque con attenzione da tutti quanti. James, allora, si rivolse a Sirius con un’occhiata complice. Quello non lo guardò neppure negli occhi.
“Torno a casa”, disse.
James lo fissò con gli occhi sgranati. Aveva davvero sentito giusto?
“Torni… a casa tua?”, chiese cauto.
Sirius sollevò le spalle con noncuranza, come se la cosa non fosse minimamente importante, ma i suoi occhi tradivano una certa ansia.
“È tornato mio zio Alphard… mia madre vuole averci tutti e due a casa, io e mio fratello. E inoltre il vecchiaccio mi ha scritto che deve parlarmi…”
James si scostò i capelli dalla fronte e sbuffò, contrariato. Nella sua mente si era già figurato una splendida vacanza all’insegna del divertimento e del non far nulla insieme al suo migliore amico: avrebbe passato le vacanze da solo, come ormai non accadeva da anni.
Ma, nonostante i suoi progetti fossero andati a farsi benedire, non intendeva farglielo pesare: primo, perché sapeva che la decisione di rientrare a casa Black non dipendeva certo da lui; secondo perché sapeva inoltre che questo fatto innervosiva parecchio Sirius.
Il moretto gli sorrise e gli appoggiò una mano sulla spalla, facendo poi scontrare dolcemente le loro fronti. Un gesto di amicizia, di complicità. Sirius sorrise amaramente.
“Non ti preoccupare James, non mi mangeranno di certo! O almeno credo…”
I due ragazzi si misero a ridere, imitati dai loro amici.
James salutò anche loro con calore, abbracciandoli e dando loro sonore pacche sulle spalle. Remus si azzardò anche a dargli un pugno in testa, accompagnandolo con un “comportati bene!”. Quando si furono salutati, Sirius, Remus e Peter si allontanarono, chi con gioia, chi con meno, diretto dai proprio parenti che li stavano aspettando lontano dal binario per non far ressa. Ancor prima di sparire i ragazzi si voltarono di nuovo verso James sventolando le mani in aria in segno di saluto.
Quando tutti sparirono dalla sua visuale James rimase solo, in piedi, con accanto il suo baule, a cercare con lo sguardo la testa mora di suo padre o quella fulva di sua madre. Spostò gli occhi a desta, poi a sinistra, senza trovare la benché minima traccia dei suoi genitori.
“Grandioso! Mi toccherà andare a casa da solo.”
James si portò le mani sui fianchi, sul viso un’espressione imbronciata.
Oramai erano rimasti ben pochi i ragazzi che ancora non avevano lasciato la stazione, e James poté vederli correre dai propri genitori, o uscire non accompagnati in mezzo alla calca di Babbani che probabilmente era addensata dall’altra parte della barriera.
Era la prima volta che i suoi genitori non si erano presentati al suo ritorno da scuola.
Cominciò a sbattere il piede a terra, muovendolo a ritmo di un motivetto che aveva nella testa. Forse erano in ritardo. James si guardò ancora attorno, poi guardò il suo orologio da polso. Sette e un quarto. Forse se ne erano dimenticati. Si passò una mano tra i capelli arruffati e incrociò le braccia al petto. Ma non si dimenticavano mai nulla! Non potevano averlo lasciato lì! James seguì con lo sguardo un ragazzino di prima che superava la barriera con la mamma, una rossa attraente. James aggrottò le sopracciglia. Non aveva ancora visto la Evans, quel giorno. Chissà se anche lei era già andata a casa? Sorrise. Magari no, magari si sarebbero trovati lì tutti soli in stazione e, presi da una passione incontrollabile sarebbero fuggiti assieme. Magari su un isola deserta, o forse in una metropoli da sogno. Parigi. E avrebbero avuto tanti bambini, e questi bambini sarebbero stati uguali alla mamma… il fischio della locomotiva giunse alle orecchie di James quando già il loro terzo figlio frequentava il quinto anno e portava a casa la sua futura moglie.
Si guardò attorno. Era solo. Si era imbambolato come un idiota a fantasticare e non si era neppure accorto che tutti erano già andati via. Grandioso.
Afferrò il proprio baule e si diresse a passo spedito verso la barriera che separava il binario 9 e ¾ da quello Babbano: se proprio doveva rientrare solo, meglio farlo in fretta. Oltrepassò la barriera ad occhi chiusi; e in un baleno si mescolò con il tumulto di gente che stava tornandosene a casa. O almeno lo avrebbe fatto, se i suoi occhi, una volta varcata la barriera, non si fossero posati su una figura curva e silenziosa che come lui si stava trascinando fuori dalla stazione tutta sola.
Le labbra di James si arricciarono in un ghigno.
– Bene, bene, bene…

Severus Piton era un ragazzo magrissimo, con un viso pallido e lunghi, unticci capelli neri che si spartivano in due tendine mostrando solamente il lungo naso adunco e i freddi occhi neri, che difficilmente destava l’interesse del prossimo, fosse questo di sesso femminile o maschile. Nessuno, dunque, si preoccupò che quella mattina non era sceso a colazione, come nessuno ricordava di non averlo visto neppure la sera precedente a cena.
Severus aveva trascorso le lunghe ore di viaggio sull’ Espresso di Hogwarts in uno scompartimento vuoto, con la sola compagnia di un vecchio libro di Pozioni che teneva sulle ginocchia, e sul quale, di tanto in tanto, annotava qualche parola. Guardava fuori dal finestrino senza l’impazienza di rivedere la sua famiglia, adagiandosi contro il comodo schienale del sedile, sonnecchiando di quando in quando, svegliandosi di scatto, e continuando a dedicarsi ai suoi solitari, patetici affari, senza farsi disturbare minimamente dalle risa che provenivano dagli altri scompartimenti.
Il fischio della locomotiva lo turbò più di quanto non si sarebbe aspettato. Il busto scattò eretto, facendo quasi perdere l’equilibrio al librone che rischiava di cadergli a terra. Lo recuperò con un’imprecazione.
Guardò fuori dal finestrino, e vide un ammasso di gente accalcarsi ai lati del treno, ansiosi di tornarsene a casa; perché poi? Aggrottò le sopracciglia, e si riadagiò sul sedile, rimanendo comunque molto rigido. Aspettò in quel penoso stato per circa un quarto d’ora.
Si alzò in piedi e, non vedendo nessuno nei paraggi, si decise a scendere. Trascinò il proprio baule giù dalla locomotiva, e con la testa bassa, ripercorse la strada che sapeva lo avrebbe condotto fuori dalla stazione.
Non si voltò per cercare il viso di sua madre, o quello di suo padre. Sapeva che non ce n’era bisogno. Allungò il passo, andando un po’ più velocemente. Sperava solo che l’autobus non fosse già partito. Attraversando la barriera, non si accorse neppure che due profondi occhi castani ammiccarono in sua direzione con una luce tutt’altro che amichevole.
L’altro ragazzo, James, sempre sorridendo, afferrò saldamente il proprio baule e gli corse dietro, stando bene attento a non farsi vedere.
Se in quel momento James Potter si fosse fermato a pensare ai motivi che lo avevano spinto a inseguire l’altro ragazzo probabilmente si sarebbe fermato lì dov’era: di solito non affrontava mai Mocciosus Piton da solo; non perché ne avesse paura, no di certo, forse per non dover sentire tutto da solo le ramanzine di Remus, o forse per non doversele sentir fare da Sirius per non averlo coinvolto… o forse perché in fondo, ma molto in fondo, in un angolino piccolo e remoto del suo cervello, tutto buio e impolverato, aveva la consapevolezza che Piton non era un avversario da sottovalutare.
Ma veramente in fondo, tanto in fondo che in quel momento non ci pensò. Pensò solo a correre, a stargli dietro, e forse pensò anche a come poter volgere quella situazione a suo vantaggio, magari con un bello scherzo.
James seguì Piton fuori dalla stazione, fin dietro, dove si trovava il parcheggio degli autobus. Nonostante si stese facendo ormai buio, James poté vedere il Serpeverde avvicinarsi ad un vecchio trabiccolo tutto scassato, con la vernice scrostata, e guidato da un uomo anziano con la barba bianca incolta che teneva sempre un sigaro tra i denti, nonostante il divieto di fumare sui mezzi pubblici. Piton depositò il proprio piccolo baule nel portabagagli e salì sull’autobus tutto traballante pagando quel poco che era il prezzo del biglietto. James lo imitò. Dopo aver deposto il suo più grande (e anche più pieno) baule, salì sull’autobus, pagò, e si sedette qualche posto più avanti rispetto a Piton, coperto dalla sua copia della “Gazzetta del Profeta”.
Il viaggio dalla stazione alla fermata che Piton scelse durò circa tre quarti d’ora. James, se durante i primi dieci minuti era eccitato all’aspettativa del suo grandioso inseguimento, dopo la prima mezzora cominciò a deprimersi. Piton non accennava a scendere, e oltre al fatto che si stava facendo sempre più tardi, il panorama che gli si presentava al di là del finestrino diventava sempre più grigio e desolante, tanto che il moretto venne colto da un improvviso attacco di sonno.
Passarono circa altri quindici minuti e un violento scossone fece riscuotere il Grifondoro dal suo sedile.
James scattò. Sollevò la testa e come prima cosa guardò fuori dal finestrino. Tutto quello che riuscì a vedere, illuminato dalla luce baluginante di un vecchio lampione, fu un rigagnolo d’acqua torbida le cui sponde erano per lo più rifiuti ed erbacce, e l’aria stantia portava nell’autobus un odore malsano che filtrava dai finestrini aperti. La prima reazione che James ebbe fu quella di tapparsi il naso, disgustato da quell’odoraccio, e subito si voltò a guardare verso il posto che Piton aveva occupato fino a poco prima. Durante un lunghissimo istante di terrore il Grifondoro temette quasi di averlo perso, di essersi addormentato e di non essersi accorto che il Serpeverde era sceso. Il mezzo era vuoto, salvo un posto, uno solo, un po’ in fondo, vicino ad un finestrino sporco, occupato proprio da Severus Piton. James sospirò. Non l’aveva perso.
Vide i ragazzo guardare fuori il panorama prima di alzarsi in piedi e dirigersi verso la porta aperta vicino al vecchio autista, senza degnare James di uno sguardo. Piton scese, e quando James fu sicuro di essere fuori portata lo imitò, scendendo per la stessa strada.
Recuperò il proprio baule e si lanciò di nuovo all’inseguimento.
Se, ancora una volta, James si fosse fermato a pensare, avrebbe capito che la situazione era troppo assurda, e che lui avrebbe fatto meglio a tornare sui suoi passi invece che osservare quelli poco distanti di Piton che sfrecciavano sicuri sullo spiazzo che si affacciava sul fiumiciattolo.
James inarcò un sopraciglio.
“Dove diavolo vive questo moccioso?”, pensò, con una punta di panico.
Nel frattempo, il moccioso in questione, tirò diritto fino ad uno sbarramento appena accennato di legno marcio, lo oltrepassò, e prese una stradina acciottolata sulla quale si affacciavano diverse casacce illuminate malamente da alcuni lampioni rotti. A James, guardandole, si strinse il cuore. Case che erano solo stanze, i più fortunati avevano anche una mansarda di fortuna, le porte scardinate e con l’intonaco scrostato, finestre sprangate, rotte, sporche, coperte da persiane sgangherate e tendaggi sciatti. In quel momento non fu certo di voler continuare l’impresa: sarebbe riuscito a deridere Piton davanti alla sua casa senza provare pietà? James respirò a fondo. No, non ci sarebbe riuscito.
La sua mente era nella propria casa, nel centro di Godric’s Hollow, una deliziosa villetta su due piani che si affacciava su una ridente stradina da un lato e su un fiorito e ben curato giardino dall’altro. La sua stanza da letto, che dava sul giardino, probabilmente era spaziosa quanto il pianerottolo di una di quelle case. Chissà com’era la camera di Piton…
Nel formulare questi pensieri James non si era neppure accorto di essersi fermato in mezzo alla strada, e di aver fatto cadere il suo baule a terra causando un tonfo che aveva fatto voltare Piton, il quale ora lo stava fissando con una certa rabbia mal celata.
“Che diavolo ci fai qui, Potter?”
La voce di Piton lo fece riscuotere. James lo fissò e ad un tratto si trovò a pensare, con una punta di crudeltà, che l’ambiente circostante fosse proprio adatto a quel ragazzino dalla pelle pallida e i lunghi, unti capelli neri. Sorprendendosi di sé stesso, non rivelò questo suo pensiero ad alta voce.
“Nulla, una gita sociale.”
Si trovò invece a dire, con un accenno lievemente ironico nella voce. Questo suo tono fece innervosire il Serpeverde che, voltatogli le spalle borbottando un “fuori dai piedi Potter!”, riprese a camminare imboccando un’altra stradina buia sulla quale incombeva l’ombra di una ciminiera che il moretto non aveva neppure notato, che si chiamava Spinner’s End.
Che nome poetico, si disse James, che nonostante tutto aveva comunque deciso di vedere quale, delle numerose case, era quella in cui viveva Piton: da un lato, perché oramai, arrivato fin lì, non aveva senso tornarsene indietro, dall’altro perché, in fondo, molto in fondo nella sua testa, nello stesso luogo in cui si trovava la consapevolezza del valore di Piton, sperava che la sua casa fosse un pochino meglio di tutte quelle che la circondavano.
Questa volta non fu la fredda, ma comunque bassa e conosciuta voce di Piton a costringerlo a fermarsi in mezzo alla strada, ma una voce sconosciuta e acuta che esplose in un grido agghiacciante. James sollevò la testa arretrando di un passo. Per un momento si trovò spiazzato. Le urla crescevano di intensità, accompagnate da grida selvagge e, ne era quasi certo, suppliche bagnate da calde lacrime
James deglutì e, risoluto, si avvicinò alla fonte delle urla. O almeno lo avrebbe fatto, se non che vide un silenzioso, lento e rassegnato Severus Piton superarlo e tornare sui suoi passi. James si voltò a guardarlo giusto in tempo per vedere la sua schiena scomparire dietro un angolo. Lo seguì, ancora una volta senza rendersi conto di quello che stava facendo. O forse si, considerando che Severus Piton era l’unico punto di riferimento certo in tutta quella bizzarra situazione.
Il Serpeverde, nel frattempo, si era portato nuovamente sullo spiazzo, e quando James lo raggiunse lo vide gettare a terra il vecchio baule e sedervicisi sopra, appoggiando i gomiti sulle cosce e i palmi attorno al viso scarno. Lo vide sospirare, e in un certo senso, fu questo a convincerlo di potersi avvicinare al ragazzino: ovviamente lui sapeva cosa stava succedendo, e considerando l’espressione abbattuta che aveva dipinta in faccia non doveva essere proprio una bella cosa.
Sfortunatamente in quel momento la delicatezza di James venne meno:
“Che diavolo è successo?”
Piton non sollevò neppure lo sguardo sul suo interlocutore.
“Nulla che ti riguarda, Potter! Non ti avevo detto di andartene?”
Sul viso di James si dipinse un ghigno cattivo.
“Tu mi dai degli ordini Mocciosus?”
Piton alzò la testa per fissare James negli occhi, e vide che il Grifondoro sembrava alquanto soddisfatto. Era lì per umiliarlo, come al solito. Il Serpeverde non si sprecò neppure ad afferrare la bacchetta e abbassò lo sguardo sulle mani che ora teneva raccolte in grembo.
A quanto pareva Piton non aveva intenzione di reagire, e questo fece innervosire James: odiava il modo in cui quel dannato Serpeverde si lasciava scivolare la vita addosso. Doveva stuzzicarlo, doveva costringerlo a reagire, a combattere… a sottomettersi anche. Perché, James non ne aveva mai capito il motivo, anche se Piton lasciava che la vita lo giostrasse come una bambola, non aveva mai abbassato la testa, non si era mai arreso fino al punto di supplicare di essere lasciato in pace.
Certo, quando non ne poteva più chiedeva venia, ma la volta successiva era sempre pronto a dar battaglia, come se le umiliazioni alle quali lo sottoponevano in continuazione fossero fonte di forza anziché di debolezza. Ciò che non uccide, fortifica. Ecco forse perché i loro scherzi erano diventati sempre più pesanti.
James sbuffò: non era esattamente così che sarebbe dovuta andare quella serata. Per la verità non era esattamente così che sarebbe dovuta andare l’intera faccenda.
“Senti Moccio… Piton”, il tono era nervoso nonostante cercasse di controllarsi, “ti ho solo chiesto se sai perché in mezzo a quelle case c’era della gente che stava sbraitando: se non lo sai, dì: non lo so, e la facciamo finita. Non è il caso di essere sempre così insopportabile! ”
Piton alzò nuovamente lo sguardo. Gli occhi erano vitrei, ma sulle sue labbra era comparso un ghigno.
“Io lo so che cosa stava succedendo, Potter. Solo, come ti ho già detto, non sono affari tuoi.”
Piton tornò a fissare davanti a sé e a tormentarsi le dita. James pensò che se voleva cavargli fuori qualcosa avrebbe dovuto insistere, stuzzicarlo, come al solito, tanto più che il Serpeverde sembrava essere lì, indeciso sul da farsi. In effetti era proprio così. James sorrise.
“Allora, visto che questi non sono affari miei, posso almeno sapere perché non te ne torni a casa?”
Non che a James potesse importare, ma ritenne che per farlo cadere da quel lato bisognava stuzzicarlo in vari punti; e in effetti la sua strategia sembrò funzionare, perché il Serpeverde parve tremare per un lungo istante, e certo non a causa del freddo. Si voltò a guardare James con un’espressione infuriata.
“Cosa, del verbo vattene, ti risulta poco chiaro, Potter?”
James fece schioccare la lingua. Centro.
“Il motivo.”
Piton non sostenne il suo sguardo strafottente e si voltò a guardare più in là, dove poco prima si era fermato l’autobus, desiderando forse di vederlo ricomparire. O forse no.
“Vai via, Potter…”
James, fuori dal campo visivo del Serpeverde, sorrise: stava cedendo.
“Oh, andiamo Piton: qui ci deve vivere un sacco di gente. Possibile che i tuoi genitori non ti abbiano insegnato a spettegolare sui vicini di casa?”
Le spalle di Piton fremettero, ma lui non si voltò. Sbatté i pugni sulle gambe e scosse la testa:
“Quelli non erano i miei vi…”
Si fermò di colpo, gelato dalle sue stesse parole. Abbassò il capo. Potter lo aveva sconfitto di nuovo. Strinse i pugni, pronto ad incassare il commento pungente che non esitò ad arrivare.
“Quelli erano i tuoi genitori?”
Una voce crudele, leggermente ironica. Piton respirò a fondo, serrò i pugni e chiuse gli occhi. Doveva calmarsi, non poteva dare a Potter anche la soddisfazione di vederlo cadere in una crisi isterica. Si alzò dal suo baule, e fronteggiò il Grifondoro.
“Si. E ora che lo sai sei più felice e puoi lasciarmi in pace?”
James si portò le mani sui fianchi e sorrise. Reagiva, finalmente.
“No, non lo sono… Dimmi Mocciosus: litigavano per addossarsi la colpa di averti avuto come figlio?”
Piton fremette da capo a piedi, gli occhi gli si fecero lucidi e il labbro inferiore prese a tremargli per la rabbia. Maledetto Potter, maledetto! Piton serrò le palpebre e inghiottì aria sotto lo sguardo divertito del Grifondoro che non si era neppure accorto quanto il suo commento avesse fatto male all’atro ragazzo.
“Se anche fosse? Ti permetterebbe di dormire meglio?”, chiese glaciale.
“Magari si…”
La voce di James invece era molto rilassata. In effetti si stava godendo un mondo quella bella chiacchierata: quando Piton reagiva in quel modo per lui era come un invito nozze. Il sangue fluiva veloce nelle sue vene e lo prendeva un’eccitazione insaziabile. Si leccò le labbra. Ora finalmente le cose stavano andando come lui le aveva progettate.
“Si, se ti fa piacere sentirtelo dire litigavano per quello! Ora sloggi?”
“Lo sapevo! Neppure tua madre può sopportare di averti in casa…”
“Vattene!”, urlò.
James chiuse la bocca e guardò il suo interlocutore. Rabbrividì.
“Piton…”
Il Serpeverde tremava come una foglia, i pugni erano serrati lungo i suoi fianchi e le sue guance erano striate da due grosse lacrime che arrivate al mento caddero a terra. Gli occhi del Serpeverde diventarono enormi e lui si affrettò ad asciugarsi le lacrime e a voltarsi, per non dar modo al Grifondoro di vederlo piangere. Un gesto inutile di puro orgoglio.
James deglutì e gli si portò davanti, muovendosi a destra e a sinistra seguendo i movimenti dell’altro, fino a fermarlo afferrandogli le spalle.
“Guarda che io scherzavo: non credevo di certo che i tuoi litigassero per… quello…”
Piton lo scansò con una manata e si voltò nuovamente.
“Certo, come se a te potesse importare!”
James si scansò un attimo e allargò le braccia, spazientito.
“Andiamo Piton stavo solo…”
“Scherzando?” Piton si era voltato, il suo viso era contratto in una smorfia di rabbia e dolore. “Stavi scherzando come ieri pomeriggio? Be’, perché a dirtela tutta non trovo affatto che i tuoi scherzi siano divertenti! Passi copiarmi gli incantesimi, passi prendermi in giro… ma dovevi proprio umiliarmi in quel modo davanti alla scuola? Era indispensabile?”
James fremette. Assolutamente sublime.
“Si.”
Piton spalancò gli occhi. Entrambi i ragazzi rimasero a guardarsi a lungo.
“Perché?”
La voce del Serpeverde, rimase glaciale, imperturbabile.
“Bhe… è più il fatto che esisti, se capisci cosa intendo…”, recitò, come se fosse una filastrocca, con una voce annoiata.
Piton inspirò a vuoto. Poi esplose.
“Vattene Potter!”
James inarcò un sopracciglio.
“Andiamo Mocciosus… sono certo che se ti impegni qualcosa uscirà da quel tuo cervellino!”, rise crudele,“ -vattene!- andiamo, puoi fare di meglio.”
Il Serpeverde non resse. Cominciò a tremare da capo a piedi, serrò i pungi e strizzò gli occhi.
“No, il mio cervellino non sa fare di meglio! Sono solo un piccolo patetico, disgustoso idiota! In fondo mi hanno messo su questa terra solo per subire degli scherzi cretini, e perché i miei genitori litigassero rinfacciandosi di avermi avuto come figlio! Sono inutile, non è vero? Tanto meglio morire allora! Infondo che senso ha una vita così? Che senso ha? Vivo in un posto schifoso, con della gente orribile, e vengo trattato come… come un niente! E me lo rinfacciano anche! Merlino…”
Piton crollò sotto il peso della propria rabbia e si ritrovò seduto sul proprio baule, le mani sul viso, e un fiume di lacrime che gli rigava la faccia.
James distolse lo sguardo. Non sapeva bene il perché, ma il vedere Mocciosus Piton piangere non gli dava nessun senso di eccitazione. A dirla tutta si sentiva in colpa. Non intendeva aggredirlo, non intendeva dire quelle cose sui suoi genitori. Insomma, è ovvio che i suoi genitori non potevano odiarlo veramente. Brutto, unto o misero che fosse, restava sempre loro figlio. O no?
Piton alzò la testa e si asciugò le lacrime con la manica sgualcita del mantello.
“Immagino che Black si divertirà un mondo a sentire questa storia.”
Non c’era sarcasmo, e a dirla tutta neppure rabbia, c’era solo un amaro senso di sconfitta.
James sospirò. Nulla era andato per il verso giusto, quella sera. Si chinò di fianco al Serpeverde e gli appoggiò una mano sul ginocchio, offrendogli il suo fazzoletto che l’altro rifiutò. Poi sorrise amaramente e gli parlò a bassa voce, con un tono cordiale, come se fino a quel momento non avessero affatto litigato.
“Senti mi dispiace, ok? Non volevo dire quelle cose, ho esagerato. Alzati di lì, ti riaccompagno a casa.”
Lo afferrò per un gomito e cercò di tirarlo in piedi, ma questi fece resistenza scuotendo delicatamente la testa.
“È troppo tardi, non mi farebbe neppure entrare in casa.”
“Chi?”
Piton non rispose. James chiese di nuovo.
“Non c’è nessuno da cui tu possa farti ospitare per questa notte?”
Piton rimase in silenzio, limitandosi a far ciondolare la testa da una parte all’altra. No.
“E dove hai intenzione di passare la notte?”
Il Serpeverde liberò il braccio e si sedette nuovamente sul suo baule, scrollando le spalle. James scosse la testa, incredulo.
“Ma non puoi dormire qui!”
Severus rimase barricato nel suo assoluto silenzio. James si strinse nel mantello e osservò il cielo scuro. Cominciava a fare freddo.
“Sta facendo freddo. Credo che stia per venire a piovere.”
Piton alzò gli occhi sul suo interlocutore.
“Allora tornatene a casa…”
“E tu resti qui?”
Piton scrollò le spalle e James, finalmente, recepì il messaggio.
“Buona notte, Piton.”
Gli voltò le spalle senza aspettare una risposta, che comunque non sarebbe arrivata, afferrò il proprio baule, e si diresse alla fermata dove l’autobus l’aveva lasciato giù quella sera, sperando che il Nottetempo arrivasse presto.
Severus osservò l’altro ragazzo allontanarsi con passo lento e incerto fino a quando le tenebre non lo inghiottirono del tutto, per poi tornare a concentrarsi sulle proprie mani. Potter non avrebbe dovuto vedere… Potter non avrebbe dovuto sapere. Ora l’eccelso Grifondoro sapeva che nella sua famiglia c’erano problemi, e per di più aveva visto anche lo schifo di posto in cui era costretto a vivere. Severus gettò in avanti la testa, dandosi mentalmente dell’idiota. Non avrebbe dovuto dar modo a Potter di seguirlo, avrebbe dovuto prestarci più attenzione. Sospirò. Ormai il danno era fatto.
Uno spiffero di vento gelido lo costrinse a chiudersi il mantello attorno alla gola e lo fece tremare. Severus sollevò gli occhi verso il cielo ma non vide nessuna luce. Non c’era né la luna, né una sola stella a rischiarare quella notte. Faceva freddo.
Severus si raggomitolò su sé stesso portando i piedi sopra al baule, le ginocchia al petto. Chiuse gli occhi. Domattina i suoi si sarebbero calmati e lui sarebbe potuto tornarsene a casa. Cercò di stendersi alla bell’e meglio ma quando capì che il baule non poteva reggerlo si accovacciò per terra, dando un’ultima occhiata al cielo.
Plic.
Leggero, veloce, un colpetto rapido sul naso che non aveva lasciato che fastidio.
Plic.
Un altro, sulla guancia.
Plic, plic, plic…
Altri sul viso, sulle mani, sui capelli.
Plic, plic, plic, plic, plic…
“Oh, no…”
Il leggero e fastidioso tintinnare ben presto divenne un rombo assordante. Piton guardava con occhi persi il cielo, mentre fiumi d’acqua si riversavano su di lui, sul suo baule, sulla terra dove era seduto. Per poco non scoppiò nuovamente a piangere. Pioggia: ci mancava solo questo. Piton afferrò il suo mantello omai fradicio e se lo calò sopra la testa, in un misero e disperato tentativo di ripararsi dal temporale. Inutile. La pioggia aveva inzuppato il suo mantello e l’acqua scendeva da quello e si infilava tra i suoi capelli e nel colletto, percorrendogli la schiena. Severus pensò che probabilmente la pioggia lo avrebbe ucciso. Per un lunghissimo istante lo sperò vivamente.
Restò lì per molto tempo, ascoltando il rumore della pioggia e sentendo il suo peso gravargli sulle spalle. Non si accorse della tenue luce che apparve lontana e fredda, né del rimbombo dei passi che gli si avvicinavano. Ad un certo punto, però, sentì che la pioggia aveva smesso di martoriargli le spalle, nonostante ne sentisse l’eco non molto lontana. A sovrastare la pioggia una voce conosciuta:
“Te l’avevo detto che avrebbe piovuto.”
Piton sollevò la testa fradicia verso un sorridente James Potter, che in quel momento era teso su di lui con il suo ombrello. Spostò il suo sguardo altrove.
“Che cosa vuoi?”
“Questa notte vieni da me.”
Severus tornò a guardarlo, con gli occhi spalancati: James Potter lo stava invitando a passare la notte da lui? Impossibile. Doveva esserci sotto qualche scherzo di pessimo gusto, e in quel momento, Severus, non aveva intenzione di sopportare un’altra delle burle del Grifondoro. Comunque Potter poteva sempre avere intenzioni sincere… Severus scosse la testa, come se la sola idea fosse folle. Quindi, invece che chiedergli spiegazioni, preferì un approccio più brutale ma che avrebbe comunque, secondo l’idea del Serpeverde, messe in chiaro le intenzioni di James:
“Non mi serve la tua pietà, Potter!”
E infondo era vero, pensò il Serpeverde. Più o meno.
James rise a bassa voce e si avvicinò al suo orecchio, per essere certo che l’altro ragazzo lo sentisse:
“Si che ti serve. E ti serve anche una doccia calda… oltre ad un letto vero, s’intende!”, disse, ammiccando in maniera inequivocabile al vecchio baule e alla terra bagnata sulla quale il ragazzo era ancora seduto.
Severus si alzò stizzito sistemandosi il mantello fradicio sulle spalle, ma quando si alzò per guardare l’altro ragazzo negli occhi perse quel poco di baldanza che aveva; ma, nonostante questo, non intendeva minimamente darlo a vedere:
“E se ti dicessi di andare a quel paese?”
James sollevò un sopracciglio.
“Penserei che sei completamente imbecille.”
I due si guardarono negli occhi per un lunghissimo istante, senza che nessuno dei due si decidesse a perdere la propria posizione. La tensione era quasi palpabile: fu James il primo a cedere. Rilassò le spalle e sorrise.
“Andiamo Piton… è tardi, fa freddo e sta diluviando: smettila di fare il Serpeverde orgoglioso e vieni con me. Il Nottetempo non ci aspetterà in eterno.”
L’altro ragazzo lo guardò per altri due secondi con le sopraciglia aggrottate prima di cedere a sua volta. Abbassò lo sguardo e strinse i pugni. Potter aveva ragione, non poteva passare la notte lì.
“E va bene.”
James sorrise raggiante, molto più del necessario, e raccolse il baule dell’altro ragazzo da terra, trascinandoselo poi dietro insieme al proprietario che lo seguiva docilmente a testa bassa. Severus camminava spedito, abbastanza vicino a Potter dal poter rimanere coperto dal suo ombrello, e abbastanza lontano da dare ad intendere che con quel ragazzo non aveva, e non voleva avere, nulla a che vedere.
Erano quasi arrivati al veicolo, quando un lampo bianco squarciò il cielo, seguito dal rombo assordante del tuono che nacque alle loro spalle. Fu solo un istante, un istante imprevisto. Severus scartò di lato, appoggiando le mani al petto di James, nascondendovi poi il viso, tremando e stringendosi al suo improbabile protettore.
“Bene, bene, bene…”
Piton spalancò gli occhi, sollevò lo sguardo, e si allontanò da James con uno scatto, come se scottasse. L’altro ragazzo sorrise all’espressione imbarazzata dipinta sul viso del Serpeverde. Un lampo di malizia gli attraversò gli occhi, e James lasciò cadere il baule che si schiantò a terra con un tonfo bagnato, e trascinò di nuovo il ragazzo contro il proprio petto. I loro visi erano vicinissimi e James lo stava osservando con un’espressione strafottente:
“Piton! Capisco che mi sei grato per quello che sto facendo… ma non ti sembra di esagerare?”
Il Serpeverde aggrottò le sopracciglia in una smorfia di rabbia e si scostò dall’altro ragazzo con uno scatto brusco. James sorrideva nel vederlo così combattivo, e per un istante fu tentato di andarci giù ancora più pesante.
“Non avevi detto che il Nottetempo non aspetta in eterno?”
Ma fu solo un istante. Il Grifondoro scrollò le spalle prima di chinarsi a terra e raccogliere di nuovo il baule. Un altro tuono, e vide il ragazzo al suo fianco tremare e chiudere gli occhi, senza però muoversi di un solo millimetro. James sorrise.
“Dai, andiamo.”
Si misero in di nuovo cammino, l’uno di fianco all’altro. Solo un po’ più vicini. Le luci dell’enorme autobus a tre piani li inondarono. Non si guardarono negli occhi, non parlarono. Nel loro petto una strana sensazione di ansia, un brivido freddo lungo la schiena.
Entrambi si bloccarono per un istante davanti al veicolo. Severus salì, mentre James andava a sistemare il suo baule nel portabagagli accanto al proprio.
Tutti e due, in quel momento, furono grati alla pioggia e all’oscurità che coprivano il battito accelerato dei loro cuori… e quel tenue, adorabile, innocente rossore che si era prepotentemente impadronito delle loro guance.


* * * * * * * * *










Spero di ricevere altri commenti in attesa del secondo capitolo.

=^.^= “miao” Hiei-chan

 
Continua nel capitolo:


 
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