torna al menù Fanfic
torna indietro

MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: TORNANDO AL CAMPO
Genere: Sentimentale
Rating: Per Tutte le età
Autore: artemisia89 galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 06/09/2006 11:24:20

e` un tributo per qualcosa che se ne sta andando. e` un modo per tenerlo+vicino. e` dedicato alla mia famiglia, è parte della nostra storia..
 
Condividi su FacebookCondividi per Email
Salva nei Preferiti
   
TRIBUTE/CONTINUO DEJA VU
- Capitolo 1° -


Dunque, come ho premesso questo è essenzialmente un tributo alla mia infanzia che se ne sta andando via.
Alla mia, a quella dei miei cugini, che per sono stati come fratelli, a volte anche come fidanzati. Sono stati un pò di tutto per la verità.

Questa shot, questo tributo, è scritto senza veli. C'è solo verità in questa pagine. Nomi, sensazioni, ricordi, tutto è vero, per mia scelta.
Mi hanno detto che avrei dovuto tenerlo per me, ma ho la sensazione che sia giusto farlo conoscere anche a voi, cosa significa diventare grandi, abbandonare i luoghi dell'infanzia ad un destino non molto romantico, non saperne più niente, coprirsi gli occhi.

Sono sicura che non capirete abbastanza delle cose che ho scritto, ma forse le rivivrete in voi. Perchè forse, le esperienze che ho vissuto io, sono vicine a quelle che avete vissuto sulla vostra pelle.
E se anche non lo fossero...ripeto...è un tributo.

Con tutta me stessa, questa volta.

Artemisia



Tornando al Campo



Quando mia madre mi disse che dopo le commissioni del pomeriggio avrei dovuto accompagnarla al Campo per fare alcune pulizie per l’arrivo di una famiglia di turisti a cui avevamo affittato l’appartamento, repressi a stento uno sbuffo sonoro e maleducato.
Non avevo la minima voglia di mettermi al lavoro in quella casa polverosa e piena di ragnatele, soprattutto con quel caldo e con l’umore seccato che avevo.
Ma non potevo negarle una simile richiesta a causa di alcuni favori che mi aveva concesso qualche giorno prima, così non protestai oltre, indossai i pantaloncini, delle ciabatte comode, feci una coda alta e la raggiunsi in macchina, attraversando il giardino, stando attenta a non macchiarmi con gli acini che ritmicamente cadevano al suolo dai grappoli d’uva della vite.

Sbrigammo in fretta i nostri giri, sotto il sole appena velato di quell’Agosto così atipico ma forse così normale.
Tante erano state le giornate di pioggia e di strano vento freddo che costringeva i bagnanti a ritirarsi da mare e guastava le loro serate in centro: li vedevamo avvolgersi in giacche di filo troppo leggere e rabbrividire con le loro vesti di cotone e lino egiziano, mentre sorseggiavano una bibita nei bar e nei locali a picco sulla Costa.

Quel giorno così, dopo poco meno di due anni tornai al Campo vecchio.
Il primo deja vu, mi assalì quando la macchina percorse la piccola discesa che era l’entrata del nostro terreno, e quando gli occhi si posarono sul grande cancello verde, un po’ arrugginito, malandato dagli anni e dalle intemperie, dai giorni di pioggia, dai giorni di sole.

Scesi dalla macchina e mi affacciai per cercare le rose selvatiche che crescevano spontaneamente sul pendio, ma non ne trovai alcuna, se non qualche residuo di secche corolle spoglie di petali.
Mi ricordai di quelle giornate di Maggio in cui quel groviglio di rovi ritornava ad essere uno splendido mondo di colori e di profumi.
“Non torneranno mai più” pensai.

- Vieni Chiara!
La voce di mia madre mi riportò alla realtà e mi costrinse dolcemente a seguirla, così tolsi il chiavistello del cancello, prendemmo le buste con i detersivi e le pezze per la polvere e ci incamminammo sulla strada selciata, su quella salita che i miei piedi conoscevano troppo bene.

L’ultima volta che venni al Campo era stato per organizzare una festa di Halloween qualche anno fa, precisamente nel 2004, ed essendo notte, non feci molto caso a quello che mi circondava, ma quel giorno, tutto il Campo era inondato di sole e allora mi vennero in mente tutte le giornate che da piccola ero solita trascorrere insieme ai miei cugini, quando ancora era vivo quel bel cane che era un incrocio tra un volpino e un pastore.
Quel cane si chiamava Coran e aveva una bella pelliccia nera con una grande macchia bianca lungo il petto.
Quando mi vide la prima volta mi abbaiò contro a lungo, ma poi si abituò alla mia presenza e arrivò anche a desiderarla. Appena avevo un attimo di tempo libero andavo a giocare con lui, facendolo saltare nella sua gabbia – perché in una grande gabbia di ferro era rinchiuso – per farmi perdonare di non poterlo liberare.
Gli lanciavo del cibo e lo facevo giocare con delle chiavi, adorava farsi accarezzare e si accucciava a terra per permettermi di passare la mano tra i quadrati di ferro e fargli delle carezze sulla schiena.
A lungo guardavamo insieme le macchina correre nella strada.
Aveva degli occhi dorati che sembravano brace.
Nel suo ultimo pasto, Michele disse che doveva essere caduto del veleno.
Morì durante la notte, lo ritrovarono all’alba.

- Chiara, vuoi muoverti?!

Senza accorgermene ero rimasta a guardare con occhio triste la gabbia di ferro ora vuota, e lo spiazzo in cui eravamo soliti riunirci con gli zii dopo pranzo per bere del latte di mandorla freddo, o mangiare della buona anguria fresca e succosa come la migliore tra la frutta di stagione.
All’epoca c’erano delle belle sedie e tavolini di vimini intrecciato e molto tempo addietro avevamo appeso anche una bella amaca bianca.
Io e i miei due cugini, Lucia e Diego, facevamo sempre a gara per raggiungerla e dondolarci, ridendo degli scherzi fatti durante la giornata, addormentandoci e cedendo alla calura estiva.

L’amaca è sparita da molto, molto tempo, e le sedie, tutte sfondate e tarlate sono state accantonate ad un angolo, ma i tavolini ci sono ancora, bruciati in parte, ma ci sono ancora.

Affrettai il passo e salii la lunga salita di strada selciata su cui facevamo correre le nostre piccole biciclette – i biondi capelli al vento di Lucia, i suoi occhi perennemente meravigliati dello stesso colore del cielo, il sorriso furbo di Diego, i suoi scherzi innocenti - , le sterlizie erano tutte seccate e sfiorite, ma c’era ancora qualche rosa del rosso più cupo e più vellutato, come sicuramente non ne vedrò mai più in vita mia.

Mamma, con la sua figura piccola ma dinamica, aveva già riaperto la porta della casa grande e mi incitava a seguirla, così portai dentro tutto l’occorrente per le pulizie, ma prima di farlo salutai i vecchi coniugi che abitavano la casa piccola da innumerevole tempo, Chicca e Michele.
Loro c’erano sempre stati.

Entrata in casa e immediatamente respirai il profumo acre e soffocante della polvere, così corsi a spalancare tutte le finestre per lasciar entrare aria e luce, che avrebbe spazzato via la calura soffocante in cui aveva preferito chiudersi il turista precedente.
Fu il mio riflesso allo specchio, la prima cosa che mi accolse, alla mia entrata nella casa grande.
Che stranezza, pensai, lo specchio adesso riflette una diciassettenne, ma in quel vetro riscaldato dal sole c’è ancora quella bambina di sei anni con quell’abito bianco tutto trine e merletti, troppo accollato per quell’estate così calda, con quella fascia alla vita di un giallo sole che risplendeva ogni volta che la luce la sfiorava.
E quei capelli tutti sudati e spettinati in quel viso accaldato! Che risate mi feci quella sera di 11 anni fa…di chi era il compleanno? Di Adriano forse…

Entrai nelle camere e cominciai a spalancare finestre e porte, prendemmo in mano le scope e ci rimboccammo le maniche: mentre io mi sbracciavo per raggiungere il soffitto e togliere tutte le ragnatele che si espandevano a velocità esponenziale, mia madre mi seguiva pulendo a terra.
E poi sotto i mobili, quei divani in pelle su cui eravamo soliti sonnecchiare, dentro gli armadi che utilizzavamo come nascondigli durante i nostri giochi compiuti troppo spesso ad orari indecenti.
E poi…quel letto a castello ora smontato: quanti litigi per decidere che dovesse stare sopra! Quante volte la nonna ci nascondeva la scala per evitare che nascessero alterchi!
Fu lì che ci nascondemmo indifferenti quando come dei veri teppisti compivamo i nostri tiri mancini, quando, ad esempio, con i nostri cellulari facevamo squillare il telefono della povera Chicca e la facevamo salire stancamente nella calura del pomeriggio dalla “sipala” fino alla sua casetta, la penultima della fila, tra la casa grande e quella piccola, perennemente solitaria, destinata a qualche turista o a qualche parente di passaggio – una cucina, un bagno, una camera da letto, e questo è quanto - .

Cominciai a cantare qualcosa, non ricordo nemmeno cosa a dirla tutta, forse qualcosa come la via prosegue senza fine, lungi dal l’uscio dal quale parte, ora la via è fuggita avanti, devo inseguirla ad ogni costo e cose del genere, fattostà che cantando il tempo passò velocemente e finimmo in fretta di pulire.
Ma il tempo, quando si comincia a ricordare, è un tempo strano.
Sembra quasi dilatarsi, è un tempo onirico.

Sciacquai la pezza nel lavandino. Dov’era la pompa? Mi chiesi tutto ad un tratto. La pompa di gomma che era la nostra arma preferita per combattere il caldo estivo, quella che prendevamo di nascosto e che poi ci toglievano dalle mani mentre urlavamo e ridevamo, tutti e tre bagnati fradici dalla punta dei capelli ai piedi. E poi sempre il solito dolce – dipendeva, diciamocelo – richiamo: “Non sprecate l’acqua! Chiudete il rubinetto”

Sorridendo tra me e me chiusi veramente il rubinetto, conscia dello sguardo severo di Chicca su di me e tornai alla frescura della casa grande, l’odore dell’uva matura cominciava ad impossessarsi nuovamente di quelle mura stanche.
Quell’odore c’era anche quando mio padre, una notte di fine agosto, mozzò la testa a quella serpe che si annidava tra le ruote delle nostre auto, parcheggiate nella piccola discesa antecedente al cancello verde.
Un colpo, e la testa volò via, mozzata. O si muoveva ancora? Era troppo buio per accertarsi, e io avevo veramente una fifa blu – o forse era la paura riflessa di mia madre? – ma mio padre giurò di averla vista scivolare via tra l’erba alta, nella notte.


Rifacemmo i letti, dando parvenza di ordine alla camera grande, quattro letti uno di fronte all’altro, tutti con coperte coloratissime, poi, dopo aver dato un’ultima controllata generale alla casa, chiudemmo definitivamente la porta di legno scuro dietro di noi.
Fu l’ultima volta che oltrepassai quell’uscio di pietra bianca, quegli scalini dove stavamo seduti o inginocchiati in posa per le annuali foto di rito dei nipoti.

Crescendo, cambiando, ogni anno, inesorabilmente.

E quella ringhiera bassa, su cui stavamo in piedi, in equilibrio, o che scavalcavamo per raggiungere prima Michele mentre ci mostrava come abbeverare il terreno – quell’acqua che tramite sentieri già prestabiliti sembrava un bellissimo fiume. Brillava tanto, a qualsiasi ora del giorno, la sua patina incolore sulla terra bruna - .




Mentre scrivo, le trattative di vendita del Campo si sono concluse.
Mia madre e i suoi fratelli hanno raccolto tutto ciò che si poteva evitare di buttare: quei pochi soprammobili rimasti, pentole, vasi, porcellane, mobili, intere camere da letto, il letto a castello soprattutto – quello è finito nella camera degli ospiti di zia Romana, e non poteva essere altrimenti. Quella è la camera dei nipoti e devo ammettere che piccolo piccolo, messo all’angolo fa la sua figura, sembra quasi noi - .
Tutto il resto è stato rotto e buttato e a quanto mi dicono è stato doloroso fare ogni cosa, ma si è proceduto come automi senza coscienza.
Io non ero in casa, sono scappata per meglio dire.
Mi sono trovata tantissimo da fare e non mi sono fatta vedere per tutto il giorno.
Quando sono tornata a casa era ormai sera e la mia unica domanda fu: “ E le rose?”
Se non potevo più averle avrei preferito bruciarle tutte quante, fino all’ultimo bocciolo. Sarebbero perite per mano mia e per quella di nessun altro, se così non poteva essere.
“Le rose? – disse mia madre senza nemmeno alzare gli occhi verso di me – Le porteremo via da lì, prenderemo tutti i roseti e li pianteremo in giardino.”

Tirai un sospiro di sollievo.
La memoria del Campo, di quell’infanzia trascorsa a giocare, a piangere, ad offendersi per un niente, a fuggire, a urlare, a vivere, era salva.

In quelle rose, nei miei, nostri ricordi, in cuori che andranno lontano ma che non dimenticheranno.





A Diego e Lucia, miei compagni di giochi, miei carnefici, le prima persone che ho amato e odiato contemporaneamente e che ancora oggi non smetto di conoscere.
A zio Lello, zia Romana, zia Teresa…perché non ho dimenticato quelle giornate trascorse a pelare pomodori, tutti quanti insieme, come se fosse un rito.
A mia madre, che è cresciuta lontano dalla sua famiglia di sangue, tagliata fuori dai ricordi più belli, ma che ha dimostrato tempra più dura di molti altri. Perché non è fuggita e non ha sputato in terra.
A mio padre, che si è occupato di tutte le faccende burocratiche, da sempre, fino ad adesso che la pratica è stata chiusa. Che ha tentato di salvare la baracca, ma che si è dovuto arrendere all’evidenza.
A mia nonna, madre naturale di mia madre, che è morta in quella mattina di grandine del gennaio di sei anni fa, e che stato il vero muro portante di tutta la grande macchina che era il Campo. Dopo te non c’è stato più niente a tenere in vita quelle terra, nonna.
Mi dispiace nonna, tanti sacrifici e adesso si è dovuto vendere, non te la prendere.
È il mondo che decide sempre, lo sai meglio di noi, vero? È il mondo che decide quando si deve morire, della morte che ti aspetta oltre un tornante, la canna fumante. Portare rose nelle strade per un falso incidente, un bel foro nel cranio di un uomo.

È stato bello.


Alla mia strana famiglia.



 
  » Segnala questa fanfic se non rispetta il regolamento del sito
 


VOTO: (0 voti, 0 commenti)
 
COMMENTI:
NON CI SONO ANCORA COMMENTI, SCRIVI IL PRIMO! ^__-
 
SCRIVI IL TUO COMMENTO:

Utente:
Password:
Registrati -Password dimenticata?
Solo su questo capitolo Generale sulla Fanfic
Commento:
Il tuo voto: