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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Manga e Anime
Dalla Serie: Slam Dunk
Titolo Fanfic: LA VITA È UN PENDOLO
Genere: Sentimentale
Rating: Per Tutte le età
Autore: viola19 galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 14/06/2006 22:43:21

``la vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia.``
 
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THAT I WOULD BE GOOD
- Capitolo 1° -

L a vita è come un pendolo

di Viola

“La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con
intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia.” (Arthur Schopenhauer)
L’amore è davvero come lo descrive il filosofo? Nient’altro che illusione?
Nabiki, una ragazza cinica e sprezzante. Eppure allo stesso tempo dolce e fragile. Le sue esperienze
le hanno rivelato una triste verità: niente è per sempre. Questa è la sua storia. E la sua illusione.

Premessa:
Bene..premetto che sarò breve..anche perchè di solito le introduzioni non le legge mai nessuno…
Questa è una storia abbastanza particolare..è qualcosa che mi frullava in testa da un po’, e
finalmente mi sono decisa a metterla per iscritto, o non mi avrebbe dato pace..
Non ho un beta reader (si accettano volontari!), ma a mio parere (e bisogna considerare che io sono
una criticona perfezionista) non è poi così male..
Navigando in rete, io che sono un’appassionata di fanfiction da anni, mi sono resa conto di come 1.
non ci siano mai abbastanza storie di Slam Dunk, o perlomeno storie scritte veramente bene come
vorrei; 2. di come purtroppo si tenda a dare troppa importanza al contenuto, che spesso va dritto al
sodo, piuttosto che alla forma, che si presenta in capitoli magari troppo brevi.
Io sono una grande amante delle storie lunghe e travagliate.
Sono quasi sempre le migliori.
È a quelle che mi ispiro, naturalmente non avendo la presunzione di essere in grado di emularle.
In ogni caso mi farebbe molto piacere ricevere giudizi e commenti, sia positivi (che incoraggiano
sempre) che negativi (purché istruttivi e motivati, i suggerimenti e le critiche sono più che bene
accette)
Ps. Ci troviamo nel liceo Ryonan!
Viola


Capitolo I : "That I would be good”

You
don't know what it's like
When nothing feels alright
You don't know what it's like
To be like me

(Welcome to my life - Simple Plan)



La palla toccò nuovamente terra.
Il ritmico rumore dei palleggi aveva il potere distensivo di calmarla come poche cose.
Anche per questo era lì, in quel campetto sperduto.
Per rilassarsi dopo una lunga giornata.
E per rimanere lontana da casa qualche ora in più, respirando la placida brezza estiva, baciata dal
sole.
I suoi raggi ormai sparivano tra le montagne e il mare, sebbene fossero già le otto passate.
Nabiki si voltò proprio nella loro direzione, fissando l’orizzonte per un momento.
La mente persa in pensieri lontani.
La mano destra che imperterrita imponeva la sua cadenza al pallone bianco.
Era ora di rientrare si disse.
All’improvviso lanciò la sfera in aria. Fece due passi in avanti, e, con un’elevazione impensabile
per una ragazza della sua statura, colpì con forza la palla che in pochi istanti oltrepassò la rete e
s’insaccò nell’angolino sinistro del campo avversario.
Un’ace imprendibile anche per i rivali immaginari con cui stava disputando la sua partita
d’allenamento.

Lentamente raggiunse il palo della rete. Si chinò sullo zainetto azzurro che vi era appoggiato.
Raccolse una tovaglietta e si asciugò la fatica dal volto.
Bevve un lungo sorso e un po’ di stanchezza parve abbandonarla.
L’estate stava sfiorendo, eppure il caldo era ancora imperdonabile.
Raccolse da terra la felpina con cappuccio nike, di un azzurro pallido che eguagliava la glacialità
dei suoi occhi, e la indossò sopra il top dello stesso colore.
Sebbene l’aria fosse afosa, la brezza serale poteva diventare insidiosa essendo la ragazza accaldata.
E Nabiki era tutto tranne che sprovveduta.
Si calò le ginocchiere bianche sulle caviglie e con tranquillità recuperò il pallone che rotolando
aveva raggiunto la recinzione.
Un ultimo sguardo al campetto e al sole morente e in felpa e shorts, borsa in spalla, si avviò verso
casa.




C’era una volta, in una cittadina di nome Kanagawa, una bambina.
Ma “c’era una volta”, forse, non è l’incipit più indicato per iniziare questa storia.
Così iniziano le favole e le favole hanno tutte un lieto fine.
Eppure questa bambina, ormai cresciuta, il suo lieto fine non lo aveva ancora vissuto, ed era stanca
di aspettare qualcosa che non era poi così sicura sarebbe arrivato.

Il suo nome era Nabiki Azuki ed era la figlia del rinomato dottor Azuki, uno dei più illustri
chirurghi della regione.
Proprio il suo lavoro, che pure valeva alla famiglia Azuki tanta agiatezza, teneva il genitore spesso
lontano dalla moglie, rispettabile commercialista, e dalle due figlie, la maggiore Hikari e la più
piccolina Nabiki, appunto.
Per questo motivo Nabiki, sin dalla tenera età, si era abituata alla rada presenza del padre, per cui il
lavoro veniva necessariamente prima di ogni cosa.
Con la madre, che pure era più presente del marito, non aveva mai instaurato quel rapporto di solida
confidenza, che forse la univa più all’altra figlia.
Evidentemente questo era anche dovuto al fatto che Hikari e Nabiki erano quanto di più diverso
potesse esistere caratterialmente.

“Nella media”, forse, è il termine più puntuale per descrivere la maggiore delle due sorelle.
Hikari Azuki era una ragazza acqua e sapone, ma non per questo meno bella di tante ragazze sulle
copertine dei giornali.
Aveva quattro anni e mezzo in più della minore, che avevano determinato, quando entrambe erano
più bambine, un definitivo congelamento della loro relazione, che salvo brevi episodi, non aveva
mai conosciuto picchi di affetto fraterno rilevanti.
Era una ragazza intelligente, ma nei suoi studi non aveva mai eccelso per brillantezza.
Le bastava rientrare nella norma.
Così come nello sport, per cui non prestava particolare intesse.
Da bambina aveva avuto una moderata passione per il basket, che si era affievolita con il tempo, dal
momento che nella scuola superiore che aveva frequentato non esisteva una squadra femminile.
Hikari era al secondo anno universitario.
Aveva scelto, come molti suoi compagni, nella discreta università della città, la facoltà di scienze
giuridiche, e, come molti suoi compagni, non aveva alcuna fretta di prendere la laurea.
Frequentava da ben cinque anni un ragazzo, Genzo Hibiki, che sembrava avere le idee molto più
chiare di lei.

Nabiki, sebbene non stimasse particolarmente la sorella, era da sempre stata invidiosa di lei.
Hikaru era alta, magrissima, biondina e con gli occhi color del cielo primaverile.
E tutti i ragazzi le erano sempre andati dietro, per la sua spontaneità e per la sua semplicità.
A 22 anni erano rare le volte in cui si concedeva un filo di trucco, eppure la si notava ugualmente.
In un certo senso Nabiki soffriva di quel complesso di inferiorità a cui gli psicologi sembrano dare
tutte le colpe delle insicurezze.
E la madre non faceva poi molto per attenuare questo senso di soggezione.

Fin da piccola Nabiki aveva avuto una preoccupante inclinazione per il cibo, alimentata tra l’altro
dalla nonna materna, la quale guardava sorridente la nipote ingrassare, convinta peraltro dalla
credenza popolare che un bimbo tanto più è grasso quanto più è in salute.

In breve tempo, la piccola Nabiki era divenuta così cicciotella da meritare le prese in giro dei suoi
amichetti di scuola, più crudeli nella loro spontaneità di qualsiasi adulto, e le occhiatacce della
madre, che ogni qual volta, sembrava puntualizzare come l’altra figlia fosse migliore di lei.
A raccontarlo sembra quasi fin troppo romanzato.
Eppure troppo spesso la realtà sorprende più della fantasia.


Nabiki, crescendo, si era sentita sempre più inadeguata.
Troppo bassa, troppo grassa. Troppo diversa.

Lei cresceva e al contempo la famiglia perdeva un equilibrio che forse non aveva mai avuto.

Fujiko Azuki era il prototipo di tutto ciò che Nabiki non voleva diventare nella vita.
Era insofferente, invidiosa, presuntuosa ed impossibile.
Ogni cosa, se non fatta come lei avrebbe preferito, era irrimediabilmente sbagliata.
Non le andava mai bene niente.
Aveva il coraggio di lamentarsi persino dello stipendio del marito, che per i suoi standard non era
mai abbastanza ingente.
Niente era mai abbastanza.
Era a causa sua, secondo Nabiki, che la loro famiglia aveva assunto, negli ultimi cinque anni, una
piega irreversibile.
Le liti con il marito, il quale per evitarla rincasava sempre più tardi e partiva sempre più di
frequente, erano più che all’ordine del giorno.
Il peggio dell’intera situazione, e, che più inorridiva la ragazza, era il fingere con l’intero mondo, da
parte dei suoi genitori, che ogni cosa in casa andasse più che bene.
Alle cene con gli amici e nelle serate “in società”, i due si atteggiavano come niente fosse.
Salvo riprendere la guerra fredda una volta rincasati tra le mura domestiche.
Un’assurda e inconcludente commedia per salvare la faccia, riteneva la ragazza, dal momento che la
gente ha il pessimo vizio di non farsi mai gli affari propri e di gioire delle sconfitte altrui.

Nabiki, per tanto, aveva sviluppato uno strano concetto di amore.
Certamente i suoi genitori si erano amati in passato, e ciò la spingeva a ritenere che tale sentimento
fosse eterno solo in quelle fiabe che tanto le piaceva leggere da bambina e che si concludevano con
un solenne “e vissero per sempre felici e contenti”.
La vita le aveva insegnato diversamente.
Come Jacopo Ortis, alla fine del suo cammino travagliato, Nabiki Azuki si era totalmente disillusa.
Cinica e razionale, critica e sprezzante, non perdeva in ogni situazione la sua compostezza, che le
aveva valso nel corso degli ultimi anni la nomea (peraltro inflazionata e poco originale) di regina
dei ghiacci.

Alle scuole medie, liberatasi dei compagni “cattivi”, dopo un’iniziale fase di solitudine, avvenne
qualcosa che le determinò l’avvenire: entrò, quasi per caso, nella squadra di pallavolo.
Naturalmente, grassottella com’era, non si può certo presumere che divenne chissà quale
campionessa in poco tempo.
Partì come riserva in un gruppo tra sempai che guardavano con sdegno le nuove matricole,
soprattutto le più incapaci.
Inspiegabilmente, legò, seppure in principio alquanto timidamente, con una ragazzina, pasticciona
in campo almeno quanto lei.
Il suo nome era Mikiru Ayase, la solarità fatta persona.
E divennero inseparabili.

Ci vollero tre anni, allenamenti intensissimi, supplementi ancora più duri e tanto sacrificio alle due,
per diventare delle vere giocatrici.
Trascorrevano ore e ore in palestra e in quel campetto vicino casa di entrambe.
I loro progressi, sorpresero anche i più scettici.

Era la voglia di rivalsa che sospingeva Nabiki., la quale si era imbarcata anima e corpo in questa
nuova situazione.
Il desiderio di sentirsi adeguata.
Di sentirsi la migliore. Di dimostrare al mondo che l’aveva, secondo lei, giudicata senza ritegno,
che si erano sbagliati tutti.
Che lei era meglio di sua sorella, di sua madre, che tanto la sdegnava, di tutta quella gente piccola
piccola che troppo spesso l’aveva guardata con sufficienza.
Il suo inconscio cercava una salvezza che non aveva trovato.

Inoltre era un altro modo trascorrere più tempo possibile lontano da quella casa, che per quanto
grande, non dissimulava le grida dei suoi genitori, la pesantezza di una situazione insostenibile.

E la voglia di rivalsa, insieme con il temperamento di Mikiru, la indussero allo studio cosciente, per
affermarsi anche come studentessa.
Era sempre stata una ragazza capace, che non aveva bisogno di chissà quanta applicazione.
Era tempo di dimostrare al mondo quanto e cosa si erano persi tutti quanti.

Era fiera di se stessa, concluse le scuole medie.

Più di tutto, era orgogliosa di aver raggiunto una forma fisica, secondo lei, accettabile.
Faticava ogni giorno per il suo obbiettivo.
Aveva giurato a se stessa che nessuno l’avrebbe più fatta sentire non all'altezza.
E si era ripromessa che se tanto importante era l’aspetto fisico, allora lei sarebbe stata perfetta.
Per ridere di coloro che l’avevano fatta sentire un brutto anatroccolo.

Non che l’esteriorità per lei contasse poi molto.
Era tutta una questione di apparenza per il mondo? Dunque lei si era solo adeguata.
Ma coloro che la giudicavano per il suo fisico minuto, seppur ben proporzionato, per le sue forme
più che generose, o per il suoi occhi, il color del ghiaccio, per lei erano meno che niente.
Li paragonava a coloro che limitandosi a giudicare il suo corpo, da piccola, l’avevano umiliata,
precludendosi la conoscenza di una bambina che aveva tanto bisogno di dare.
Gente troppo superficiale per i suoi standard fin troppo esigenti.

Motivazione per la quale la sua lista di amicizie era molto più che limitata.
Mikiru era la sua unica amica. Le sue compagne di squadra erano puramente conoscenti, chi più
simpatica, chi meno, tutte carine e gentili, per attirarsi le sue grazie, dal momento che era una delle
migliori in campo e un’eccellente studentessa.
Un’ottima conoscenza da avere.
Solo con lei, sempre ottimista e con gli occhi nocciola perennemente sorridenti, si concedeva
veramente.
Solo lei aveva il privilegio di ammirarla ridere di gusto, fare battute prive di quell’ironia tagliente
che sfoderava con chiunque.
Miki conosceva tutto di lei.
Anche se in realtà quando ci sembra di conoscere qualcuno, ci rendiamo conto che in fondo non
abbiamo capito niente.
Perché nemmeno noi stessi ci conosciamo veramente.



Il sole era ormai sparito del tutto, ed il cielo si tingeva di tonalità sempre più scure.
I lampioni per le strade si andavano aprendosi, causando quel tipico ronzio irritante.
L’aria si stava rinfrescando, eppure, sebbene avesse le gambe, fasciate da quella muscolatura tipica
per i pallavolisti, coperte fino a neanche metà coscia da shorts celesti, e pertanto iniziasse a sentire
leggermente freddo, Nabiki conduceva un’andatura lenta, scandita dal ritmico palleggio della sfera
sull’asfalto.
Non aveva alcuna fretta di tornare a casa.
Già immaginava la scena.
Suo padre che non era ancora tornato.
Sua madre che si lamentava per questo, sfogandosi sulla povera cameriera Loretta.
Sua sorella, al telefono con il suo ragazzo, con il quale senza dubbio stava litigando per la ragione
più futile.
No. Non aveva alcuna fretta di tornare a casa.

Oltrepassò delle altre recinzioni.
Casa sua aveva la fortuna di essere situata molto vicina alla zona verde della città.
Tale parco era alquanto rinomato per essere un’oasi di tranquillità che a est affacciava persino sul
mare.
Era il rifugio per le coppiette, i pescatori, i bambini e gli atleti che volevano tenersi in forma con
qualche corsetta.
Era inoltre dotato di svariati campetti. Dalla pallavolo al calcetto, dal basket al tennis.
Per sua fortuna quello di pallavolo era il più lontano.

Pertanto, soprattutto durante il periodo estivo, non era poi così difficile trovare decine di ragazzi che
si incontravano per qualche partitella, che fosse mattutina, pomeridiana o serale.
A tutte le ore si poteva avvertire il rumore di una palla sul terreno.

L’ultimo campetto, prima di svoltare a sinistra e accedere dunque al quartiere residenziale dove
abitava, era quello di basket.
Era praticamente un mese che Nabiki percorreva quella stessa strada a quella stessa ora.
E incontrava quegli stessi ragazzi che giocavano con la sfera arancio-nera.
Sembrava un appuntamento fisso per lei e Mikiru.
Ma quella sera Miki non aveva potuto raggiungerla.
Aveva dovuto rinunciare alla loro sessione di allenamento serale per trascorrere un po’ di tempo
con il fratellino, Shinji, che il giorno dopo avrebbe iniziato la scuola media, e si era lasciato colpire
da un attacco d’ansia.
Ne avevano riso insieme al telefono.

Una palla, oltrepassando la porta aperta della rete metallica rotolò a pochi metri da lei.
Si voltò verso i proprietari aldilà della recinzione.
Ne contò sei.
Era un tre contro tre quella sera, dedusse.
Più vicino alla sua posizione era un ragazzo molto alto (molto più di lei senza dubbio), con una
strana pettinatura e il sorriso sulle labbra.
Indossava dei pantaloncini bianchi.
Non portava alcuna maglietta, così come altri due suoi compagni, e per un attimo, solo per un
attimo, lo sguardo di Nabiki indugiò su quell’addome scolpito e i pettorali definiti, prima di
muovere ad identificare l’amico al suo fianco, un po’ più basso.

Come non riconoscerli ormai.
Tra l’altro frequentavano la sua stessa scuola.
Il Ryonan.

Fu Akira Sendo, il tipo alto ad avanzare di qualche passo nella sua direzione e ad urlarle : ”ehi,
scusa?!ti dispiace lanciarci la palla?!”
Nabiki lo fissò per un momento con sufficienza.
Non le era certo sfuggito il modo in cui sia lui che i suoi amichetti le avevano appena fatto la
radiografia.
D’altronde era qualcosa a cui si era abituata, una cosa che al contempo la lusingava e le confermava
di quanto fosse superficiale l’universo maschile.
Ne era certa. I ragazzi erano tutti uguali.

Poi si decise.
Smise di palleggiare, si mosse verso il pallore da basket, lo recuperò e con precisione lo lanciò nelle
mani del bel moretto, rimasto alquanto stupito dalla sua occhiataccia.
Non aspettò alcun ringraziamento.
Si girò come se niente l’avesse interrotta e continuando a palleggiare raggiunse la “sua traversa” e
imboccatala camminò verso casa.

Fosse stato un fumetto Sendo avrebbe avuto un enorme gocciolone sulla testa.

“comunque grazie!”urlò, certo che la ragazza, sebbene discretamente lontana, l’avrebbe ancora
sentito.
“che tipa strana!”disse più tra se che a qualcuno in particolare.
“puoi dirlo forte, amico” gli fece eco Koshino, il ragazzo più bassino accanto a lui “anche se è
proprio uno schianto!”




Cinquanta metri più avanti, Nabiki si fermo sulla destra del vialetto.
Prese le chiavi dallo zainetto e le infilò nella serratura.
Il cancelletto, nell’aprirsi, emise un cigolante stridio metallico.
Percorse, sempre lentamente, ma ormai senza più palleggiare, la passerella, che dal fronte del
giardino, conduceva al portone principale della villetta.
Saliti i tre scalini si fermò di fronte alla porta di un pregiato ciliegio marrone scuro, perfettamente
intonato con la vernice rosa-antico dell’abitazione.
Sospirò, prima di decidersi ad aprirla.

Ecco che ancora una volta era costretta a mostrare la sua maschera d’indifferenza.
Certe volte si chiedeva se quella fosse davvero solo una maschera.
O se in realtà fosse ciò che era diventata.
Poi, quasi non credendoci si potesse essere davvero così, si auto-convinceva che il suo vero io,
quella bimba paffuta e derisa che attendeva di giocare, fosse ancora lì, da qualche parte, sepolta tra
strati di emozioni e sentimenti rinnegati, e aspettasse solo, seppur utopicamente, di venire
considerata.

Ma non era più tempo di giocare.

Solo due anni, si disse Nabiki entrando in casa.
Altri due anni di scuola, solo due, e questo, tutto questo sarebbe finito.
L’università e la città di Tokyo la stavano aspettando.

Progettava quel momento da lungo tempo ormai, non si sarebbe fatta scoraggiare ora che mancava
così poco alla sua meta.

Lasciare quella casa.
Quelle persone.
Quella scuola.
Quella città.
Scappare dalla famiglia. Dai giudizi.
Da se stessa.
Da una ragazza in cui non si riconosceva più.


“ma ti sembra ora di ritornare questa?!” sbraitò sua madre che in quel momento passava
dall’ingresso.
“hai mai visto tua sorella fare una cosa del genere?no!...hai un telefonino, usalo!!...se non sapessi
che sei tu..”

“ciao mamma” disse Nabiki ignorandola

A grandi falcate guadagnò le scale che conducevano ai due piani superiori.
Salì fino al terzo e percorrendo il corridoio sulla destra, raggiunse l’ultima stanza. La sua.

Si chiuse pesantemente la porta alle spalle.
Appoggiò incurante lo zainetto a terra e dopo qualche passo si lanciò letteralmente, esausta
sull’ampio letto che troneggiava sulla camera.

Suo padre, proprio perché economicamente non avevano mai avuto alcun tipo di problema (essendo
le stesse famiglie dei suoi, di per sé già agiate), non le aveva mai fatto mancare alcuna comodità.

L’ambiente era ampio e rettangolare.
Alla sinistra dell’ ingresso veniva l’enorme letto ricoperto di cuscini, posto tra due comodini di
legno scuro.
Sulla parete destra era collocata una porta dalla quale si accedeva al suo bagno personale, e un
lungo mobile che ricoprendo l’intero muro fungeva sia da libreria che da scrivania, sulla quale era
adagiato un computer dallo schermo largo e ultrapiatto.
Dal muro frontale all’ingresso si accedeva al balcone-veranda, dotato di un mini salottino in vimini.
Accanto alla porta-finestra, faceva la sua comparsa un imponente e capiente armadio, anch’esso di
legno scuro, cosi come tutto l’arredamento della stanza, nella cui anta centrale, priva di sportelli era
situato un televisore discretamente grande.
Una consolle con specchio enorme, che fungeva da vanity set, era situata alla sinistra del letto.

Nabiki non poteva certo lamentarsi della sua camera.
Il suo rifugio in quella casa.

Sua madre si era occupata personalmente dell’arredamento di tutta la villetta, che poteva definirsi
sobria e di buon gusto.
Per Nabiki, che l’involucro fosse piacevole e invidiato era ininfluente, dal momento che la sostanza
era vanescente.
Ma questo certo non lo potevano sapere, tutte quella persone che venendo a far visita alla famiglia
Azuki, facevano i complimenti per l’edificio.

Trascinandosi di malavoglia si diresse in bagno.
Si spogliò ignorando l’ampio specchio e nuda si chiuse la porta del bagno-doccia alle spalle.
Trovò un po’ di conforto alla stanchezza, fisica e psicologica, nel getto d’acqua tiepido, che dai
capelli le percorreva tutte le curve del corpo prima di raggiungere terra.


Nabiki, sebbene giocasse a pallavolo, non era una ragazza alta.
Superava, giusto di un paio di centimetri, il metro e sessanta, ed essendo una palleggiatrice, questo
“difetto” si era rivelato essere un enorme problema, essendo la statura dell’attacco di una squadra
particolarmente influente nell’incisività della stessa.

Problema al quale aveva sopperito con esercizi mirati ed intensi per incrementare l’elevazione, la
quale dopo enormi sacrifici era divenuta indiscutibilmente notevole.
Ciò aveva favorito uno sviluppo non indifferente della muscolatura delle gambe, che sebbene non
fossero particolarmente lunghe, erano divenute slanciate e ben tornite.

Purtroppo una cosa che il suo impegno non era riuscito a “eliminare” erano i suoi fianchi generosi,
che tali erano rimasti, nonostante con l’allenamento avesse guadagnato un ventre piatto e una vita
discretamente stretta.

Con il suo seno, poi, aveva instaurato uno strano rapporto di amore e odio.
Portava una terza abbondante e soda, di cui le ragazze meno prosperose erano necessariamente
invidiose, ma che, a suo avviso per sua sfortuna, causava tropo spesso l’attenzione del genere
maschile.


La doccia fu più breve del solito.
Era stanca e in più voleva telefonare all’amica.
Uscì dal box e recuperò un telo bianco che avvolse intorno al corpo.
Si avvicinò allo specchio sopra il lavandino che il vapore acqueo aveva reso appannato e vi passò
una mano all’altezza dell’immagine del suo viso.
Con una tovaglia tamponò i capelli, già snervata all’idea di doverli stirare.

I suoi capelli erano una delle poche cose a cui teneva veramente.
La madre aveva sempre osannato la chioma della sorella che quando era più bambina era di una
lunghezza sorprendente.

Negli ultimi anni, con sommo dispiacere di Fujiko, Hikari aveva optato per un taglio più pratico
appena sopra le spalle, che comunque valorizzava il suo visino da bambola di porcellana.

Nabiki, la contraddizione fatta persona, sebbene non apprezzasse particolarmente gli sguardi
affamati che certi uomini le rivolgevano, per una sorta di vanità che è insita nel carattere di ogni
donna, aveva uno spiccato senso di femminilità, e prediligeva ogni qualcosa che avrebbe potuto
accentuare tale inclinazione.

Poche cose erano veramente importanti a questo proposito, e Nabiki si dannava per rispettarle tutte.
In primis, nulla era più importante del portamento, eretto, fiero e leggermente ancheggiante, che le
conferiva un’andatura naturalmente signorile.
Le unghie, che la ragazza, nonostante praticasse sport, riusciva a tenere sempre di una discreta
lunghezza, perfettamente curate.
Il trucco, di cui la ragazza non si privava mai, fosse solo fondotinta.
E in fine i capelli.
La sua gioia.

Dopo anni e anni di caschetti (che peraltro era convinta la facessero sembrare un uovo di pasqua),
aveva stupito la madre con una chioma scura e lucente, ma soprattutto lunghissima. Le arrivavano
alla vita, conferendole un aspetto non indifferentemente seducente.
Naturalmente spendeva molto del suo tempo libero nella loro cura.
In verità erano leggermente ondulati, ma avendo Nabiki una preferenza per il liscio cosiddetto
“spaghetto”, era costretta a lisciarli tra spazzola, phon e piastra, di volta in volta.

Si sentiva spossata solo all’idea.
Ma non poteva farne a meno.
L’indomani sarebbe ricominciata la scuola. E non aveva la minima intenzione di presentarsi se non
perfetta.

Non che fosse particolarmente famosa.

Il Ryonan era una scuola frequentata in larga misura da ragazze.
Era naturale dunque che fossero i ragazzi carini a suscitare la maggiore attenzione, soprattutto quelli
che facevano parte di qualche club sportivo.

A pochi era importato che l’anno precedente la squadra di pallavolo non avesse superato per poco le
eliminatorie per il torneo nazionale, dopo aver vinto quello interscolastico.
O no. L’attenzione di tutti era mirata quasi esclusivamente ai ragazzi del club di basket e a quella
stupida matricola.
Quell’Akira Sendo, che dicevano giocasse talmente bene neanche fosse un professionista.

Nabiki, seppure apprezzasse qualsiasi forma di sport (com’è solitamente consuetudine per gli atleti),
provava un’enorme antipatia nei confronti della pallacanestro per due ragioni ai suoi occhi
validissime.

La prima era che le vicissitudini della squadra di Taoka sembravano attirare maggiore attenzione di
quelle del suo club di pallavolo, che per tanto riceveva meno vantaggi e considerazioni anche da
parte della dirigenza scolastica.

La seconda ragione, la più incontestabile, traeva le sue origini nell’interesse che la sorella aveva
manifestato da bambina per tale sport. Interesse alimentato peraltro dalla madre che, a quanto
pareva, aveva avuto un glorioso seppur breve passato da giocatrice.

Tali motivazioni inappellabili, costituivano la spiegazione principale per la quale la ragazza aveva
in odio ogni singolo membro del club, o comunque chiunque ne simpatizzasse.



Dopo venti minuti abbondanti, Nabiki, con i capelli perfettamente lisci e lucenti e la pelle
adeguatamente idratata, finalmente uscì dal bagno.

Adagiò il telo che teneva ancora indosso e infilati degli slip, modello brasiliana, rosa, vestì un baby
doll dello stesso colore, uno dei suoi preferiti.

Infine, gettatasi sul letto, recuperò il cordless dal comodino sinistro e compose a memoria il numero
della famiglia Ayase.

“pronto?” disse la voce di Mikiru dopo un paio di squilli
“ciao, tesoro!”
“Niki!!ciaaaaaooooo!!!!non hai idea di come sono felice di sentirti!”disse a raffica con il suo solito
entusiasmo la castana
“esagerata!.. relax, amica!”
“relax? Relax?! Tu non hai idea del pomeriggio che ho passato!questa non è una casa! O no, è una
gabbia di matti!!...io l’ho sempre detto che i miei genitori hanno fatto troppi figli!non c’è mai un
attimo di silenzio e pace…mi sto esaurendo!...Niki….salvami tu!” disse tutto d’un fiato con voce
finta implorante Mikiru.

Miki era così. Sempre allegra e sorridente.
E poi parlava sempre troppo. E troppo veloce.
Metteva in qualsiasi cosa un entusiasmo disarmante, che non poteva che essere contagioso.
Era bello che riuscisse a sdrammatizzare quasi sempre.
Impossibile era non trovare il buonumore in sua compagnia.

Le loro conversazioni, quando non vertevano sul serio, avevano tutte più o meno questo tono
scherzoso.
Le avesse sorprese qualcuno a parlare le avrebbe scambiate senza dubbio per un qualche cartone
animato. Sorprendendosi, tra l’altro, di come una ragazza così composta come la Azuki, potesse
essere allo stesso tempo così spontanea, come mai si era mostrata in pubblico.

“ma di che ti lamenti?! Pensa a me invece, che ho il problema opposto…” disse scherzosa Nabiki
“..e poi ora sono stanca morta…voglio solo dormire!”concluse lagnosa
“che ti sei andata ad allenare lo stesso?”chiese in tono inquisitorio Mikiru
“aha”assentì la mora
“ma Nikiii!!”si lamentò la castana “avevi detto che non saresti andata al campetto senza di
me!..traditrice!!”
“si lo, scusami…è che…la solita storia..” disse e il suo tono per un attimo s’intristì

“di nuovo problemi?”chiese timida Miki

“…già” sospirò Niki

Passò qualche istante prima che Mikiru parlasse nuovamente
“ti…va di parlarne?”
“no..no grazie..non credo ci sia niente da dire..ormai..no?” disse sorridendo un po’ tirata
“mi dispiace tanto, piccola…però lo sai…se ti vuoi trasferire da me…tanto..una in più o una in
meno..per i miei genitori non cambia molto, anzi per loro…più siamo meglio è!” tentò di
sdrammatizzare Miki
“scema!”
“scherzo!...comunque…dai! pensa che domani si ricomincia!”
“e la cosa dovrebbe tirarmi su?” disse ironica Nabiki “..non vedo come si possa essere tanto
entusiasti..”
“bè certo... per la scuola non credo lo si possa essere…però…tu sai a che mi riferisco, no?”
“faresti meglio a dire a chi!…e come potrei dimenticare..mi hai rotto un’estate per quel nanetto”

“ehi!non è basso”lo difese Mikiru “è quasi uno e ottanta…e poi scusa, ma se non stresso te che sei
la mia migliore amica…chi devo stressare, Mona??” chiese finta infervorata Miki alludendo ad una
compagna non esattamente simpatica
“sisi, tutte le scuse sono buone…comunque, se proprio lo vuoi sapere, c’era anche stasera”
“cheeeee!! E me lo dici così?!”
“e come te lo dovrei dire, scusa?!”
“bè.. un minimo di preavviso.. che ne so!”
“si vabbè, allora che fai se ti dico che era a torso nudo?”
“ehhhhhhhhhh???!!ma porca..sul serio?! ..e certo, proprio stasera che non c’ero io!!!…grrr questa è
proprio sfiga!!!”
“tu sei pazza!!..sai che quando fai così sembri proprio una scema? ..Non si direbbe mai che dietro
quell’aria da artista pazza e incompresa si nasconde una mezza specie di piccolo genio..”
“addirittura!!mi sopravvaluti, gioia…sai com’è..a me non importa delle apparenze”
“dev’essere per questo che siamo amiche ”decretò Nabiki
“comunque mi devi dire tutto!”
“e di che?” domandò confusa
“come di che? Del bellissimo, dolcissimo, insuperabilissimo….Hiroaki Koshino!”disse sognante
Mikiru
“bellissimo, dolcissimo, insuperabilissimo???..devo essermi persa qualche puntata…”fece ironica
Niki
“sfotti, sfotti…mia cara…arriverà il giorno in cui piacerà qualcuno anche a te, mia bella miss
ghiacciolo, e allora dovrai tenere la bocca chiusa!...io sto solo aspettando quel momento” sentenziò
solenne
“credo che aspetterai ancora per un bel pezzo, allora… e poi comunque..lo sai..non è che ho niente
contro il ragazzo di per sè..”
“nooo”la interruppe sarcastica Miki “solo contro lui e tutta la sua squadra…mica contro lui di per
sé!”
“scema! Non è mica colpa mia se gioca a basket!”
“ e io che ci colpo se mi piace?” chiese dolce dolce Miki
“uff…sai come la penso, no?” disse fingendosi scocciata Nabiki “..nessun ragazzo sarà mai
abbastanza per te..”
“e per te!” aggiunse Miki
“..e si..anche questo è vero!” disse sorniona Nabiki
“Niiiki!”la rimbeccò sorridente Miki

Risero entrambe

“comunque…a parte gli scherzi…speriamo di capitare in classe insieme domani..”
”chi, tu e il tuo bel Hiroaki?” giocò Niki
“ma certo…quello sarebbe proprio il massimo…considerando anche che abbiamo gli allenamenti
agli stessi orari, se non capitassimo in classe insieme, non credo che lo vedrei molto….comunque,
scema, io mi riferivo a me e a te!”
“guarda, scema, che avevo capito…speriamo sul serio…sai che rottura sennò senza di te!”
“ehh… lo so…dove andresti senza di me?”
“ora, non ti montare la testa!”

“in ogni caso…non so…non dovessimo essere insieme…credo che ti toccherebbe socializzare con
gli altri compagni..suppongo..”
“che sei matta?!”disse sconcertata Nabiki “tra secchioni, lecchini e deficienti non se ne salva uno!”
“effettivamente…!dai..non ci pensiamo…magari siamo fortunate di nuovo e capitiamo insieme..o al
massimo speriamo di capitare con qualcuno che conosciamo..tipo le nostre compagne di squadra..”
“evviva..” fece sarcastica con poco entusiasmo Niki
“meglio di niente!”
“vabbè…ora vado, che tra l’altro devo ancora cenare…ci vediamo domani al solito,ok?..cerca di
non fare troppo tardi!” specificò
“a parlato miss puntualità”
“ehi..in ogni caso arrivo sempre prima di te”
“guarda che in ritardo di 20 minuti non significa puntuale!”obiettò Mikiru
“e allora presentarsi tre quarti d’ora dopo che vuol dire???”
“….ehm..” la castana non trovò come ribattere
“infatti!….allora a dom???”
“meglio va!” disse sorridente Miki
“ti voglio bene!”
“anch’io!notte!”
“notte”

E riagganciarono.


Nabiki scosse un paio di volte la testa, ancora divertita.
Miki era tutta pazza.

Quasi nulla di quella ragazza era convenzionale, eppure riusciva ad essere apprezzata e stimata da
tutti coloro che avevano la fortuna di incrociarla.
Bè, certo, tutti o quasi.
Ci sono sempre le minoranze invidiose.
D’altronde come non esserlo.
Mikiru era una ragazza molto carina.
Alta anche lei sul metro e sessanta (sebbene giocando in difesa l’altezza non fosse esattamente un
problema per lei), con un fisico discretamente asciutto e proporzionato, Miki aveva dei dolcissimi
occhi castano-ambrati che sembravano sorridere sempre.
Lei stessa sorrideva la maggior parte del tempo, naturalmente.
I capelli le arrivavano poco più in basso delle scapole, e non era inconsueto ammirarglieli raccolti in
due allegri codini, soprattutto durante gli allenamenti e le partite.

Era una pasticciona confusionaria.
E allo stesso tempo riusciva ad essere brillante e diplomatica.
I compagni di classe e le compagne di squadra l’adoravano.
I primi, soprattutto perché passava sempre i compiti e non si tirava indietro dal dare una mano a
chiunque.
Le seconde, perché difficilmente si lasciava sfuggire un pallone, e aveva sempre un modo nuovo e
divertente per caricare il gruppo.

Era anche lei di ottima famiglia, sebbene i suoi genitori non fossero neppure lontanamente
paragonabili a quelli di Nabiki, come quest’ultima diceva sempre.

Per il signore e la signora Ayase, rispettivamente ingegnere e maestra d’asilo, il matrimonio era
un’istituzione più che seria.

Effettivamente l’avevano presa così seriamente da avere messo al mondo ben quattro figli.
Mikiru era la seconda. E considerando che Kyro, il fratello maggiore, già universitario, studiava
fuori, Miki era anche la babysitter dei suoi fratellini, Shinji, 12, e Sanae, 8 anni.

Certo, Miki era anche permalosa (guai a farglielo notare) e testarda, ma il suo più grande difetto era,
senza dubbio, la sua totale mancanza di puntualità.

Non che Nabiki fosse una svizzera, certo, ma Mikiru era ineguagliabile.

Per tanto, insieme alla compagna nella maggior parte dei casi, era la dannazione dell’allenatrice, la
signorina Hayuara, che dopo un solo anno si era già rassegnata all’idea che le due non iniziassero
mai un allenamento senza un minimo di venti minuti di ritardo.

Considerando il loro impegno, e il fatto che restassero abbondantemente oltre l’orario prestabilito
per allenamenti supplementari, la signorina Hayuara aveva, comunque, ben poco di cui lamentarsi.







Driiiiiiiiinnnnnnnnnnn-driiiiiiiiiiiinnnnnnnn
Il rumore della sveglia risuonava implacabile tra le mura della sua stanza.
Nabiki tentò invano di ignorarlo per qualche secondo prima di decidersi a mettere fine a
quell’odioso stridore.

L’orologio analogico lampeggiava le 7:00 del mattino. Era ora di alzarsi.

Non le sembrava possibile.
Fino al giorno prima si era abituata a non aprire gli occhi prima delle 9.
E ora…la scuola fa schifo pensò.

Di buon grado o meno, comunque si mise seduta sul bordo del letto.
Ancora mezza assonnata si stropicciò gli occhi.
Sospirò.
E si decise ad alzarsi.

Raggiunse il bagno con ancora un leggero mal di testa che l’aveva accompagnata un po’ per tutta la
notte.

La sera precedente, poi, non era scesa per cena.
Suo padre era tornato piuttosto tardi, e sua madre aveva sfruttato il pretesto per far scaturire la solita
lite biasimandolo di avere l’amante.

Nabiki aveva deciso che non era il caso di farsi mettere in mezzo.
E ci aveva rimesso il cibo.

Dopo una bella doccia, uscì dal bagno fresca, pulita e un po’ più sveglia.

Indossò l’uniforme scolastica che consisteva in una gonna a pieghe blu scura che le cadeva una
decina di centimetri sopra il ginocchio, abbinata ad un gilet dello stesso colore sotto il quale si
intravedeva una camicia bianca a maniche corte discretamente attillata.
Un fiocchetto azzurro legato come fosse una cravatta, le circondava il collo e s’insinuava tra la
suddetta camicia e il gilet.

Nabiki si sistemò meglio gli scaldamuscoli bianchi sulle caviglie, sopra le ballerine con la fibbia
blu.

Una volta vestita si accomodò di fronte allo specchio del suo vanity set e procedette con il rito del
trucco.
Ormai non aveva particolarmente bisogno del fondotinta, era più un’abitudine.
Erano passati, fortunatamente, i tempi in cui somatizzava in viso lo stress di tutta quella situazione.

Aveva speso fin troppi soldi in creme e cosmetici.

Ma qualsiasi donna sa che il trucco è un modo più che efficace di nascondersi dietro una maschera
di apparente perfezione concreta.

È un’illusione quella di coprire i difetti. E proprio perché tale ci fa sentire più belli.

Nabiki aveva la pelle fin troppo chiara di natura.
Inoltre non aveva molto approfittato del sole estivo per abbronzarsi, come fan tutte, preferendo
scendere in spiaggia il pomeriggio, per qualche bagno e qualche match a beach volley.

Così pennellò con cura un po’ di blush sulle guance che si tinsero di rosa.

I suoi occhi, già belli al naturale, vennero accentuati da un filo di matita azzurra che li rese più
intensi.

Si passò velocemente un toccò di burro di cacao sulle labbra sensualmente carnose.



Per essere una ragazza che provava profondo astio nei confronti di chi si basava esclusivamente
sull’aspetto fisico per giudicare, stava particolarmente attenta al suo modo di apparire.

Hegelianamente si trattava, deducibilmente, di una contraddizione sanabile.

Nabiki si era ripromessa che nessuno l’avrebbe mai più fatta sentire insignificante.

A questo proposito, anche durante gli allenamenti era difficile trovarla con qualche dettaglio fuori
posto.

Mikiru la prendeva in giro dicendole che ispirava soggezione.

Effettivamente aveva ragione.
Forse lo scopo era un po’ anche quello.



Legò i capelli, perfettamente lisci, in una mezza coda dalla quale sfuggivano i ciuffi davanti che le
incorniciavano ordinatamente il viso.

La riga laterale le donava particolarmente.

Decise che era pronta.

Si alzò, prese la borsa, già pronta dalla sera prima, insieme con la sacca sportiva celeste (regalo di
Mikiru) e, scendendo fino al piano terra, raggiunse la cucina.

“buon giorno” la salutò Loretta, cameriera in casa Azuki da parecchi anni
“giorno Lory!” sorrise Nabiki

“arancini di riso e okonomyaki, come piace a te!” le disse Loretta porgendole la scatola con il
pranzo
“ti adooorooo!!”l’abbracciò la ragazza mora, rischiando di far cadere il tutto

Sistemò il cofanetto nello zaino prima di bere un po’ di latte al volo e afferrare un’abbondante fetta
di dolce dalla tavola.

“io vado…torno tardi!” disse baciando sulla guancia la simpatica signora di mezza età.

E uscì di casa.

Naturalmente non si aspettava che qualcuno l’avesse sentita.
Era normale che a quell’ora del mattino in giro per casa ci fosse solo lei.
E Loretta, certo.

Suo padre era già uscito da un pezzo.
Sua sorella dormiva almeno fino alle 9 e mezza.
E sua madre. Bè, sua madre non aveva esattamente orari.


Nabiki, il dolce ancora in mano, s’incamminò a passo spedito in direzione dell’abitazione di Mikiru.
Fortunatamente, non abitavano lontane da scuola, solo a tre isolati, ma lo stesso, avevano l’abilità
di far tardi.


Poco dopo, la ragazza mora si fermo di fronte ad un cancello che dava su una graziosa villetta giallo
chiaro.

Sospirò.
Naturalmente era impensabile che Miki fosse già lì ad aspettarla.

Azzardò un’occhiata all’orologio che teneva al polso e restò piacevolmente sorpresa.

Erano solo le 7 e 45.
Rincuorata dalla possibilità di arrivare in orario per una volta nella sua vita, suonò al campanello.

Dovette attendere un abbondante minuto prima di ricevere una risposta.

“arrivoooooo!!!” fu tutto quello che decretò il citofono

Nabiki sorrise.

Cinque minuti dopo, però, si era stancata, sia di aspettare che di sorridere.
Mikiru era sempre la solita.

Stava per suonare nuovamente quando intravide all’orizzonte ciò che non aveva sperato: Miki stava
arrivando!

Niki fece finta di stropicciarsi gli occhi, quasi a non crederci, e si beccò un’amichevole cartellata in
testa da parte della ritardataria.

Anche Mikiru era un’amante del trucco leggero.
La terra sulle guance risaltava il colore della sua pelle, già dorato al naturale, accentuando
l’abbronzatura.
La matita nera dentro gli occhi, le regalava allo sguardo una profondità non indifferente.
Aveva le labbra leggermente lucide (effetto dovuto al burro di cacao) e i capelli legati negli
inconfondibili codini ai lati della testa, la frangia le ricadeva sulla fronte.
Aveva un aspetto raggiante e adorabile.

“buon giornooo!!” le disse sprezzante con il sorriso sulle labbra
“era un buon giorno prima che mi rompevi la testa!” si lamentò massaggiandosi il capo fingendosi
dolente la mora

“zitta e cammina, che siamo in ritardo!”
“ma va?!..e per colpa di chi?” chiese ironica Niki
“..dettagli!..ora muoviti!”

E si avviarono in direzione del Ryonan.




Stranamente raggiunsero la loro meta prima dell’inizio della lezioni.
Inutile citare il gran trambusto che c’era, essendo il primo giorno di scuola.

Le matricole avevano tutte un’aria spaurita, dove al contrario i sempai si muovevano agilmente tra
la folla.

Mikiru trascinò Nabiki verso l’angolo del cortile, alla destra dell’ingresso dell’edificio scolastico,
nel quale troneggiava un’enorme cartellone bianco, in cui, in nero, risultavano, divisi per anno, i
nomi degli iscritti e le relative sezioni.

Chiaramente lo spazio antecedente al “quadro” era pressoché gremito di gente.
Una calca impensabile di ragazzi attorniava il foglio bianco nell’attesa di scoprire quali sarebbero
stati i nuovi compagni.

Nabiki lasciò che fosse Mikiru a occuparsi dell’indagine, e mentre quest’ultima s’intrufolava tra la
folla, la moretta fece qualche passo indietro e si appoggiò al tronco di una magnifica quercia,
piantata lì in mezzo per coreografia (come dicevano sempre le due amiche) insieme a tante altre.

La ragazza alzò gli occhi al cielo.
Era una bella giornata, con il sole alto e le nuvole rade.
Un peccato perderla lì a scuola, pensò
Anche perché, di lì a poco, l’inverno avrebbe iniziato a farsi sentire.
Come diceva Loretta, non esistevano più le mezze stagioni.

Mikiru ricomparve dopo un paio di minuti.
Si avvicinò mesta e moggia con una stana espressione nel viso.

Nabiki aveva già capito.
Se la sua amica evitava il suo sguardo poteva voler dire solo una cosa.
Non erano capitate in classe insieme.

“fammi indovinare…ci hanno separate?” le chiese, più retoricamente che altro, per alleggerire
l’atmosfera
“…già!” assentì la castana “uff…ma io ci contavo troppo…come faccio senza di te?!” le disse con
un’ espressione che ricordava molto quella di una bambina con il broncio
“ehi, dai, tranquilla…non ero io quella che non poteva stare senza di te?..sono io che mi devo
deprimere!” cercò di risollevarla Nabiki, sebbene nel profondo non avesse neanche lei preso fin
troppo bene la triste notizia
“scema!...è che…non lo so..era bello condividere anche la mattina..invece..ora..”
Sempre più spesso ultimamente, Nabiki si era ritrovata a pensare che alle volte Mikiru era
adorabilmente infantile.
La sua fragilità era disarmante.

“a chi lo dici!..vabbè dai…abbiamo ancora gli allenamenti…quelli non ce li leva nessuno, no? E poi
possiamo sempre mangiare insieme..guarda, ti prometto che ti raggiungo a pranzo!..dai, sorridi!”
l’abbracciò Nabiki

D’un tratto la castana scoppiò inspiegabilmente a ridere

“non sarai impazzita del tutto, vero?” chiese la mora fingendosi preoccupata
“…no..figurati” disse tra le risa la castana “è che…stavo pensando…che…sono in classe
con…Koshino!..e…con Sendo!!!”

Nabiki non potè che ridere a sua volta.













 
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