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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Manga e Anime
Dalla Serie: X
Titolo Fanfic: SGUARDO DI PLASTICA
Genere: Sentimentale
Rating: Per Tutte le età
Autore: celebrian galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 12/04/2006 11:07:43

vorrei che il tuo sguardo avesse il calore di questo piccolo sguardo di plastica...
 
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CAPITOLO UNICO
- Capitolo 1° -

Sguardo di plastica

(come sottofondo, il “Sango’s theme”, prima parte, suonato con l’arpa)
Sperando che non sia un fallimento, dedico queste righe ad Artemisia89, che mi ha fatto vedere la luce quando credevo che non ne esistesse più, sperando di riuscire, un giorno, a fare lo stesso con lei.
Ti voglio bene!


Si sfila di dosso l’uniforme della scuola cattolica. Socchiude gli occhi, mentre il tessuto color del latte le scivola, frusciando, di dosso. Si sente come una barchetta alla deriva. Come una fiammella che galleggia per aria, una piccola lucina in mezzo a quel silenzio. Con le dita fa scivolare dal petto la blusa, sfiorando l pelle calda del torace, ondeggiando il capo, incurvando all’insù le labbra dischiuse. I capelli le sfiorano le spalle bianche, inviolate e una piccola cicatrice sulla scapola che non può vedere. L’indumento scivola per le braccia che ricadono mollemente lungo i fianchi. Sospirando, lentamente, sbottona la gonna a pieghe e lascia che scivoli giù, incontrastata. Tiene ancora gli occhi chiusi, lascia ancora che il capo ondeggi.
Che silenzio. Si sente soltanto il mormorio delle tende che danzano, mosse dalla tenera brezza. Fuori, il sole tramonta, s’immerge oltre il mare, oltre la terra, oltre qualsiasi cosa che dalla finestra potrebbe vedere. Oltre qualsiasi cosa. “Oltre qualsiasi cosa” sussurra a se stessa, mentre la gonna, fluttuando, tocca terra. Solleva una dopo l’altra le gambe, abbandonandola sulle piastrelle fredde del bagno.
Socchiude pigramente gli occhi.
Lo specchio le rimanda l’immagine di una ragazzina piccola e delicata, come un bucaneve in anticipo, non previsto. Sembra adagiata con tiepido torpore su una candida nuvola, mentre le dita sfiorano la superficie fredda dello specchio. È la sua immagine, la sua timida immagine. Lo specchio non mente, è lei che guarda serena lo specchio. Lei è solo un bucaneve fuori stagione, non previsto, sperduto fra prati verdi e lussureggianti di vita. Candido. Risplende alla tenera luce del sole.
Si volta. Dalla porta aperta del bagno vede la stanza con i suoi gigli sul tavolo, i cuscini, l’indumento che deve indossare, le tende che ondeggiano, la luce dorata del sole al tramonto. Su uno scaffale, rivolto verso di lei, l’orsacchiotto di peluche, con la sua scritta “To Karen from Mama”, quella piccola, timida scritta. Allunga una mano, come in estasi nel vedere quel timido oggetto, nel suo timido significato. Il suo sguardo di plastica. Lo sguardo amorevole, rassicurante. L’investe, come un manto, la sensazione di essere al sicuro, qualunque cosa accada. La sensazione che un sguardo caldo e amorevole può dare. Lo sguardo che dovrebbe avere una madre.
In quell’istante, in piedi dinanzi alla propria immagine riflessa, con addosso nulla che la celi. Al settimo sopra la vita caotica di Tokyo.
Non sa esattamente come ci sia arrivata, piccola barchetta alla deriva. Non sa esattamente con quali intenzioni abbia lasciato il porto. Ma ora che è lì, sa che l’immagine in quello specchio è la sua. È la piccola Karen, ora, in piedi dinanzi a quello specchio, senza più l’innocenza a coprirla, a velarla. Solo il suo timido viso e il suo timido sorriso, che diviene sorriso di donna.
Non è mai stata vanitosa. Non è mai stata una ragazza frivola. Ma deve essere bella, adesso. Deve essere bella e desiderabile, calda come un fuoco che plasma. (Il nome di Karen significa proprio “Fuoco che plasma”…indica il suo potere, quello del fuoco. Penso sia adattissimo a lei, nonostante adesso appaia così delicata e piccina_NdHelly^^)Perché è ciò che ci si aspetta da lei, no?
Prende da cassetto un nastro bianco, bianco come la purezza e la castità. Come la verginità.
Lei è ancora vergine.
Con il nastro bianco cinge i riccioli castani, senza annodarlo. Lo tiene fermo tra le dita, ai lati del collo, osservandosi pensosa. No, vuole essere bella. Non è più la Karen scolaretta. Da quella notte in poi, non dovrà più essere graziosa. Dovrà essere bella.
Lascia liberi i boccoli di sfiorarle il petto, la schiena, il collo. Si sente accarezzata, come da mani amorevoli e fresche. Come le mani di una madre.
Esce dal bagno, a piedi nudi. È quasi l’ora, si dice. Senza fretta prende i gigli dal tavolo e li depone in un vaso di cristallo, in un posto dove i raggi l’attraversino di sbieco, prima che scenda la sera. Sorride. Così sono perfetti. Prende da una sedia di vimini una veste leggera e la indossa, annodandola in vita. È bianca e una gru intessuta con fili argentati adorna il fianco destro. Deve essere bella. Si siede sul letto, incrociando le gambe. No, deve essere all’altezza. Si siede composta, lascia che i capelli le ricadano in grembo, adagia il capo su un cuscino e aspetta. Aspetta che arrivi l’ora. Come tutto sia immobile e silenzioso, neppure lei sa spiegarselo. Tutto sembra essersi arenato in un limbo di lenzuola candide e gigli.
Anche lei è parte di quel limbo senza tempo?
Muove i piedi fra le lenzuola, stringe il cuscino con le dita, muove il capo osservando la stanza.
Arrossisce.
La porta del bagno è ancora aperta. Si vede la divisa candida della scuola cattolica adagiata sul pavimento, come se fosse un’anima, abbandonata in un angolino buio, troppo pesante come fardello. Quella divisa bianca. Il vestito bianco, i gigli, la sera. E lei è su quel letto, in attesa, con un vago senso di nostalgia addosso. Nessuna scappatoia. Niente che possa celarla allo sguardo che, ansioso, si poserà su di lei. Niente, che non sia quella leggera penombra e quella leggera innocenza che si porta ancora addosso. Sulle guance, quel timido rossore.

Ora si sente dolorosamente consapevole di una muta paura.

D’un tratto la sua tranquillità sembra essersi dissolta.

Si alza e rapidamente chiude la porta del bagno. Le pareti di quella bella stanza sembrano troppo grandi per lei, per lei che si sente così minuta, così indifesa. Guarda fuori dalla finestra il sole che tramonta. In quella sterminata città, che sembra non avere una fine, in quella sterminata vita che l’ha portata fino a quell’istante, in piedi senza nulla di appropriato addosso se non una leggera paura, una leggerissima veste di paura che s’attorciglia intorno al suo corpo. Come un sottilissimo strato di vuoto appena sopra la pelle candida, pura. È così piccola, in mezzo a tutto quello, quanto ce n’è, ad avvolgerla, opprimendola.
Sfiora con dita improvvisamente fredde il proprio lungo collo. Trattiene il fiato. Porta ancora il rosario di perle. Conta i grani, uno per uno, arriva alla piccola croce bianca che le sfiora il seno. La stringe fino a che le nocche diventano bianche per lo sforzo di aggrapparsi a qualcosa, qualunque cosa purché le dia conforto. Signore. Signore, dammi la forza. Dov’è finita la sua tranquillità, adesso che sta giungendo l’ora? Dove? Dove si è persa, tutta d’un tratto? È svanita, è scivolata via come gli indumenti che prima ha sfilato di dosso, come la sua candida verginità cui sembra essere già estranea. C’è un altro specchio nella stanza ed è di nuovo la piccola Karen ad osservarla da quel mondo parallelo e irraggiungibile, mondo di immagini, che la sta osservando dubbiosa e incerta alla luce dorata del sole morente. È la piccola, timida Karen, in piedi in quella stanza, che stringe il crocefisso perché le dia forza. Non ricorda neppure perché, perché è lì in mezzo ad una stanza che parla di candore, senza più il proprio candore addosso. Perché?

Le sembra di sentire dei passi felpati oltre la porta. Distoglie lo sguardo dallo specchio, si siede sul letto e aspetta. Tutto sembra fermarsi, d’un tratto. Tutto sembra immobile. Persino il venticello fresco della sera tace. I suoi occhi lucidi di emozione si voltano verso lo scaffale. Perché è finita in quel posto? Si domanda.
Perché?
In quell’istante di assoluta immobilità, si alza, prende fra le braccia l’orsacchiotto e se lo stringe al seno. È caldo, soffice come un bacio, si dice. È il mio piccolo conforto, è la mia piccola scialuppa, si dice.
Istante di infinito, immobile al centro della stanza.
Il piccolo sguardo di plastica sul suo corpo che sembra fatto di vetro, per quanto è fragile. Il piccolo, amorevole sguardo di plastica. Vorrebbe essere guardata così, sempre. Sempre con quegli occhi caldi, protettivi, anche se fatti di plastica. Il suo piccolo giglio, questo è per quello sguardo.
È così che vuole essere guardata.
Perché così si sente protetta.
Non distogliere lo sguardo da me!

Bussano alla porta.

D’un tratto si sente tranquilla, serena. Vuole essere bella.
Si avvicina alla porta, ha ancora fra le braccia l’orsacchiotto. La apre, sorride, si sente bella, lo è.
Un uomo entra, si inchina, sorride, la desidera, la vuole per sé.

Non c’è niente di male.

L’uomo si siede al tavolino, lei sistema l’orsacchiotto sullo scaffale, sfiora una gamba di quell’uomo che la desidera sedendosi, gli versa il saké. Immobilità assoluta, in quella stanza bianca. Solo lei, i gigli e il suo cliente. E lo sguardo di plastica.

“Sei bella” le dice. “Sei bella”

Alza lo sguardo, incontra quello del cliente. È caldo, arde di desiderio per lei.

Vuole solo essere desiderata, vuole solo essere amata. Vuole solo uno sguardo caldo ad accarezzarla. Non collane, né gioielli, né velo monacale. Lei vuole essere desiderata, con tanta forza e tanta passione da essere spezzata. Lei vuole questo, vuole essere la luce per occhi stanchi, in quella penombra che parla di un segreto. Quello di una bimba ancora vergine e di un uomo che la vuole per sé.

“E sei così giovane”

Candore, purezza, verginità in quella stanza. Ma non è peccato. Non è un peccato. È la sua anima, calda e meravigliosa, intrisa di purezza e dolcezza e quello è il suo corpo, il suo desiderio, il calore che desidera possa scaldarlo, in una notte soltanto.

“Cosa ci fai in un posto così?”

Non è importante, non è necessario che sia speciale. Non conta il fatto che non sia amore. Tu ora sei qui a guardarmi, a desiderarmi, a invocare la mia pelle che profuma di purezza, ma domani sarai dimenticato. Cosa resterà di questa notte, neppure tu puoi immaginarlo. Solo un momento, un istante, uno dei tanti, a nutrire il mio bisogno di calore. Il mio bisogno di essere, se non amata, comunque desiderata, speciale.

“Hai paura?”

No, non ho paura. Non avrò più paura, d’ora in poi. Il corpo, la mia anima, soltanto un istante per mille momenti della vita.

“Lo fai per denaro?”

Sorrido. Sorrido per la tua ingenuità.

“No, non lo faccio solo per questo”

“E per cosa, allora?”

Non è importante.

Si lascia toccare. Le sue dita ruvide le sfiorano il collo, i capelli, il cuore. È solo un momento, solo un secondo. Solo una carezza, labbra calde sul viso, mani ruvide sulla pelle, voce roca nelle orecchie. Desiderio tutto intorno a lei, in un istante che sembra infinito. Soltanto un istante che è per lei.

Lui non è l’unico, come non lo è lei. Eppure c’è qualcosa, in quell’amplesso all’apparenza così sterile, così inutile, che sporca la purezza di una bimba con la sua peccaminosità. In quella stanza bianca come lei stessa ha chiesto. Con quello sguardo di plastica a seguirla in ogni gesto.

C’è qualcosa di speciale.

Le scatta dentro qualcosa, mentre tutto si svuota e il suo respiro si fa più rapido. Qualcosa che ha valore.

C’è qualcosa che per lei ha un valore e per il suo cliente No. Che non ha valore per tutte le donne di piacere di quel bordello di lusso, nel centro di Tokyo, sotto i raggi morenti del sole, sopra metri e metri di caos urbano.

Qualcosa di immensamente speciale, che la rende unica in quel momento. Unica lei e unico il momento.

È quello.

È quello, proprio quello.

Proprio quel calore, quella sorpresa, quella speranza.

E non è il fare l’amore con un uomo, non è il farsi toccare, non è l’essere lì, su quel letto dalle lenzuola bianche, con alle spalle la sua innocenza, non è dire addio a se stessa.

No, non è questo.

È altro.

È lo sguardo. È lo sguardo che arde, desidera, freme di, così vuole credere, amore. E cosa importa se è illusione? È lo sguardo che vede negli occhi delle madri, dei figli ,degli amanti. È lo sguardo che le dice “Sei bella. Non sei unica, ma almeno sei bella. E io ti desidero, resta con me questa notte.”

Sì, per questa notte, poi domani chissà.

È questo sguardo che la fa fremere, perché per un solo momento e per un uomo diverso ogni notte, lei sarà la cosa più bella del mondo.

Apre gli occhi, posa lo sguardo sullo scaffale, ride.

Il cliente la guarda stranito, mentre si riveste. “Perché ridi?” e sorride anche lui.

Rido perché ora ho capito. Rido perché mi hai guardato con desiderio e io volevo solo questo. Volevo immaginare il volto di mia madre con il tuo sguardo. Volevo essere la figlia desiderata, amata, voluta. Volevo essere il suo giglio, la sua piccola stellina. Volevo essere questo. E grazie a te, che per me non sei niente, lo sono stata.

Deve essere ancora più bella, adesso, ora che si sente piena e luminosa, ora che non è più in bilico fra infanzia e maturità. Deve essere così, perché il cliente sorride teneramente e le posa un bacio sulla fronte.

Anche se ha perso la sua purezza, lei è la piccola Karen. È una bimba. E all’alba, smette di essere la donna del desiderio.

“Addio, spero di rivederti” le dice.

Non è il mio corpo, stanotte. È la mia anima. Nient’altro.

Quando la porta si è chiusa, Karen prende fra le braccia l’orsacchiotto e ride.

Se tu potessi essere qui mamma, vorrei che il tuo sguardo avesse il calore di questo piccolo sguardo di plastica.


Hellionor

 
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