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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: NEL TEMPO E NELL` OBLIO
Genere: Fantasy
Rating: Per Tutte le età
Autore: ghost-rider galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 11/10/2006 18:49:17

una notte gelida... un continente remoto... un cimitero nebbioso e un cupo individuo seduto su una lapide...
 
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- Capitolo 1° -

Silenzio.
Alta in un cielo blu come il più profondo abisso marino, una timida luna, una falce di timida luna, non pretendeva neppure di spargere qualche manciata di luce su quella porzione dimenticata di mondo, accontentandosi di restare accasciata, molle e impotente, in quel bacino oceanico trapunto di stelle, testimoni soltanto di un silenzio assoluto, pregno di ricordi, greve di spiriti, pesante come un mantello zuppo. Un silenzio nero quanto l’occhio di un corvo. Nel cimitero altro non si udiva. Pure il soffio gelido e impietoso del vento d’ inverno ammutoliva tra le steli e le gotiche cripte, senza risparmiare tuttavia al pellegrino le sue sferzate taglienti. A terra, crocchiante se piede umano l’avesse calpestata, bianca, inviolata e abbacinante, la neve stendeva la sua coltre sul suolo indurito dal freddo e tutto intorno, a racchiudere il tutto in una sfera surreale e ovattata, aleggiava la nebbia, umida e spessa come può essere solo nei continenti dell’ estremo nord, addensandosi intorno ai piedi delle lapidi fino ad assumere un aspetto corposo e consistente, rivoli di gelo allo stato liquido, bianco sangue cimiteriale.
Al centro del cimitero, laddove le lapidi conducono inevitabilmente il visitatore, galleggiava nel nulla di nebbia un sepolcro. Un sarcofago di pesante pietra intarsiata, rovinato dal tempo, dal freddo, dalla memoria dell’ uomo che sprofonda nell’oblio le cose gloriose dei tempi andati.
Sul sepolcro sedeva una figura, a gambe incrociate, le mani posate placidamente sulle ginocchia, nera quanto era bianco il mondo che la circondava. Nere erano le vesti, neri erano i lunghi capelli che incorniciavano un viso pallido, cadaverico, dai lineamenti duri eppure gradevoli, nero l’ unico occhio che scrutava il nulla davanti a se. Stava seduto li da lungo tempo, visto che non vi erano orme impresse nella neve intorno e sulle spalle larghe e tra i capelli si era adagiato uno strato di brina. Era giovane, forse poco più di vent’anni, piccolo e tarchiato di statura, la pelle cinerea. Sedeva tranquillo, il capo leggermente chino, respirava lentamente. Il freddo, la temperatura sensibilmente al di sotto dello zero non gli dava fastidio, anzi, favoriva la sua concentrazione. Meditazione. Ricordi.
Si concentrò e mosse le labbra impercettibilmente. Non osava rompere il silenzio del cimitero. Non per primo. Avrebbe mancato di rispetto a coloro che vi riposavano, e i defunti erano tra le poche entità che riteneva degne di deferenza. Sentiva di non essere solo, altro da fare non c’era se non attendere che le essenze del cimitero si manifestassero ai suoi occhi.
:”Ainath.” fu con questa parola che il silenzio fu incrinato. Poco più di un sussurro. Darimar sollevò leggermente lo sguardo e fu con grande piacere che scorse davanti a se una figura alta e sottile, di una sfumatura imprecisata di verde, debolmente rilucente, semitrasparente ed assolutamente eterea. Il defunto portava vesti lacere, quella che un tempo era stata una tunica druidica, stivali di morbida pelle e un corto mantello ridotto in brandelli. Il volto dell’ anima errante era di un uomo sulla quarantina, segnato dalle rughe di chi ha condotto una vita dura, corti capelli e una barba ben curata. Un’apparizione simile, che avrebbe destato sconforto e terrore in un uomo qualsiasi, Darimar la accolse quasi con gioia. Dal saluto che gli era stato rivolto, “ainath”, il giovane dedusse che doveva trattarsi di uno spettro di un sacerdote della tribù degli Umali, popolazione vissuta più di un migliaio di anni prima.
:”Ainath. Benarrivato tra i viventi.” ricambiò Darimar in un sussurro. La sua voce era fredda e tagliente come il vento che gli sferzava il volto e faceva lacrimare il suo occhio, e al contempo profonda e calda, come una brace ardente racchiusa in un cristallo di ghiaccio..
:”Di vivente non scorgo alcuno... il vostro cuore batte forse più flebilmente del mio, il quale non dà battito alcuno, se capite cosa intendo.” il morto parlò con voce profonda e sicura, niente a che vedere con le descrizioni dei fantasmi nelle fole per bambini, dove le voci sono sempre strascicate e riecheggianti, come se venissero da spazi lontani.
:”Intendo ciò che intendi. Dimmi, qual è il tuo nome?” chiese Darimar.
:”Vi dimostrate rispettoso e beneducato nel chiederlo.” si sorprese il defunto.
:”E’ sempre importante conoscere la persona con cui si parla.” il giovane sapeva bene che il nome era per i trapassati una cosa molto importante, tutto ciò che restava loro del periodo terreno che avevano vissuto.
:”Il mio nome è Tamder Arianoth, signore. Grazie per averlo chiesto.” Darimar si limitò a fare un cenno con il capo, attendendo che fosse l’altro a prendere iniziativa. I morti tuttavia hanno lungho, lunghissimo tempo a loro disposizione, ci volle quindi più di qualche minuto perché si decidesse finalmente a parlare.
:”Ditemi...” cominciò volteggiando intorno al giovane e quindi sedendosi su di una lapide di fronte a lui :”Cosa fa il signore dei morti seduto su questa misera pietra in una notte così arida di vita e restia a lasciar tali i viventi?”
:”Il mio nome è Darimar Dahu e se codesta pietra sia infima o meno sarò io a deciderlo.”
:”Il vostro nome conosco bene, signore, giacché lunghe e numerose sono le notti che trascorreste insieme a noi, seduto dove siede ora, per lunghe ore a intavolare complesse e mute circoscrizioni di realtà e pensiero con coloro che meglio di chiunque altro ascoltano e consigliano. Cosa cerca dunque, signore dei defunti?”
:”Cerco risposte ai miei quesiti. Per questo siedo qui da lunghe ore pregando che uno di voi mi conceda il suo sapere.”
:”Non ‘era bisogno alcuno che voi steste ad attendere.”
:”No, non v’era bisogno alcuno.”
:”Avreste potuto costringermi a rivelarmi.”
:”Avrei potuto.”
:”Avreste potuto richiamare in vita il mio corpo dimenticato.”
:”Avrei potuto.”
:”Potreste facilmente soggiogarmi.”
:”Potrei.”
:”In questo consiste la vostra arte.”
:”In questo consiste.”
:”E allora, di grazia, perché non lo fate?”
Darimar abbozzò un sorriso :”Potrei strappare il tuo spirito dal corpo e costringerlo a rispondere alle mie domande, potrei far rivivere il tuo corpo putrefatto e farlo danzare come un burattino e strisciare nel fango, infimo schiavo capace solo di ubbidire al mio volere. Ma non qui. Non ora.”
:”Altro non chiederò.” lo spirito restò immobile in attesa di essere interpellato.
:”Dimmi, antico saggio, tu saresti in grado di uccidere il tempo?”
:”Ha il mio signore da uccidere il tempo?” rispose lo spettro incuriosito.
:”Ho da uccidere il tempo.”
:”Proposito difficile. Quale tempo va cercando di uccidere?”
:”Un tempo fatto di ossa e carne e sangue. Kronos.”
:”Capisco.” sussurrò il morto cogliendo il gioco di parole. :”E per quale motivo lo va cercando in questi luoghi sperduti?”
:”E’ il suo ricordo che vado cercando. E voi siete i custodi dei ricordi.”
:”Questo è corretto. Ma siete in cerca di risposte oltre che di ricordi.”
:”Oh, si. Alcune celate dentro di me, altre celate nel futuro. E di ciò intendo interpellarti.”
:”Parli, signore, e io risponderò.” Darimar restò in silenzio qualche istante, sapendo che i defunti sanno grandi cose, ma non rispondono a domande comuni. Certo, poteva costringerlo a dire tutto, ma preferiva di gran lunga il dialogo tranquillo seppure intricato agli interrogatori. Si accinse a porre un quesito in modo tale che fosse più consono possibile ai modi e ai gusti dell’anima che gli stava di fronte. Sapeva anche che i morti non potrebbero rivelare né il futuro né segreti dell’aldilà e che se lo fanno o è perché non ne possono fare a meno oppure per cortesia e interesse verso il loro interlocutore. Vanno tuttavia incontro alla distruzione se svelano troppo, quindi si ripromise di non spingersi molto in là con le richieste. Non gli piaceva l’idea di dissipare un’essenza di tempi tanto remoti.
:”Il sangue che non ha mai bagnato queste mani, che non è mio eppure scorre pure nelle mie vene, dove si trova?”
:”Dove lo lasciasti l’ultima volta.”
:”Ma il sangue che non ha mai bagnato queste mani, che non è mio eppure scorre pure nelle mie vene, quanto lontano è dall’ essere versato?”
:”Ora si trova molto in alto, difficile versarlo, lontano da te per come intendi spargerlo tu se non cambierai modo.”
:”E queste mani si macchieranno mai del sangue che non le ha mai bagnate, che non è mio eppure scorre pure nelle mie vene?”
:”Questo è molto difficile a dirsi. Il cervo che vai cacciando è in una selva ricca di lupi, orsi e altre bestie feroci e pericoli nei quali può cadere morendo così per cause a te estranee. Certo è che il suo sangue lambirà le tue dita, in un modo o nell’altro.” Darimar sospirò. Come sempre, quelle discussioni significavano tutto e niente. Fece un cenno d’assenso con il capo.
:”Ti congedo, mio buon amico. Torna a riposare, o dove meglio credi.”
:”Come vuole, mio signore.” Dopo essersi esibito in una piccola riverenza, lo spirito si dissolse poco a poco, venendo riassorbito all’ interno del terreno dal quale era emerso.
Il giovane restò in silenzio ad osservare i residui di luminescenza che l’anima aveva lasciato dietro di se svanire poco a poco, finché fu di nuovo solo, solo con il gelo e la nebbia.
Oramai quella era la sua casa. L’aria densa del rancore dei trapassati, la sapienza delle stirpi antiche, la decomposizione dei corpi del tutto simile a quella che gli corrodeva il cuore e l’anima. “Amici miei” pensò amaramente “Siete la mia unica famiglia. Siete gli unici che non mentite mai. Non mi disprezzate e non mi temete. Non mi accusate e non mi giudicate se non per quello che sono.” a questo punto si sentì in dovere di aggiungere “Per quello che sono diventato.”
Trasse due profondi respiri e sentì l’aria gelida bruciargli in gola. Si sfilò i neri guanti posandoli accanto a se e si guardò i palmi le mani. Mai grandi, forti, tuttavia capaci di grande sensibilità. Si illuse per un momento che tutto fosse solo un sogno, un incubo terribile, ma non appena sfiorò un polpastrello con il pollice avvertì distintamente la pelle indurita dai calli dovuti ai finimenti da cavallo impugnati nei lunghi viaggi, e soprattutto all’ utilizzo della falce, quello strumento che in tempi di pace serve solo a tagliare il grano e a sfamare le genti della terra e che lui utilizzava invece per mietere vite. Le sue mani erano coperte di sangue, un sangue che nessuno ormai avrebbe più potuto tergere. Quante vite avevano stroncato? Quanti corpi avevano mutilato, seviziato, ucciso? Si guardò i dorsi. Da quando gli erano state strappate, le unghie erano ormai ricresciute lucide e robuste, ma nella carne numerose cicatrici che vi biancheggiavano impresse. Alla loro vista concluse che tutte le morti da lui consumate non erano ancora abbastanza.
Si tolse quindi il lungo cappotto di pelle nera dal caldo interno impellicciato, unica difesa sufficientemente efficace contro il rigore spietato di quelle terre, e lo lasciò cadere nella neve. Similmente fece con il maglione di pesante lana e la maglia. Restò così a petto nudo, indifeso contro le sferzate del vento e la morsa del gelo.
Tutte le pari del corpo ora visibili, schiena, spalle, petto, braccia, ventre, erano interamente segnate da profonde cicatrici. Segni di tagli, abrasioni, ustioni e frustate, punti dove la pelle si faceva più chiara a ricordare che da lì era stata strappata senza pietà. Cicatrici di fori, di carne strappata o corrosa. Un corpo che destava orrore, paura o compassione, un corpo che portava tutti i segni di torture feroci e spietate. Sulla scapola destra una grande “N” marchiata a fuoco lo catalogava come reo di uno dei peggiori crimini commettibili.
Darimar toccò quei segni che gli incidevano il corpo e fomentavano il suo rancore e la sua sete di vendetta. Socchiuse l’occhio, l’unico che gli fosse rimasto e si abbandonò ai rimorsi e ai sensi di colpa. Mentre sentiva il soffio del vento su di se e il suo corpo si faceva sempre più intirizzito e insensibile, il suo pensiero tornò alla sua famiglia, ai volti dei suoi genitori e riuscì a provare ancora una fievole sensazione, un’infinitesimale rimembranza di tutto l’amore che nell’adolescenza provava per loro, come un luccichio distante. I ricordi galopparono risalendo il fiume del tempo e tornarono alla sua casa, ai suoi natali.

La sua famiglia non era molto ben vista nel villaggio dov’era nato. Antichi pregiudizi, come sempre, stavano alla base delle faide. Ufficiosamente tutti pensavano si trattasse di una famiglia di stregoni, solo per il fatto che conoscevano l’arte delle erbe ed erano persone di grande sapienza. Darimar ricordava bene come il parroco del villaggio gli stesse accanto sin dai primi anni di vita, cercando di convincerlo ad abbandonare quel covo pregno di puzzo di zolfo, come definiva la sua casa, e di entrare in convento. Avrebbe potuto diventare monaco, sosteneva, chierico, oppure, se più lo attiravano le arti belliche, cavaliere. Ma lui detestava quell’ uomo. Così alto e magro, dai toni melliflui, gli aveva sempre ricordato una serpe. Su di lui quelle lusinghe non avevano avuto alcun effetto, così il religioso ci aveva rinunciato e, piccato nella fede, aveva cominciato a spargere a piene mani maldicenze che si accavallavano a quelle già esistenti. Quel bambino era di certo un piccolo demonio sordo alla voce di Dio. Ma aveva trovato un terreno molto più fertile in suo fratello. In lui il parroco aveva piantato sapientemente il seme del dubbio, alimentandolo con l’acqua della dottrina, tanto che a soli dieci anni il bambino aveva espresso non il desiderio, ma la ferma volontà di recarsi a studiare al grande convento della capitale del regno e i genitori lo avevano lasciato andare di buon grado augurandogli ogni genere di fortuna, pur sapendo che in questo modo si sarebbe allontanato da loro in maniera forse definitiva.
Ma negli anni trascorsi era chiaro che mentre uno dei fratelli si avvicinava alla chiesa sempre più, l’altro se ne allontanava in eguale misura. Presto Darimar si era infatti accorto di essere il portatore di un dono pericoloso in quei tempi bui. Fin da piccolo aveva sempre udito strane voci intorno a lui, sia pure sporadicamente e solo in alcuni luoghi, ma non lo avevano mai spaventato. Con la maturità lo aveva confessato ai genitori, rendendosi conto di cosa effettivamente si trattasse. Parlava con gli spiriti. Sapeva che questo era un male, sapeva che le anime dei defunti erano sacre e non andavano toccate, sapeva che era un’arte malvagia. Il parroco era stato molto chiaro al riguardo. Ma non lo aveva chiesto lui, non lo aveva mai desiderato, eppure di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno, il potere si faceva sempre più forte, e poco alla volta il ragazzo aveva scoperto quanto fosse suadente la possibilità di dialogare con i defunti.
Per quanto i genitori avessero cercato di nasconderlo, tutti al villaggio erano a conoscenza di queste sue capacità, tutti sapevano che sovente si recava al camposanto, taluni sostenevano persino che mentre camminava tra le tombe i fuochi fatui accorrevano intorno a lui, come cuccioli smarriti al ritorno della madre. Alla fine era accaduto ciò che serpeggiava da tempo nell’ aria come un’elettricità maligna che non attendeva altro se non di mutarsi da staticità in folgori.
Una notte, un’orribile notte, un gruppo di sicari si era introdotto nella sua casa. Darimar era stato svegliato da una mano che gli serrava il collo, imbavagliato e costretto ad assistere allo spettacolo più crudele al quale si possa sottoporre un ragazzo. I suoi genitori, i suoi amati genitori erano stati condotti di fronte a lui. Ed entrambi, uno dopo l’ altro, erano stati sgozzati come porci. Darimar ricordava ancora l’ultima scintilla di vita negli occhi scuri della madre e in quelli ancor più neri del padre, poi l’unico scintillio era stato quello dei pugnali. Non aveva potuto fare nulla. Poi un feroce colpo in testa lo aveva stordito ed era stato lasciato lì, mentre gli uomini si dileguavano nella notte e l’ultimo di loro appiccava il fuoco alla casa.

“Perdonatemi.” pensò Darimar, ora inginocchiato sulla lapide e consumato dalla vergogna e dalla colpa opprimente.
“Perdonatemi se potete... madre, padre... è stata tutta colpa mia... è stata tutta colpa mia...” implorava il perdono degli spiriti dei genitori, spiriti che non aveva mai trovato. Sapeva che era così unicamente perché non erano rimasti a vagare nel limbo ed erano ascesi ad un’altra esistenza e questo non gli dava pace.
“Se solo non fossi mai nato... se non fossi mai esistito tutto sarebbe stato migliore... dovevo morire io al posto vostro, io, che non sono meritevole di altro...” Il suo dono maledetto non gli permetteva neppure il conforto della vista degli unici volti che lo avevano confortato per lunghi anni, supplicava venia e giurava vendetta e forte, inarrestabile lo colse lo sconforto, la disperazione, ma nel mentre i suoi ricordi tornavano ancora una volta a danzare di fronte ai suoi occhi...

Immediatamente, troppo subitanei perché non fossero preparati, erano intervenuti gli uomini del villaggio e avevano trovato quel ragazzo appena diciassettenne eppure tanto temuto benché non avesse mai fatto del male a nessuno, chino sui corpi senza vita dei genitori, il volto deformato in una smorfia nella quale si mescolavano odio, disperazione e disgusto, lordo di sangue nelle vesti e nel volto.
Spaventato, confuso, vittima di un complotto che si dipanava lineare sotto ai suoi occhi, ma incapace di credere a ciò che era successo e che stava accadendo tutt’ora, era stato incarcerato nei sotterranei della capitale del regno, accusato di omicidio, arti proibite, colloquio con il demonio.
Proprio lì si era trovato nuovamente di fronte a suo fratello. Kronos.
Aveva due anni meno di lui ma le pressioni e gli indottrinamenti della chiesa lo avevano trasfigurato in poco tempo in un fanatico, timoroso di Dio, pronto ad accendere roghi non appena percepiva il sentore di eresia o magia nera. Invecchiato precocemente, privato dei suoi ideali e del suo amore per il fratello, era solo quindicenne eppure aveva desiderato occuparsi personalmente di lui. Vi si era accanito con furia, ma non era riuscito a portare a termine il suo compito di redenzione, non era riuscito a fargli rinnegare ciò in cui credeva, e quando si era reso conto che nel corpo del fratello non restava che un alito di vita, che non sarebbe riuscito a sopportare un’altra singola percossa, si era arreso all’evidenza che non sarebbe mai riuscito a piegarlo. Quindi gli aveva risparmiato la vita, ricordandogli che avrebbe dovuto essergli eternamente grato se non lo mandava a bruciare prima tra le fiamme di una pira e successivamente tra quelle infernali. Lo aveva portato al di fuori delle mura della città e lo aveva abbandonato in mezzo alla neve, straziato, mezzo cieco, il corpo rotto vittima di innumerevoli torture ormai incapace persino di gridare di dolore. E questa era misericordia fraterna, aveva sostenuto, però se solo gli avesse messo nuovamente le mani addosso o lo avesse colto ancora ostinato a perpetrare le sue demoniache arti, sarebbe stato costretto a sopprimere i suoi sentimenti di carità e non gli avrebbe dato un’altra occasione.
Aveva agito così per salvargli la vita? No. Kronos sapeva che suo fratello avrebbe preferito la morte a una simile umiliazione. E quel gesto di pietà era stato il massimo spregio che avesse potuto escogitare. E d’altronde il fuoco del rogo lo avrebbe purificato, mentre Kronos desiderava che la sua anima vagasse in eterno in un limbo di sofferenza. Non era riuscito neppure in questo. Lo aveva però condannato ad una vita di rancore, una vita da reietto, da emarginato, una vita a metà. Era sopravvissuto e aveva affinato con uno studia forsennato le abilità latenti in lui. Darimar ricordò a se stesso che quello non era più il suo consanguineo. Era un paladino come tanti e forse peggiore di altri, accecato dai sogni di gloria per la vera fede, ligio al suo dovere di servo religioso, che tutti acclamavano come grande eroe e liberatore ma che non era in realtà meno spietato di lui. Ma le atrocità commesse dietro la maschera della fede erano ammissibili, elogiabili persino, torturare e bruciare coloro che non condividevano alcune idee considerate importanti era una cosa giusta e buona. Tutto ciò rendeva grande il regno e la chiesa, mentre il parlare con i morti era una colpa tanto grave da rendere il reo meritevole delle peggiori sevizie.

I pensieri di Darimar tornarono prepotentemente alla realtà. Si toccò la benda sull’ occhio destro, sotto alla quale non v’era nulla se non un’orbita vuota, un pozzo nero privo di vita. La mutilazione che più gli bruciava, l’umiliazione che ancora gli infiammava i visceri subita dal sangue del suo sangue.
Non era colpa sua se le sue mani ora grondavano sangue il quale gocciolava, denso, corposo e invisibile sulle sue gambe e sull’ insensibile pietra. Lo avevano plasmato tale qual era, avevano annientato i resti della sua umanità e ora ne avrebbero pagato le conseguenze. Nessuno di loro meritava di vivere. O forse si, forse anche loro erano stati condizionati a reprimere tutto ciò di cui avevano paura, che non concepivano. Ma a questo punto non gli importava più. Avrebbero pagato fino all’ ultima goccia gli affronti perpetrati, a cominciare da suo fratello.
“Che tu sia maledetto!” pensò con furia “Che siate maledetti tutti voi!” E in quel momento sentì che il mostro dell’odio, un odio profondo, cieco, un odio capace solo di portare distruzione e terrore, si svegliava ancora in lui e tornava a tormentarlo. Saliva dal profondo del ventre, sentì che gli colmava il petto e si arrampicava lungo la gola, ne fu quasi soffocato, e non riuscì a trattenerlo oltre. Il suo urlo di odio cominciò con un gorgoglio, un basso ringhio, per esplodere infine in qualcosa che di umano aveva ben poco. Gridò e le sue labbra indurite dal freddo si spaccarono in più punti, riversando minuscoli rivoli di sangue sul mento. E insieme all’ urlo salirono da tutti i sepolcri le anime dei defunti e da tutti gli anfratti fuoriuscirono i fuochi fatui. Il giovane non risparmiò loro alcuna sofferenza, il suo odio dilagò nell’ oltretomba, corrodendo le viscere dei morti come può fare l’acido alla carne. Gridava il giovane il suo odio, il suo dolore, la sua ira al mondo, e gridavano le anime di dolore riflesso, formando un vortice intorno a lui, turbinando ed aggrovigliandosi, contorcendosi in una sorta di girone nel quale nessuna di loro poteva sottrarsi a quella tremenda agonia, nulla potevano fare se non subire quel odio spietato; e tutto il cimitero venne rischiarato dalla spirale di anime che si protendeva al cielo, ogni pietra venne scossa dalle loro grida straziate e per un attimo tutto quello che contava era nient’altro che il dolore, lo stato del nonsenso assoluto che annienta ogni fibra del nostro corpo, che strazia ogni singolo nostro nervo, che spinge anche l’orgoglio più ferreo a piegarsi e supplicare che tutto finisca al più presto.
Poi d’improvviso l’ondata di furia cessò, repentina a svanire quanto lo era stato ad esplodere. Darimar cadde stremato sulla gelida pietra; la sua forza vitale, le sue sensazioni e persino i suoi ricordi assorbiti dalla bestia famelica e vorace che risiedeva nel suo petto e che tutti noi chiamiamo con il nome di odio. L’odio aveva portato via tutto, lasciandolo ancora una volta come un guscio vuoto, inerme eppure carico di se stesso. Tremava e respirava a pieni polmoni l’aria cimiteriale, colmandosene il petto e il cuore, sorbendola avidamente come un assetato nel deserto, lasciando che il suo corpo si riempisse della quintessenza del trapasso e della decomposizione. Chiuse gli occhi e perse conoscenza, riverso sui nodi dell’ intreccio celtico che decorava l’antica croce incisa nella pietra sepolcrale. Intorno a lui danzavano gli spiriti e i fuochi fatui nelle loro eteree vesti lacere, taluni sfioravano il corpo del giovane, le vecchie cicatrici e i loro antichi rancori, giocavano con e tra i suoi capelli corvini, penetravano in lui imprimendo nella sua anima il loro sapere avvelenato, dacché insieme ad esso, legato a doppio capo, vi era il loro astio ancora vivo più che mai, rendendo così l’anima e il cuore di chi riceveva questo dono un poco più nera ad ogni tocco; i più tuttavia restavano immobili, lo sguardo fisso su Darimar o volgendolo lentamente d’intorno, vegliando alacremente il suo sonno tormentato.
Così giaceva il signore dei morti, perso in un bianco mondo di nebbia ed oblio, adagiato su di una lastra di tempi immemori gelida quanto la morte stessa.

Passava da quelle parti un cacciatore, il quale cercava di catturare qualche buona preda con il favore delle tenebre.
Volgendo lo sguardo al camposanto l’uomo vide chiaramente la luminescenza verdastra che il luogo emanava e un brivido di paura e repulsione gli corse lungo la schiena. Ai cancelli sconnessi del cimitero era legato un enorme e possente cavallo nero il quale, si accorse l’uomo con un moto di terrore, guardava proprio lui, con occhi verde veleno, lucenti nella notte come quelli di un gatto o di qualsivoglia altra fiera notturna. Scrollò la testa e nitrì, quasi un ammonimento a non andare oltre.
Non aveva bisogno di altre conferme. Si fece il segno della croce e tornò sui propri passi quasi correndo e biascicando qualche parola che gli avevano venduto come santa, poiché sapeva bene ciò che quanto aveva appena visto significasse.
Il negromante era al cimitero.

 
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