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Categoria: Manga e Anime
Dalla Serie: Detective Conan (Meitantei Conan)
Titolo Fanfic: I CIMITERI
Genere: Azione
Rating: Per Tutte le età
Autore: akechan galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 16/09/2005 20:49:16 (ultimo inserimento: 23/12/05)

entrare, trovare la lapide, salutare, uscire. non è complicata una visita al cimitero, ma... chi ha lasciato i fiori sulla tomba di akemi miyano?
 
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PROLOGO - I FIORI SULLA TOMBA
- Capitolo 1° -


Paura. Un brivido le attraversò lo stomaco, mentre vedeva una figura nera avvicinarsi pericolosamente, gocciolante e terribile, proprio come Dracula. Quel posto stava diventando troppo affollato. Una ventata gelida spense tutti i lumini, lasciandola completamente al buio, mentre con gli occhi della mente poteva sentire il sangue uscire delicatamente dal cadavere ai suoi piedi e spandersi sul pavimento, proprio come l’olio del supermarket. Ai fu tentata di immaginarsi come la protagonista di un film horror, tenendo fra le mani la parte del demone sconfitto dalla cacciatrice. Così era lei la cattiva, per loro.
Un lampo improvviso squarciò le tenebre, permettendo ad Ai di vedere la figura, con la pistola puntata nella mano sinistra, i capelli e la lunga gonna nera gocciolanti di pioggia come i fiori mattutini per la rugiada, la bocca sottile stretta in una strana smorfia, gli occhi verde acqua concentrati per vedere al meglio nell’oscurità.
Black Russian, ovviamente. Ai abbassò lo sguardo, cercando di tenerlo però lontano dalla macchia scura che rischiava di arrivare alle suole delle sue scarpe. Vi era solo una cosa che la rendeva felice. Almeno, non sarebbe stato Gin ad ucciderla. Non avrebbe avuto quella soddisfazione. In quel momento, sperò con tutte le sue forze che l’aldilà non esistesse, perché non sarebbe mai stata nello stesso posto di Akemi, così sarebbero davvero state separate per l’eternità. Anche Akemi era un angelo, proprio come l’altra.
«Perdonami, Kodou-kun…» sussurrò fra le labbra, in modo che nemmeno lei stessa potesse sentirlo. Non sarebbe riuscita a riportarlo da lei, perché non era riuscita a trasformasi, come lui, tempo addietro, le aveva detto.
Lentamente, la sua mente ricordò da sola come era riuscita a cacciarsi in quella terribile situazione…

Il viale del cimitero scricchiolava come rumore di ossa spezzate sotto i piedi che lo calpestavano. La bambina bionda si fermò al cancello, titubante. Era incerta se entrare oppure no, ed ogni passo corrispondeva ad un nuovo timore, che le stritolava lo stomaco come una pressa. L’aria di quel luogo era sempre così strana. Sembrava un mondo a sé stante: oltre quelle mura, nessun rumore vi poteva penetrare, neppure il così vicino traffico delle macchine. Persino il sole, così caldo in quel giorno autunnale, là dentro diventava gelido come la luna e falso come una lampadina in una casupola di periferia.
Alla fine, la bambina bionda si decise e varcò con passo sicuro il cancello, tremando leggermente quando essa stessa si ritrovò a calpestare quei sassolini bianchi, ricoperti da sottili foglie rossastre che davano l’idea di ossa spolpate, ma ancora sanguinanti. Si guardò leggermente intorno, tra quelle lapidi vuote, ciascuna uguale all’altra, con la fotografia sbiadita di qualcuno che non sarebbe mai più tornato.
Perché mai aveva deciso di tornare in quel luogo? Non vi era nulla da cercare, nulla da trovare. Eppure, sentiva il desiderio di proseguire. Cercando di ignorare quel rumore fastidioso, si avviò lungo la strada laterale, fino ad arrivare alle tombe di ultima costruzione, che contenevano i cadaveri ancora freschi. Le persone che camminavano accanto a lei sembravano quasi fantasmi usciti dalle lapidi per godersi l’ultimo sole prima dell’inverno. I loro volti erano simili a quelli sulle fotografie sulle pietre sepolcrali, opachi alla stessa maniera. Solo che, a differenza delle foto, loro non sorridevano.
Alla fine la bambina si fermò, esattamente come qualunque altra persona, davanti ad una di quelle lapidi, una semplice lastra di marmo bianco incassata nel muro. La scritta dorata diceva “Masami Irota”. Non vi era nemmeno una fotografia a monito del cadavere in decomposizione che giaceva dietro. La bambina sospirò. Il volto della sorella era talmente impresso nella sua mente che non aveva certo bisogno di oggetti che gliela ricordassero. Un marchio a fuoco non sarebbe stato tanto efficace. Scosse la testa, agitando i boccoli biondi, e fissò la sua attenzione sul nome. Masami Irota era solo un falso, poiché sua sorella si chiamava Akemi Miyano, solo che, ormai, sulla terra non era rimasta che lei, a ricordarselo. Non aveva poi molta importanza. Alla fine, un nome non era altro che una scritta su una lapide, che poi fosse vero o falso non interessava. Chissà, forse anche lei, un giorno, sarebbe stata seppellita con il nome che le era stato dato dal Professor Agasa. Sarebbe stato probabilmente meglio.
Una volta, un suo amico le aveva detto che il nome aveva un ruolo molto relativo nella vita, perché ciò che importava veramente erano i sentimenti che le persone provavano, a prescindere dalla razza o dalla provenienza. Poteva anche essere vero, ma di una cosa la bambina era sicura. Per quanto i sentimenti potessero essere forti, quando una persona moriva, moriva per sempre.
Immersa in questi pensieri, non si era accorta di un mazzolino di bocche di leone che spuntava dal vasetto per i fiori incollato alla lapide. Quella vista, le provocò un brivido e non seppe spiegarsi se fosse di piacere o di terrore. Al mondo, non vi potevano essere persone che ricordassero Masami Irota, per il semplice motivo che non esisteva veramente. Per altro, nessuno si sarebbe comunque degnato, a parte lei, di piangere sulla tomba di Akemi Miyano, visto che non vi erano altri che la conoscessero. Quindi, non poteva trattarsi d’altro che un caso di omonimia, o d’uno sbaglio. O forse, qualcuno di buon cuore, vedendo quella tomba così triste, aveva pensato di lasciare un’offerta. Come se in questo modo l’avesse resa più felice! Eppure, in fondo al suo cuore ferito, la bambina non era affatto convinta di queste spiegazioni razionali. Si guardò intorno. L’unica persona che le era passata vicino in quella stradina stretta era una donna.
Presa da un curioso istinto investigativo decisamente imprudente, la bambina abbandonò la tomba della sorella per correre a cercare quella donna. Non sapeva cosa avrebbe potuto trovare, non sapeva nemmeno perché la stava cercando, però andava avanti comunque. Finalmente, la vide, ferma sulla soglia del cancello d’uscita per i vivi. Prendendo un’altra strada, le si avvicinò, stando nascosta fra il muro alto e scuro che circondava il cimitero e i cipressi che svettavano lugubri fino al paradiso.
Era una bella donna sulla quarantina, con sottilissime rughe intorno agli occhi. Non aveva invece nessuna ruga attorno alle labbra, segno che non aveva sorriso molto nella sua vita. Gli occhi azzurri riflettevano il paesaggio intorno, vuoti come un lago ghiacciato. I lunghi capelli, neri e mossi, ondeggiavano simili ai rami del cipressi. Alzò il braccio destro per guardare l’orologio. «Sei in ritardo» La sua voce era gutturale, ma calda.
«Come se io avessi del tempo da perdere per recuperarti» disse un uomo, anche lui fermo sulla soglia del cimitero. A sentire quella voce fredda nelle orecchie, il cuore della bambina accelerò i battiti, quasi come se le prendesse un infarto. In preda ad un terrore indicibile, si accucciò a terra, coprendosi la testa con le mani, cercando di sparire inghiottita dalla terra. Era lì, a pochi passi da lei… Avrebbe potuto notarla senza fatica… No, no, no… «Mi spieghi cosa sei venuta a fare qui, Black Russian?»
«Aspettavo una persona, Gin» rispose la donna, sistemandosi meglio la morbida sciarpa nera che teneva attorno al collo come uno scialle. «Ma non è arrivata»
«Capisco» Gin si accese una sigaretta, quindi la fissò coi suoi occhi di ghiaccio, da sotto la testa del cappello. «Allora, andiamo?» Black Russian annuì e lo seguì oltre il cancello.
La bambina rimase immobile anche dopo aver sentito il rombo della porche nera che si allontanava per la strada trafficata di Beika. Ferma come una statua di pietra, senza sentire più nemmeno i battiti accelerati del suo cuore, aspettò. Aspettò che i suoi muscoli si calmassero e tornassero a muoversi da soli. Solo allora riuscì ad alzarsi e a respirare normalmente. Ritornò sul vialetto ed osservò la strada fuori da quel luogo orribile. Nessuno, ovviamente.
Deglutì. Era andata così vicina a farsi scoprire… Come aveva potuto non immaginare che potesse essere un membro dell’organizzazione, venuto per cercare lei? Come diceva Sherlock Holmes “una volta eliminate le ipotesi impossibili, quello che resta per quanto improbabile, non può essere che la verità” E la verità era che le avevano teso una trappola. Avevano pensato, probabilmente, che, quel giorno, l’anniversario della morte della sorella, lei sarebbe andata al cimitero. Come aveva potuto essere così cieca e così stupida da rischiare di essere scoperta? Aveva avuto veramente fortuna… Mai come in quel momento, le foglie rosse degli alberi le sembrarono il sangue delle sue vittime sacrificali.
«Ero sicuro di trovarti qui, Haibara» Una voce seccata e saccente da dietro di lei, quindi un bambino castano, con indosso un paio d’occhiali troppo grandi per lui, le si affiancò. «Dovevi aspettarmi. Anche io volevo venire da tua sorella» In mano, stringeva un mazzolino di margherite striminzite.
«Kudou-kun…» Lei rimase sorpresa, quindi si voltò, cercando di riprendere la sua imperturbabilità, in modo che lui non si accorgesse della sua paura. «Non era necessario, Conan…»
«Invece si» Lui sospirò.«Vedi, Ai, ti senti in colpa per la sua morte… ma mai quanto me! Tenevo la sua mano nella mia, sanguinava… E poi, è diventata improvvisamente fredda. È stata una sensazione terribile… E’ come se avessi sentito la sua anima scivolare via…» Si bloccò, come se qualcuno avesse spento l’interruttore della sua voce. «Tua sorella era in gamba. Io lo so»
Ai annuì. Per questo, non sarebbe mai dovuta morire per lei.
Conan, vedendola in difficoltà, le si avvicinò e le strinse la mano in una presa forte e protettiva. «Allora, andiamo?»
Si diressero insieme verso la tomba. Scoccando un sguardo alle loro mani unite, Ai provò una profonda tristezza dentro di lei. Sapeva che la stessa mano, sebbene più adulta, desiderava stringere ben altre mani, mani pure che non avevano conosciuto nulla della morte e dell’omicidio. Un giorno, probabilmente proprio grazie al suo antidoto, questo sogno si sarebbe realizzato. Provò l’irresistibile desiderio di sperare che quel giorno non venisse mai, o, almeno, che fosse molto lontano nel tempo. Represse il desiderio nei labirinti più profondi della sua anima, cercando di assaporare ogni attimo di zucchero che quella mano le procurava. Strinse leggermente la presa, unendo il sudore al suo.
«Tu credi in Dio?» chiese improvvisamente Conan, seguendo un pensiero solo suo.
«Perché me lo domandi?» rispose Ai, la quale venne risvegliata improvvisamente dal suo sogno proibito.
«Ecco, perché…» Sorrise imbarazzato, perché non trovava le parole giuste. «Essendo tu una scienziata, hai bisogno di prove sperimentali… Ma non esiste nessuna prova dell’esistenza di Dio…»
«Esatto» annuì lei, continuando a non capire.
«Pensavo che fosse una cosa triste» continuò Conan, come se parlasse con un’estranea. «Non avere più nulla in cui credere, nemmeno in un aldilà dove rivederla»
«Già» assentì Ai nascondendo gli occhi blu sotto la frangia bionda. «Ma non devi credere che una scienziata non possa sentire certe cose» Lo lasciò, accelerando l’andatura. La considerava davvero così, solo una scienziata, una creatura senza sensibilità? Che cosa triste…
«Non volevo dire questo…» disse lui, rispondendo più ai suoi pensieri che alle sue parole. Lei gli credette. Alla fine, lo faceva sempre, perché era l’unico che avesse al mondo. Se non avesse creduto a lui, davvero, le sarebbe rimasto qualcosa?
Si fermarono, l’uno a fianco dell’altro, davanti alla stessa lapide vuota. Questa volta, Ai boccheggiò immediatamente. Nello stesso vaso, accanto alle bocche di leone, vi era inserito un grande girasole fresco, che sapeva di estate.
«Ma cosa…?» anche Conan si stupì, ma per ragioni differenti. «Chi può aver portato fiori su questa tomba…?» La guardò, mentre lei rimaneva immobilizzata su quei fiori, mentre nella mente le immagini di prima vagavano come una pubblicità sullo schermo televisivo.
«Siete qua!» esclamò una voce dietro di loro. «Vi ho trovato, finalmente!» Ai due bambini si gelò il sangue nelle vene.

 
Continua nel capitolo:


 
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