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Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: SANGUE E SPAZZOLINI
Genere: Sentimentale
Rating: Per Tutte le età
Autore: mewsana galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 14/11/2005 17:50:19

fanfic arrivata 3° nell`edizione appena conclusa del concorso di efp, genere drammatico.
 
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**°**UNICO**°**
- Capitolo 1° -

Storia nata senza un perché.
Ringrazio solo il mio papi, per aver detto che era una vera schifezza e per avermi dato la forza di correggerla ribaltandola cominciando dal principio.




Qualcuno ha mai desiderato commettere un omicidio?
Questa potrebbe essere la vostra buona occasione.
Un passo.
Mi serve solo un passo per essere fuori da questo schifo di mondo.
Solo che non riesco a muovermi.
Così, se qualcuno fosse così gentile e anche pazzo da darmi una spintarella, gliene sarei eternamente grato.

-Ehi amico......... hai da accendere?- diamine, mi sono preso uno tale spavento che per poco non volavo giù davvero.
Squadro il mio interlocutore con aria leggermente perplessa, credo. Probabilmente pensavo che il mio ultimo momento sarebbe stato più epico, magari con tanto di musica triste in sottofondo.
Quella musica che accompagna parole mai delineate dalla nostra bocca, stanca di parlare e di mai essere ascoltata. Ce ne sono tante di bocche come questa, nella mia storia come nelle storie di molti. Ma come le parole si infrangono contro quei muri di ignoranza tanto tipici degli uomini, anche i sogni trovano nella realtà il loro muro.
-Cosa stai facendo? Non ti sembra un po' tardi per stare fuori?- e di nuovo parole superflue si aggiungono a questo momento che ha già detto tutto. -Mi vuoi rispondere?- o è particolarmente intelligente e scaltro, oppure particolarmente stupido. Sondo entrambe le possibilità: forse sta cercando di salvarmi sviando la mia attenzione altrove, oppure è uno dei soliti pazzi che girano per la città in preda agli effetti dell'alcool o del troppo fumo illecito.
Mi aspettavo di tutto da questa afosa serata estiva, ma evidentemente la mia fantasia non è abbastanza sviluppata. La luna rossa illumina tutto, come da programma, e non si alza un alito di vento.
E io dovrei pensare alle mie ultime parole, che andranno in ogni caso perdute nel rumore delle acque del fiume. Invece sono qui, con tipo che mi chiede se ho da accendere.
È evidente che nessuno vuol farmi godere quest'ultimo brandello di vita rimasta.
-Non ho voglia di raccontarti la mia storia... è troppo lunga e priva di senso... lasciami morire in pace.- solo dieci secondi dopo mi rendo conto di quello che ho appena detto. Un'altra ragione per suicidarmi, penso. Altre parole sprecate! Speriamo esse volino verso bocche più parsimoniose e desiderose di usarle.
-Non me ne frega un cazzo della tua storia, voglio solo sapere se hai da accendere- mi fredda con una frase che proprio non mi aspettavo, lo ammetto. Lui si che le parole le sa usare. Parole mie, bocca mia, prendete esempio!
-Cosa....? Oh si, certo...- mi agito irrequieto sulla ringhiera tenendomi con una mano al palo che fino ad ora mi ha sostenuto, mentre cerco a tentoni un accendino dentro l'impermeabile nuovo.
Se proprio devo morire, meglio farlo sembrando più ricco di quello che sono, non vi pare?
-Ecco, tieni.- gli porgo il mio accendino con sopra i cuoricini. Mi fa quasi sorridere quella fantasia così ben disegnata su un volgare pezzo di plastica usato per rovinarsi la vita, oltretutto.
Mentre accende la sua sigaretta e tira il primo soffio, ho l'occasione giusta per studiarlo.
Alto, non particolarmente bello ma attraente, causa anche l'aria da cinico stronzo che è spalmata sul suo viso.
Non sembro un tipo che sta per suicidarsi, vero?
-Posso raccontarti la mia storia?- Freud racconta che se uno dice così espressamente di volersi suicidare, allora vuole solo essere salvato. Forse non voglio morire.
Chissene frega.
-Se proprio non hai niente da fare...- ok, ora lo tengo qui inchiodato per sei ore solo per il piacere di annoiarlo. I suicidi sono anche bastardi...? Certo, se così non fosse, avrei la certezza che sono solo un finto suicida.
-La mia storia inizia tanto tempo fa...- o forse era meglio iniziare con "C'era una volta..."?

[...]

Forse quello che mi mancava era il coraggio, e allora facevo finta di non voler morire.
Oppure ero solo un poveretto bisognoso di aiuto medico-psichiatrico.
Ad ogni modo, quel tipo è stato così gentile, o così stronzo a seconda dei casi, da darmi quel coraggio che non avevo.
Mi ha buttato giù perché glielo avevo chiesto -non credo- oppure perché lo avevo annoiato così tanto -più probabile-?
Ma sono fiero di me: ho fatto quel che dovevo, ho tramandato la mia storia ai posteri!
Ora quel tipo, che svolge il lavoro di giornalista -almeno così mi ha detto-, avrà il suo pezzo di cronaca per l'edizione del mattino.
"Cuore infranto e straziato dalle avversità si getta dal ponte per dimenticare"
Già mi vedo i titoli, in prima pagina! E finalmente anche io avrò il mio momento di gloria!
[...]
Sapete chi viene definito un bugiardo autorizzato?
Vi state chiedendo perché?
Lui lo sa.
Allora forse saprete.



**°**



-Dimmi che non l'hai fatto.- George Flyer osservò con occhio scettico il suo migliore amico. Avrebbe riso se tutto quello che l'uomo gli aveva raccontato non fosse sembrato così reale.
-Invece si, l'ho fatto.- Nathan Andrei Mulast scoccò alla segretaria un'occhiata piena di desiderio rivolta più che altro alle forme piene, che al viso troppo sciupato. La stessa che la donna gli aveva riservato poco prima.
Schioccò la lingua, annoiato -Senti George, non vedo il motivo di tutta questa preoccupazione, tutto sommato. Ho solo fatto quello che mi aveva chiesto.-
Pausa. Silenzio.
-Non ci credo...- la cosa che più odiava in Nathan era quell' insopportabile tono altezzoso che dedicava ad ogni argomento di conversazione.
La risposta a quell'affermazione fu solo una penetrante occhiata, che mise all'erta tutto il buon senso del confidente.
-L'hai ammazzato davvero!!!- urlò quasi. Altra occhiata.
-Santo Dio!!- esclamò, scaricando il peso del suo corpo -e della verità- sulla scrivania.
-Risparmiati le eresie, George, sono fuori luogo. Io non ho ammazzato proprio nessuno, gli ho solo dato una mano a farla finita.- sbuffò, alzando gli occhi e notando che quell'assurda conversazione aveva attirato gli sguardi di tutto l'ufficio.
Si alzò dalla sedia, dirigendosi lentamente verso la macchinetta. Aveva bisogno di un po' di silenzio, e l'ufficio del giornale non era esattamente il posto adatto per garantirglielo.
Attese confortato dal rumore pigro del distributore, mentre osservava le ultime gocce del caffè cercare di resistere alla forza di gravità. Al rumore stabilito, alzò lo sportello e prese fra le mani il bicchierino fumante pieno di liquido nerastro che la ditta cercava di spacciare per caffè.
Che quiete... proprio quello di cui aveva bisogno al momento.
Quiete. E silenzio.
-Non penserai di ignorare l'accaduto Nathy, perché se queste fossero le tue intenzioni hai proprio sbagliato persona- merda!
-Per fare cosa?-
-Per confidarti.- a volte avere un amico così può essere una benedizione quanto l'opposto.
E George quel giorno sembrava intenzionato a fargli ripercorrere ogni istante della precedente serata per fargli provare almeno un briciolo di rimorso.
Ma quelli che lo conoscono bene -come George-, sanno perfettamente cosa aspettarsi dal loro amico, e così tacciono dimentichi di ogni frase scortese o pungente che sia stata appena rivolta loro. Con la sola differenza che la persona che abbiamo davanti è maledettamente testarda.
-Non mi sono "confidato" con te, George... ti ho solo messo al corrente dei fatti recentemente avvenuti, e tutto ciò rientra in quest'ultimi- ma porca miseria!!
-Al diavolo Nathan, mi hai stufato!!! Me ne vado, e caso mai tu abbia qualche altra "novità" da propormi scordati di farlo!!!- gli urlò dietro, visto che ormai il compare se ne stava già andando, un fascicolo in mano.
-Ad ogni modo, il "caso" è mio, George...- sogghignò, sventolando il dossier con aria trionfale.
Ci fu un attimo che sarebbe ideale definire come attimo di smarrimento.
-Non ci credo....- allibì l'uomo, cominciando a correre e piantandosigli davanti appena prima che entrasse dentro all'ufficio. -Tu non puoi scrivere quell'articolo!!!- abbaiò George, gli occhi che parevano sporgere oltre il limite naturale.
-Perché no?- lo provocò malizioso, assumendo un'aria fintamente perplessa. Se dovessimo classificare le persone in base all'animale che ricordano, Nathan sarebbe l'icona ideale per una volpe. Scaltro e sfuggente.
-Perché sei troppo coinvolto!-
-Dillo al capo...-
-è quello che ho intenzione di fare!!!!- gli disse, muovendosi per superarlo.
-Ok, ok, calma George!- il ragazzò lo bloccò mettendogli le mani sul petto. -Se prometti di stare zitto, ti racconto una cosa.-
-E che cosa, sentiamo! Forza, non ho tempo da perdere!!-
-Lui... il tipo, insomma, quello che si è suicidato...-
-Quello che hai ammazzato, tirando le somme- lo corresse l'amico, mentre in un gesto impaziente e allo stesso tempo provocatorio incrociò le braccia al petto. Detestava perdere la calma. Dovete sapere che poche cose lo mandavano in bestia: Nathan e i computer. Ed entrambi erano presenti nell'ufficio davanti a lui.
Un mix letale.
-George!!-
-Va bene, ma sbrigati!- concesse gentilmente, un poco dispiaciuto dalla battuta forse troppo acida.
-Mi ha raccontato la sua storia: se ci lavoriamo bene, ne tiriamo fuori un pezzo da premio Pulitzer!!!- comunicò un poco eccitato all'amico. Gli sventolò davanti al naso il dossier del caso, come a volerglielo far veramente vedere. -è la nostra occasione, capisci?-
-Capisco solo che con un pezzo di nera accostato a uno di rosa ne caverai ben poco. Al capo non piacciono queste stronzate melense e appiccicose, Nathan.- disse. La testa si muoveva un poco irrequieta, perché sebbene la mente gli suggerisse di non dare corda a quello spostato, l'istinto lo spingeva esattamente nella direzione opposta.
E Nathan fu lesto a cogliere quella piccola indecisione. -Io non voglio un articolo bomba, George! Io voglio scriverci un libro, con questa roba! Integrando qua e là dei piccoli pezzi, abbiamo materiale a sufficienza per emulare il signore degli anelli quanto a lunghezza!!-
Altro attimo di perplessità. Tutta quella insicurezza nel catalogare quella roba come schifezza lo facevano preoccupare.
-Non voglio speculare su una storia altrui, Nat. Limitati a scrivere un cerimonioso articolo pieno di sentimenti vari e tanto compatimento. La nostra conversazione si chiude qui- e fece per andarsene, un po' disgustato dal suo amico e un po' disgustato dalla sua crescente curiosità.
Ma non voleva infilarsi in una serie di querele da parte di parenti e amici.
E non voleva scavare troppo a fondo. Non sai mai cosa potresti trovare, quali scheletri ognuno custodisca nel proprio armadio segreto.
Perché bisogna saperlo trovare, questo armadio. E questa non è facoltà di molti, e George lo sa. Ma diffida lo stesso, perché Nathan a volte non ha pietà, e George sa anche questo.

È incredibile quanto tutto tu consideri saldo e inattaccabile crolli come un castello di carte. Proprio quando non te lo aspetti. -E se noi non toccassimo la sfera personale di nessuno? Niente scheletri, George.-
E così l'amico si ritrovò privo di qualsiasi protezione. Di quelle scuse che si era premurato di trovare dentro al suo cuore che ormai ne ha viste troppe per non essere marcio, ma che ancora trova la forza per resistere alle schifezze del mondo.
-Cosa vuoi dire? Ma se mi hai appena detto...-
-Fidati di me. Niente. Scheletri.-
Lo osservò per un lungo, interminabile attimo di insicurezza: fidarsi del tuo migliore amico o del tuo buon senso?
-Dimmi tutto quello che ti ha raccontato.-



**°**



[...]

"Ma oggi, parole mie, volerete su un foglio che sa come rendervi capolavoro. E verrete accarezzate da una mano diversa, estranea dalla mia, che eppure vi apparirà come quella paterna. Perché quella è la mano che tanto avete bramato, nel limbo dei miei pensieri. Aspettando che la mia stonata voce vi desse un suono, per farvi conoscere al mondo.
Ebbene, bambine mie, parole mai dette o appena sussurrate in una notte afosa con la luna del colore del sangue... parole appena sussurrate ad un uomo estraneo che considerate padre vostro e della mano che vi marchierà a fuoco, indelebili, su un sottile foglio. Oggi e domani, siate capolavoro."

[...]



**°**



-E allora...?- sprofondò ancora un poco nell'orribile poltrona color verde dell'ufficio. Che diavolo di gusto doveva aver avuto il precedente proprietario!
-Stavo cercando... il mio taccuino...- brontolò Nathan Andrei Mulast da sotto la scrivania.
-E lo cerchi lì sotto?- ironizzò l'altro, abbassando la voce in tono confidenziale e avvicinandosi un poco a lui con un movimento del busto. -Giuro che non lo dico a nessuno, che lo hai perso...-
-'stardo...- disse, per poi uscire dal cavernoso antro -leggi scrivania- con un conciatissimo taccuino di pelle tutta macchiata, che sicuramente rappresentava l'arte del giornalismo meglio di quelle asettiche e bianche agende elettroniche.
-Meglio tardi che mai- acconsentì George. Incrociò le gambe, mentre il sopracciglio destro si piegava in segno di evidente scetticismo. Quando lo faceva, a Nathan ricordava tantissimo quel lontano zio che aveva cercato di ucciderlo. In effetti avevano la stessa corporatura, capelli biondicci e occhi di un castano vivo.
Ma quella era un'altra storia.
Decisamente un'altra storia.
-Allora...?- sobbalzò colpito quasi dal tono di quella domanda. Mosse la testa a voler scacciare quei pensieri, mentre un sorrisino gli piegava il labbro.
-è inutile che tu finga indifferenza, vedo benissimo le tue orecchie ritte a captare ogni particolare.-
L'amico, colpito in pieno, sbuffò con evidente rassegnazione.
-16 parole che avresti benissimo potuto usare per fare le condoglianza a quella povera famiglia, Nathan- lo rimproverò bonariamente, mentre la testa ormai gli stava diventando una centrifuga, a furia di scuoterla.
-Non ha famiglia.-
-Questa sono 3 parole che fanno male, lo ammetto. Va bene, ti ascolto.-
-Grazie...- replicò ironico, accomodandosi anche lui in poltrona e tossicchiando allo scopo di schiarire la voce.



**°**



Sam Malgoe, per amici e non Sammy, mise piede sul territorio del Vietnam per la prima volta nel 1950, complice anche l'amato e mai da lui dimenticato presidente Kennedy.
L'impegno da lui preso non aveva certo la forma di un sogno roseo e splendente: lui era lì per un solo motivo, e quel motivo era combattere.



**°**



-Scusami se te lo dico, Nathan, ma il tuo amico doveva avere qualche rotella fuori posto!! La guerra del Vietnam inizia nel 1961, undici anni dopo di quanto detto dal tuo amico- abbozzò George, reprimendo una risata. E così, proprio come aveva previsto, la storia andava complicandosi.
Nathan alzò lo sguardo dal taccuino, arrabbiato. -Abbi pazienza, mi avevi promesso che mi avresti aiutato o sbaglio?- la voce poco più che un sussurro tagliente.
-E va bene, continua pure...-
E poi un lungo sospiro rassegnato.



**°**



Ad ogni modo, quello non era il fantastico mondo patriottico a cui era stato abituato nel campo di addestramento, in America. Certo, anche lì era stato schernito, ripreso, insultato e picchiato.
Ma c'era quel non so che di nobile, di valoroso, in tutto quello che faceva: le tazze erano a stelle e strisce, come le lenzuola, le magliette e gli spazzolini. Che di certo qui non venivano puliti dai secoli, pensò il ragazzo rabbrividendo di fronte allo spazzolino pieno di sporcizia e resti di cibo. Si scompigliò la zazzera rossa che lo distingueva nel gruppo, assaporando l'aria del luogo che lo circondava.
Si pentì immediatamente del gesto quando, analizzando i vari odori recepiti dal naso, vi trovò muffa mista a ferro.
Da piccolo gli era stato insegnato che il bene trionfa sul male, sempre e dovunque.
Da quel giorno, Sammy ebbe modo di capire quanto era stata ingenua e sciocca sua madre, semplice contadinella del sud. Perché, nonostante tutti gli insegnamenti e le favole con la morale, il male resta sempre accanto a noi, come un piccolo sentiero parallelo.
Ed è vicino, questo sentiero, più vicino di quanto nessuno possa immaginare. A volte gli capita di divenire tutt'uno con la strada principale.
E la prima vera visione di questa superstrada gli fu offerta dal suo capitano, che trovò in una tenda a parlare con qualcuno sussurrando una lingua che sicuramente non era americano, e tanto meno inglese. Forse vietnamita.
Ora. Sammy non conosceva il vietnamita, ma era abbastanza intelligente per capire che il suo generale faceva il cosiddetto "doppio gioco". Si, c'era l'eventualità che stesse parlando con gli alleati, ma a lui era stato comunicato che avrebbero agito all'insaputa d tutti, e quel tipo di comunicazioni gli sembravano sospette.
E così, dopo soli dieci minuti dal suo arrivo, tutto gli appariva confuso.
Tradire il proprio comandante, la sua luce, il suo messia? Proteggere lo spirito americano dagli attacchi del nemico?
Decise di lasciare "ai posteri l'ardua sentenza", semmai avesse davvero usato questa frase, scrollando le spalle in segno di rassegnazione.
Perso nella sua personale dimensione patriottica, aveva pensato che nessuno sarebbe mai stato così sciocco da tradire la propria patria. E per un piccolo, lungo istante era apparso simile a sua madre, colei che da piccolo gli raccontava tante belle favole in cui il bene vince sul male.
Ma le favole che avevano convinto Sammy, poco tempo prima, erano gli accorati appelli del suo presidente, che davanti a una telecamera, supplicava i civili in grado di combattere affinché rendessero onore al proprio paese.
E la favola che lui vedeva adesso, coi suoi occhi acquosi azzurri, era una favola piena di soldati stanchi di combattere, e di sangue più comune dell'aria che si respira.
Tutto aveva un posto laggiù, ma nulla aveva un senso.
E il piccolo grande soldato americano lo capiva passando per l'infermeria e notando gli strumenti sporchi -più degli spazzolini-, e i sacchi pieni di cadaveri. E i volti pallidi degli uomini, più morti che vivi.
E ancora il suo pensiero volò alla madre. Che forse, aveva proprio torto, quando raccontava quelle favole.
Laggiù nella pianura dei Gobi, in mezzo alla foresta verdeggiante e infangati fino alla testa, il sogno americano acquistava così, improvvisamente, un'altra, complessa faccia.
La faccia che sta nascosta , che agisce nell'ombra, e che nell'ombra muore.



**°**



-Molto commovente- poggiò il mento sulla mano, come a volersi solo un secondo riposare.
-Entra molto nei meriti politici della vicenda- chiarì subito Nathan, aspettandosi quasi un rifiuto del suo amico. Forse quella storia lo aveva preso troppo, tutto qui.
-Ma qui il tuo avventuriero commette il suo secondo errore, Nat. Non vi è nessuna pianura dei Gobi, in Vietnam, e tanto meno in nessun'altra parte del mondo.- interruppe la frase, lanciandogli un'occhiata significativa.
-Ma certo, esiste il deserto dei Gobi!!- s'illuminò l'altro. -Non capisco come ho fatto ad essere così sciocco...-
-Ti sei fatto prendere troppo dalla storia. E poi mi avevi promesso che non saremmo entrati nell'ambito personale. E insomma, ci stiamo già parecchio, almeno fino alle ginocchia- detto questo, si alzò, portando le braccia verso l'alto a sgranchirsi le membra.
-Dove vai George? Mi avevi promesso che avresti ascoltato tutto-
-Tranquillo, mi prendo solo un caffè. Poi torno, lo prometto- gli sussurrò a pochi cm dal viso, ridacchiando quasi della sua paura.
Nathan arrossì lievemente per l'imbarazzo, portandosi indietro con il busto.
-Vai pure- borbottò seccamente.
-Grazie...-
Dopo che la porta si fu chiusa dietro all'amico, Nathan lasciò scappare un sospiro di rassegnazione. Forse questa storia lo stava davvero ossessionando. Forse doveva lasciar perdere. Tuttavia, il potere che quel taccuino scritto velocemente aveva su di lui era pari solo al potere di una donna che si ama.
Era diventato qualcosa di personale. Certo, poteva anche spiegare tutto a George, ma preferiva che l'amico scoprisse da solo il piccolo trucco dietro a quella storia.
Lasciò andare all'indietro la testa, socchiudendo gli occhi dorati, feriti per un attimo dalla luce che era passata dalla porta.
-Ah George, sei già tornato... sei ansioso di continuare eh?-
-Signore, sono Valerie...-
Cavolo, che figura! Sorrise malizioso alla ragazza mora, reprimendo l'imbarazzo.
-Oh, mi scusi Valerie, pensavo fosse...-
-Si, il signor Flyer, l'avevo capito- disse ella, ridacchiando. Scosse la testa riccia e osservò l'uomo con i suoi occhi turchesi per un lungo, interminabile attimo.
Poi, sempre ridendo, poggiò alcuni fascicoli sulla scrivania e ancheggiò lievemente fino alla porta. Come una classica segretaria.
-Dovrebbe far ordine qui, signor Mulast. Il disordine fa male alla salute. E lei mi sembra già abbastanza sciupato.- e con questo, si richiuse silenziosamente la porta alle spalle.
-Benedetta ragazza...- sospirò, chiudendo gli occhi. -Forse prima o poi l'invito ad uscire...-
-Sabato questo va benissimo!- gli urlò Valerie dall'ufficio, facendogli reprimere una colossale imprecazione.
Da quando le donne erano così maledettamente smaliziate?
O si era perso qualche secolo, oppure non usciva con una ragazza da troppo tempo.
Rifletté anche su questo: il suo lavoro lo prendeva troppo, molto probabilmente. Erano mesi che la sera si sedeva al tavolo da lavoro, a casa, e buttava giù bozze su bozze, alla ricerca dell'articolo perfetto. E per trovarlo, quell'articolo, c'era un prezzo da pagare.
Nathan pagava in vita sociale ciò che otteneva nella sua sfera lavorativa. Amore per lavoro.
Tutto sommato, uno scambio per lui accettabile.
Bevve l'ultimo sorso del suo caffè, ormai freddo, per poi alzarsi a gettare il bicchiere di plastica nel cestino, dall'altra parte della sala. Al massimo 6 m e mezzo.
Improvvisamente, per Nathan, quei 6 m e mezzo divennero la lontananza dall'amore.
Alzarsi e faticare, oppure stare lì, a sprofondare nel limbo dei proprio pensieri, ad ordinare parole da posare su carta?
Forse poteva anche correre il rischio, si disse. Poteva anche rischiare di slogarsi una caviglia, in quel percorso. Ma poteva anche uscirne più allenato, più forte.
Con un tonfo, il bicchierino precipitò nel sacchetto della spazzatura. Voleva davvero finire come quel bicchiere? Preso, usato, dimenticato e gettato? Senza far nulla per distinguersi?
E così il ragazzo si convinse che aveva anche la possibilità di raggiungere la porta ed aprirla.
-Valerie, sabato alle otto, la passo io a prendere- e tornò nel suo antro cavernoso, più allenato nel cuore.
Attese il ritorno del suo amico un po' meno teso, ma sempre impaziente di fargli trovare l'indizio. Quello che avrebbe definitivamente convinto George a scrivere un libro, senza rimorsi.
-Ti sei imbambolato?-
-Uh...?-
-Dai, riprendiamo...-
-Si, subito!- scattò immediatamente ritto nella poltrona, riprendendo il taccuino. Ne sfogliò velocemente le pagine, assumendo ogni tanto un'aria scocciata.
-Che c'è?-
-Mi sono dimenticato di scrivere un articolo... pace, lo farò saba...- tacque, interrompendosi. Sabato proprio no. Non ricominciamo Nathan, si disse.
-Cosa stavi dicendo?-
-Nulla, lascia stare. Niente che ti riguardi.-
-Bene... a dove eravamo rimasti...? A volte ho l'impressione che tu mi nasconda qualcosa...-
-L'arrivo in Vietnam- gli ricordò, fermando finalmente le mani e bloccandole sulla giusta pagina del quaderno. Aveva ovviamente eluso la domanda, ma la cosa non preoccupò minimamente l'altro, che a quel genere di comportamento ormai era abituato.
-Vero. Allora, la nostra storia di cosa parla esattamente?- chiese.
-Aspetta e vedrai....-
-Mi fai paura quando dici così...-



**°**



-Questa foresta mi fa paura.- esordì Sammy, rompendo quel fastidioso silenzio che si era creato nel gruppo. Forse, però, Sam era l'unico a cui quella situazione di stallo dava noia.
-Senti amico, preoccupati di salvarti il culo e lascia perdere la conversazione- gli rispose a tono il soldato che stava davanti a lui, collo taurino e piccoli occhi nocciola. Una specie di carro armato modello uomo, insomma.
-Ok...- buttò lì senza troppa convinzione, guardandosi intorno. Aveva la sgradevole sensazione -ma anche in quello era l'unico, molto probabilmente- di essere osservato da parecchi paia di occhi. Sarà sicuramente il posto, suggestiona facilmente, aveva pensato.
-Ehi, ti credi meglio di me?- si sentì prepotentemente sollevare dall'uomo di prima. Sentì i suoi scarponi sollevarsi di alcuni cm dal suolo fangoso, e il respiro farsi più raro.
-Che dici...- protestò debolmente, paonazzo in viso.
-Mi hai superato, stronzetto...- chiarì subito l'uomo, tale Harry Campdell.
Sam l'osservò un poco sconcertato, fino a che nn si rese conto del suo errore. Lo aveva sorpassato prima, mentre stava pensato alle insidie del luogo.
-Non... volevo....-
-Lo spero per te.-
Con un gesto violento lo rispedì a terra, facendolo cadere col sedere nel fango.
-Ehi!- si lamentò ingenuamente; -Chi cazzo ti credi di essere?-
-Uno meglio di te.- e così, chiuso il discorso, ricominciò a camminare con passi svelti, lasciando che si alzasse da solo.
-Tom...- il rossino richiamò l'amico; -Perché diavolo se l'è presa tanto??-
Il ragazzo sbuffò, incredulo di tanta ingenuità. -Non l'hai ancora capito, Sammy? Lui qui è il più forte, e il giro lo comanda lui. Non. Pestargli. I. piedi.-
-Ma...-
-Zitto e cammina.- ordinò perentorio, riprendendo la marcia.
Nessuno aveva voglia di dimostrarsi loquace in quel momento, e in quel posto. Nessuno che volesse condividere dei pensieri, o scambiare semplicemente due o tre opinioni.
Sammy mandò un misurato accidenti a Kennedy, riprendendo il posto nella fila.
Lui e i suoi discorsi alla televisione.
Che poi, a voler esser onesti, lui mica ci stava sguazzando in quel fango.
Lui poggiava i suoi delicati piedini sul tappeto rosso della sala conferenze.
E un accidenti raggiunse anche il padre del ragazzo, che molto probabilmente stava seduto in poltrona.
Stava per mandarne uno anche a quella santa donna di sua madre, così, per essere equilibrati, quando un sibilò gli perforò quasi il timpano sinistro.
Sammy Malgoe, quell'undici agosto, alle ore dieci e trenta circa, se lo sarebbe ricordato per sempre. Avrebbe per sempre ricordato tutto quel sangue cadere sul fango, così come i corpi dei suoi compagni, che finalmente potevano smettere di combattere.
E avrebbe ricordato, indelebile, come un tatuaggio, quel senso di terrore che solo pochi provano in tutta la vita. E la conseguente realizzazione che, a farsi ammazzare in un agguato, ci stava lui, e non Kennedy, né tanto meno suo padre. E che, in realtà, lui non sapeva nemmeno per quale motivo quel conflitto era stato acceso.
Ricordava distintamente ogni sua più piccola azione: aveva imbracciato l'enorme fucile, che al primo colpo gli aveva quasi sfondato una spalla e quasi ammazzato un suo compagno di camerata. E poi, come in un sogno, i particolari sfumavano. Il buio si fece più insistente per Sammy, e l'odore acre del sangue mischiato al fango fu l'ultima cosa percepita dai suoi sensi.
Un rumore a lui incomprensibile lo scosse. Tenne chiusi gli occhi. Ancora quel suono. Non capiva se fosse distorto dalla sua testa confusa, oppure se fosse un idioma a lui sconosciuto. Ad ogni modo, le sue palpebre rimasero sigillate. E ancora, ancora, ancora. Al suono si unì anche una presa delicata sulla sua spalla che lo indusse a risvegliarsi dal dormiveglia.
E vide quello che negli anni successivi sarebbe diventato il suo più bel ricordo, come anche l'incubo delle sue notti.
Lei, regina della notte in abito militare, lo fissava. Gli occhi scuri sulla pelle abbronzata si muovevano irrequieti. E i capelli corvini, lisci, sfuggivano ribelli alla presa crudele della fascia che li teneva legati.
Aveva una bellezza non abbagliante, ma abbastanza riservata.
Era una bellezza fuori dal comune, per Sammy. Ma più la guardava, più si convinceva che quella ragazza minuta e gracile gli piaceva più delle bionde prosperose della tv.
Lei, dal suo canto, osservava incuriosita quell'uomo così alto e con degli abbinamenti cromatici così singolari. Sicuramente un americano.
-Why....... Doesn't you... kill me...?- le domandò incerto, in un inglese scombinato a causa dell'irrequietezza che gli bloccava la lingua.
La ragazza fece un passo indietro, intimorita.
-No... no...- fece scuotendo la testa e tendendole la mano.
Ella, allora, si sedette su un ramo poco distante, a circa dieci metri. Reclinò la testa di lato, con estrema dolcezza. Poi fece un lungo respiro, quasi a voler togliere l'aria a tutto quel posto e rimanere così, sospesi, per un tempo che non è purtroppo infinito.
-Sammy...- disse il ragazzo indicandosi con l'indice, la mano che tremava leggermente. Lei era chiaramente un soldato... una vietkong. E allora perché, perché rimaneva così, a fissarlo? Perché non prendeva la pistola che aveva nella tasca, perché non gli sparava?
Perché?
Una serie infinita di domande gli giravano nella testa, continuando a sbattere tra di loro, senza trovare alcuna risposta.
-Nhung... (legge Niu nda) - rispose lei piano, quasi a non voler farsi sentire. Timorosa e dolce allo stesso tempo, arrossì, come se pensasse si essere maggiormente esposta a lui dopo avergli rivelato il suo nome.
-Nhung...- ripeté. Poi scrisse la data del giorno dopo sul fango, avvalendosi dell'aiuto di un bastoncino.
-Tomorrow...- disse indicando il suo orologio sporco, e infine battendo il piede al suolo.
Ella annuì, per poi scomparire con una serie di movimenti felini all'interno della foresta.
Domani. Qui. A quest'ora.
Stava impazzendo forse...? Aveva dato un appuntamento ad una nemica...
Stava tradendo quello per cui era partito. Avrebbe dovuto ucciderla, o per lo meno catturarla. Eppure... non poteva. In primo luogo, era una donna. In secondo luogo... non lo sapeva nemmeno lui.
E tirando un lungo sospiro si girò verso la foresta che lo attendeva, minacciosa. Desiderosa di accoglierlo e di mai più lasciarlo.
Se voleva tornare qui, domani, il primo passo era ritrovare il luogo di ritrovo.
Tutto il resto, tutto quello che non riusciva a capire, tutto sarebbe venuto dopo.



**°**



-Incredibile come le donne riescano sempre a incasinare tutto...- commentò George Flyer dalla sua poltrona.
Nessuna risposta.
-Si insomma, è sempre stato così ligio al dovere, così fedele al suo stato e ora...- proseguì imperterrito, facendo delle strane smorfie.
Occhiata truce.
-Eddai Nathan, concorderai con me riguardo a tutto ciò...-
Lieve inclinazione del sopracciglio destro.
-Ma tu concorderesti con me solo se stessi zitto, giusto? Va bene, hai vinto tu... sto in silenzio...- sospirò rassegnato, alzando le spalle.
A dir la verità Nathan pensava intensamente a quello che stava dicendo a George, alla storia che gli stava raccontando. Era come rileggere, in chiave, la sua biografia.
Anche lui, accecato dal successo e dalla voglia di denaro, si era buttato a capofitto nel mondo del giornalismo. Anche lui, tempo prima, si era trovato davanti a un bivio: allontanare dal suo mondo le donne, oppure "tradire" il proprio lavoro?
Ci aveva messo più di cinque anni per capire lo sbaglio che aveva fatto tempo prima.
Il povero Sammy invece, era stato illuso e distrutto nell'arco di una settimana.
Si sarebbe davvero incarnato in quel soldato, se...
Avrebbe provato pena, se...
Tutto sarebbe stato diverso ai suoi occhi, se...
Cosa avrebbe fatto lui, se...?
Si schiarì la voce con un secco colpo di tosse, per poi riprendere a leggere.



**°**



[...]

"Miei dolci tesori, frutto di quello che sono stato... o di quello che sarei stato se...
Tutto nella mia vita è pieno di se, di forse. L'unica certezza, l'unica realtà, l'unico appiglio rimastomi siete voi, mie adorate, che tanto ho penato per poggiare su una trama e cucire con maestria.
E il soldato, spaurito, non riesce nemmeno a pronunciare una frase corretta. Solo per me, voi, mie adorate, siete una costante.
Anch'io sarei stato così se...?"

[...]



**°**



La cena passò piano, meccanica, protagonista un soldato di cui non ricordava nemmeno il nome, che aveva rovesciato un tavolo cadendoci sopra.
Una cosa l'infastidiva: tutti lo guardavano divisi tra quelli che lo commiseravano e quelli che non lo potevano vedere.
Perché lui era dovuto sopravvivere...?, si chiedevano i suoi compagni. Perché lui e non gli amici che aveva con sé...?
Ma una cosa che Sammy Malgoe si chiedeva rabbioso, schiumante, era perché nessuno si sincerasse delle sue condizioni. Perché tutti pensavano che lui stesse bene, che fosse sereno e calmo.
Perché?
Oltretutto, alla rabbia si sommava la confusione. E così, nel corso della cena, si era lasciato dietro, a terra, due bicchieri e un piatto, oltre che una buona quantità di acqua potabile.
Dopo l'inno americano, ogni soldato si era congedato, ritornando alla propria branda.
E Sammy era sempre più insicuro. Aveva provato a scrivere una lettera ai suoi, ricordava vagamente di averlo promesso alla sua partenza, ma nulla.
L'unica cosa che era riuscito a scrivere era < A mamma e papà, tante grazie e andate a 'fanculo >. Non capiva, non capiva, non capiva! Da quando odiava così tanto i suoi genitori, da quando non poteva sopportare il ricordo della partenza per il Vietnam?
Ricordava la gioia che aveva provato quando era salito sui primi gradini dell'aereo. Si era girato, guardando i suoi genitori, come a dire "Guardate, vostro figlio è grande!".
E ora invece, grande rischiava di non diventarlo. Rischiava di trascorrere il resto dei suoi giorni in questa schifosa palude, e di morire annegato in quello schifo di fango.
E poi...... poi quella ragazza gli aveva rivoltato il mondo davanti agli occhi, risparmiandolo. Cosa doveva fare ora? Ricambiare il favore, come prescritto da ogni codice di valore, oppure servire la patria, facendola uccidere?
Tutto turbinava violentemente davanti ai suoi occhi azzurri, senza che lui riuscisse a trovarne un senso.
E con questi pensieri in mano, Sammy Malgoe varcò la soglia del sonno, senza trovarne alcun ristoro.



**°**



Caro diario...
Sono tornato al campo. Ci sono tornato da solo. Era ormai mezzogiorno inoltrato.
Avevo vagato per tutta la notte nella foresta, eppure, pensa, nessuno si è preoccupato per me.
Tutti a chiedermi cosa fosse successo.
Solo dopo lo psicologo della base -ma abbiamo anche uno psicologo?!?- mi ha chiesto come stessi vivendo questo trauma.
E io, potrò sembrarti cretino, ma non ho capito di cosa stesse parlando. Penso di essermelo potuto permettere, dopo aver passato tutta la nottata fuori al buio.
Poi... mi hanno detto che i miei compagni sono morti, tutti.
Una fitta acuta mi ha percorso interamente il corpo, costringendomi a rabbrividire sebbene fosse una giornata di sole;
è tutto molto strano... a volte faccio fatica a ricordare le facce della gente, il colore dei loro occhi... ma il colore del cielo oggi me lo ricorderò per tutta la vita.
Un bell'azzurro ironico senza una nuvola.
Io piangevo, lui era felice.
Io ero nebbia, lui calore.
Io ero nulla, lui era tutto.

Non ne posso più di questo posto.
Qualcuno mi porti lontano da qui.
Qualcuno mi porti via.



**°**



-No, scusa... e la pagina di diario da dove l'hai tirata fuori??- allibì George, sporgendosi dalla poltrona per vedere meglio.
-Me l'ha data lui prima di... bhe, quello.-
-Scusa, me la passeresti un attimo?-
-Certo.- Nathan passò la pagina al suo amico.
Questi ne sbriciolò un pezzo marroncino passandoci sopra un dito. Assunse una faccia perplessa. Si portò il documento al naso, aspirando con attenzione.
Un odore non particolarmente dolce ma molto buono gli sfiorò le narici, solleticandole.
Poi spostò la sua attenzione su Nathan. Gli porse nuovamente il documento, chiedendogli con lo sguardo se aveva intuito anche lui quello che aveva pensato.
L'unica risposta fu un sorrisino malizioso.
E George cominciò a capire.



**°**



All'una e un quarto di quello stesso afoso pomeriggio, Sammy Malgoe stava seduto su un sasso nella radura in mezzo alla foresta. Non sapeva nemmeno lui come ci era arrivato. Aveva girato per una buona mezz'ora a vuoto, quando finalmente aveva scorto quella radura in mezzo al folto della vegetazione.
Si era costretto suo malgrado a camminare in tondo a causa del nervosismo che gli attanagliava le gambe, oltre alla mente. Finalmente, dopo un buon quarto d'ora, aveva ritrovato la calma.
Poi lei era apparsa, così, dal nulla profondo, e lo aveva fissato come un leopardo fissa un gazzella debole: io sono tutto, io so come muovermi, tu non puoi niente, e non puoi sfuggirmi.
Di conseguenza, lui era rimasto appollaiato su quel ramo mezzo marcio, a dondolare una gamba, mentre faceva perdere il suo sguardo in quello della straniera.
-Ciao......- balbettò la ragazza dopo un po', in un inglese stentato ma facilmente interpretabile ai più.
-Tu... parli... inglese...?- allibì Sammy quasi offeso, per tutta la fatica fatta ieri per comunicare.
-Si...- gli rispose seria lei, incrociando le braccia al petto, incorniciandone involontariamente le forme.
-Ah...- riuscì a dire solamente lui, facendo peraltro la figura di chi ha capito benissimo lo sguardo all'inizio della conversazione.
Stava lì, seduto come un idiota, completamente in balia di quella ragazza, senza che potesse attaccarsi a nulla per fermare quella corrente di pensieri che gli vorticavano in mente.
E lei, superiore nei suoi 1 m e 60 cm di altezza, lo osservava contorcersi le mani con una sadica soddisfazione, mentre un sorriso le si allargava prepotentemente sul viso.
Conscia di poter fare ciò che voleva di lui, di poterlo mettere in crisi, di poterlo manipolare.
Tuttavia non lo fece.
Fu per pietà, o per semplice divertimento, ma Nhung balzò di fianco al piccolo soldato, scrutandolo in volto.
Sorrise.
E se volessimo raccontare una banale storia d'amore, partiremmo da qui.
Da un dolce sorriso.
Ma non dovremmo raccontare quelli che furono i discorsi dopo, nei giorni che seguirono.

Odio, incomprensioni, reciproci patriottismi si scontravano testardamente, ora dopo ora, minuto dopo minuto.
Sguardi di fuoco che si incontravano, così come le loro lingue che a volte lottavano, prese da un umido abbraccio.
Sammy non amava Nhung, eppure trovava necessario quel loro scontrarsi e incontrarsi in sfoghi d'amore.
Nhung non amava Sammy, eppure quel trovare uno sguardo testardo le era indispensabile.
Così continuava fra i due un complicato rapporto che andava oltre l'amicizia, ma che non superava l'amore.



**°**



-Cosa ti aveva detto il tuo grande amico...? Cosa aveva suggerito l'infallibile George..?- chiese l'uomo ironico, sporgendosi verso Nathan.
-Vuoi chiudere quella bocca che purtroppo ti ritrovi e farmi finire...? Manca poco ormai!- sbottò Nathan Mulast, uno sguardo seccato e divertito nello stesso tempo.
-Chiedo venia se ho interferito con la sua narrazione...- e gli riservò un'occhiata che voleva dire "Non darti tante arie!!".
La risposta, nuovamente, giunse sotto forma di grugnito facilmente interpretabile come "Guarda che stai facendo lo stesso!".
-Forza Nathan, va' avanti...-
-Ti interessa!!!- si illuminò il ragazzo, sorridendo sornione.
-Si... si certo va' avanti per favore...- sospirò il poveretto, ributtandosi improvvisamente all'indietro, sprofondando nella poltrona.



**°**



Tutto per poi giungere a una frase che fa intendere tutto, ma non chiarisce niente.

-Vieni via con me...?-

Nhung lo guarda, perplessa.
Sammy risponde allo sguardo, ostentando una sicurezza che sa di non avere.
Tutti e due si fissano negli occhi, attentamente, rispondendosi in un tempo minore di quanto possano fare delle semplici parole.
E anche se l'americano legge negli occhi della ragazza la risposta, si ostina ad aspettare che le belle labbra si dischiudano. E soffre, in quest'attesa.
Nhung respira, piano, sofficemente.
-No.-
-Perché...?-
-Questa è la mia patria, il mio mondo, Sammy... non pretendo che tu capisca-
E invece lui può, perché di quell'illusione ha vissuto ben 20 anni, salvo uscirne improvvisamente in neanche due giorni.
E allora pensa... quanto tempo passerà prima che la bolla di sapone in cui Nhung riposa scoppi, lasciandola precipitare? Quanto impiegherà per capire che la patria è un insieme di regole tenute a galla con tante toppe?
Quanto passerà prima che anche Nhung veda i propri cadaveri, i propri spazzolini sporchi, le proprie lettere scritte a una famiglia che non conta più nulla?
Questo Sammy non lo sa, ma non può aspettare.
Così la saluta, e nn si presenta all'appuntamento del giorno successivo.
Lui non sa che la ritroverà, due giorni dopo, a parlare col suo comandante, nel campo americano. Era lei la spia.
Sammy non la salutò quel giorno. Le passò a pochi metri, ed ignorò il suo richiamo.
Salì sull'aereo per l'America, e non la rivide mai più.



**°**



-Capisci ora, il mio dilemma? Sono sopravvissuto per anni con questo rancore, ma ora basta.- disse l'uomo, ancora in piedi sulla balaustra, aggrappato al lampione.
-Quello che non capisco è perché lei abbia deciso di uccidersi, perché ci sia rimasto così male...- obbiettò Nathan, ora più loquace, guardandolo sospettoso.
-Ascoltami... lei mi disse che non poteva venire perché era la sua patria, perché era il suo mondo. E invece scoprì due giorni più tardi che lei, proprio lei, faceva il doppio gioco. Per lei la patria non contava nulla.- due soffici lacrime gli scivolarono sulle guance, cadendo poi nelle acque del fiume.
-Forse lei sapeva che l'unico modo per salvare la patria era quella di porre fine alla guerra... anche se così non è stato...-
-...-
-Dico un sacco di cazzate, ok, lo ammetto. Non so cosa dirle... la vita è sua, non mia.- il ragazzo alzò le spalle, in attesa di una risposta che non arrivò mai.
L'uomo scosse semplicemente la testa in segno di assenso, per poi sporgersi verso il torrente.
-Prima di uccidermi... ti devo confessare una cosa, ma promettimi che non lo dirai.... A nessuno...-



**°**



-Allora la storia finisce così...-
-Già...-
-è un po' troppo veloce alla fine, non trovi Nathan?- chiese l'amico, alzandosi dalla poltrona.
-Sono solo i miei schizzi, si può sempre migliorare...-
-Mi avevi promesso niente scheletri, però...-
-Fidati, George... ti ho lasciato un documento sulla scrivania, leggilo prima di uscire..- si raccomandò Nathan, aprendo la porta.
-Te ne vai già?- chiese l'altro, osservandolo.
-Devo andare a scegliere un vestito per una cena...- replicò con un mezzo sorriso. Con una mano aggiustò il bavero della giacca color sabbia che si era piegato mentre indossava l'impermeabile. Agitò una mano in segno di saluto, per poi sparire dietro la pota.
-Buona fortuna, Nathy- scherzò George, rimanendo solo nello studio dell'amico.

Pezzi della storia aleggiavano ancora, come fantasmi di un'epoca passata.



**°**



George Flyer entrò nel suo ufficio, scorgendo immediatamente il fascicolo bianco sulla scrivania di noce.
Eccola.
L'occasione per capire se si era fatto un'idea giusta di tutta la vicenda.
Con mano tremante prese i due fogli, cominciando a leggere. Piano piano un sorriso si delineò sul suo volto, così come negli occhi prese a brillare una strana luce.
-Una storia senza fantasmi...- sospirò.
Per una volta lo era davvero.
Si mise il cappotto nero aggiustando la sciarpa tutta arrotolata, affinché offrisse più protezione.
Spense le luci, chiudendo la porta.
E con un turbinio di idee, scese le scale, fino a respirare di nuovo l'aria invernale.

"Sam Malgoe, vero nome del famoso scrittore noto con lo pseudonimo di S. Y. M.
Creatore di romanzi ambientati durante le guerre in Iraq, come "Nero petrolio" e "Il fuoco dell'oro". Nato nel 1950, nel North Dakota.
Attualmente sta lavorando ad un ultimo romanzo sulla guerra del Vietnam, che tuttavia è, come ha dichiarato lo scrittore, <definito solo nel titolo e in un abbozzo di trama>."



**°**



-Mi dica perché...- chiese Nathan all'uomo.
-Perché ho sofferto troppo...-
-Lei ha sofferto per una storia che non esiste...-
-E questo ti dice quanto strana sia questa storia. Può sembrare semplice, ma io ho saputo vederci una vera e propria vita.- spiegò Sammy, ora possiamo chiamarlo così.
-è una sciocchezza.-
-Forse, ma io non ho più idee, e sono solo. Questa è il lancio pubblicitario del mio nuovo libro.-
-Ha detto di non averlo ancora messo per iscritto...-
-Appunto... a tanta gente verrà voglia di scriverlo.-
-Mi sta dicendo che vuole che sia io...?- chiese, aspettando una risposta che non arrivò.
-Dammi una mano... ti scongiuro...-
-Uccidimi.-

E per Nathan Andrei Mulast quella fu una decisione relativamente semplice.








FINE.

 
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