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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: MANTICORA
Genere: Fantasy
Rating: Per Tutte le età
Autore: ghost-rider galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 16/06/2005 20:07:37

una storia a metà tra realtà e fantasia, tra fantasy e horror... anche se non viene da nessuna serie in particolare ci tenevo a pubblicarla...
 
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- Capitolo 1° -

Lochlainn trasse a se le coperte ricamate con fili d’oro. Era sicuro di aver sentito un rumore provenire dal corridoio. Non era fantasia, questa volta poteva sentirli, i passi felpati avvicinarsi alla porta. Si guardò freneticamente intorno alla ricerca di qualcosa da usare come arma. La candela si consumava con esasperata ma inesorabile lentezza, versando calde lacrime di cera che si depositavano ai piedi del massiccio candelabro in ferro. Tutti dicevano che era pazzo. Bisbigliavano alle sue spalle, come se lui non capisse, non sapesse che dal grande salone da ballo, ai vaccai, all’ ultima umile sguattera del paese, tutti non facevano altro che sussurrare che il conte di Fianna aveva perso il senno, che il conte di Fianna era continuamente in preda alle visioni, che il conte di Fianna era pazzo furioso. Li avessero sentiti anche loro i rumori che lo perseguitavano, avessero saputo cosa gli dava la caccia, sarebbero stati costretti ad elogiarlo per essersi mantenuto sano di mente per tutti quegli anni, o perlomeno a scivolare nella sua stessa follia. Gettò un altro sguardo ansioso all’ aureola di fuoco che incoronava lo stoppino. Sapeva benissimo che lei era lì fuori, che aveva paura, che il fuoco, sebbene debole e incerto come quello di un misero cero la teneva lontana. La sua vita era appesa ai capricci di Madama Candela, donna capricciosa, che se lo avesse lasciato ne avrebbe decretato la morte. Già, perché a fargli compagnia, oltre a Madama Candela c’era al sua ancella, Madama Luna, i Saggi Manoscritti, qualche vecchio Nonno Mobile, Compagno Caminetto, che era però malato e altro non faceva che tossire fuliggine, nulla più. Non aveva mai amato, com’era invece uso presso tutti gli altri nobili, l’ appendere armi sopra al focolare, preferiva essere circondato dalla fragile e frusciante pergamena piuttosto che dal freddo acciaio.
Improvvisamente uno spiritello, di sicuro un maligno o dispettoso folletto, si introdusse nella stanza e rapido come il fulmine, dopo aver danzato per un attimo con Madama Candela e aver deciso che la signora non era di suo gusto, ne aveva fatto spegnere la fiamma. Forse era solo un dispetto, si sa, i folletti in fin dei conti non sono poi cattivi, ah, ma quale scellerato dispetto! Lochlainn sussultò e maledisse lo spirito con tutte le sue forze. Lasciato in compagnia di Madama Luna, che rischiarava l’ambiente con il suo abbraccio freddo, cominciò a torcersi le mani, in attesa che succedesse qualcosa. Qualcosa successe. Qualcosa raspò alla porta. Era un suono che gli dava i brividi, artigli sul legno scuro, ossa che vengono sfregate, sibilo di serpente. Lochlainn cominciò involontariamente a emettere un gemito disperato ma appena udibile, conscio che ormai c’ era poco da fare, conscio che lei lo aveva finalmente preso.
Ricordava ancora la prima volta che l’ aveva vista, vent’anni addietro, e aveva chiesto spiegazioni al padre. Quel giorno stavano esplorando un’ ala del castello fino a quel momento celata, e venuta alla luce in seguito al crollo della parete che ne murava l’ entrata. Lui, un bambino di non più di nove anni, sgambettava di fronte al padre ansioso di portare a termine per primo qualche interessante scoperta, quando solo qualche minuto prima era rimasto nell’ ombra del genitore per tutto il tempo necessario a percorrere le segrete, unico luogo dal quale era possibile accedere alle misteriose sale che andavano percorrendo. Il padre, un uomo a dire il vero non molto alto, ma sontuosamente vestito e dal portamento fiero, osservava con celata curiosità i numerosi arazzi e affreschi che si presentavano al loro passaggio. Lungo i muri si rincorrevano simboli ancestrali carichi di significati oscuri, enigmi indecifrabili, sfide al raziocinio umano, e più di una volta la fede lo imponeva a farsi il segno della croce, alla presenza di scritture di fattura apparentemente cabalistica o negromantica. Più si addentravano nelle stanze buie, più si rendeva conto che erano in realtà un intreccio di corridoi, un labirinto, e più ne vedeva più si convinceva che sarebbe stato meglio murare immantinente l’ entrata che conduceva a quelle stanze sacrileghe. Ma prima era meglio esplorale, forse contenevano qualcosa di valore, chissà...
Al contrario del padre, Lochlainn non era minimamente intimorito, forte della curiosità imprudente che anima i fanciulli, ignaro della creatura che lo attendeva nella tenebra. Quando infine l’ aveva scorta, Lochlainn aveva avuto come la sensazione di essere stato folgorato. Sinuosa come l’ acqua e solida come il più coriaceo dei monoliti di Stonenghe, lo aspettava in agguato dietro ad un angolo, e lui sapeva che altri non attendeva, per lui era acquattata dietro alla svolta; forse gli sarebbe saltata alla gola, ma non sembravano essere queste le sue intenzioni. Sedeva frontalmente tra due grandi alabarde dalla lama nera e lo aveva squadrava con i grandi occhi gialli nei recessi dei quali celava una sorta di oscura intelligenza, mostruosa presenza di spirito. Lo osservava e gli sorrideva, ma era un sorriso o un ghigno deforme e immutabile, dato che le fauci non sembravano in grado di contenere quella schiera di denti aguzzi che quindi ne fuoriuscivano, donandole quel sorriso crudele? Il muso, così incredibilmente umano ed espressivo, era aureolato da una folta criniera leonina, che ricadeva sulle spalle possenti e sul petto ampio. Teneva la coda ricurva sopra la schiena, così simile a quella di uno scorpione, l’ estremità gonfia del veleno più terribile che si potesse immaginare, il pungiglione pronto a scattare contro chiunque osasse avvicinarsi troppo. Infine, poggiava su zampe non meno temibili, arti dalle cui estremità fuoriuscivano lunghi artigli dall’ aria mortale. Un gatto si premura di celare le proprie armi all’ interno delle morbide zampe, ma lei non aveva bisogno di questi sotterfugi, ostentava gli strumenti letali con orgoglio, senza scrupolo alcuno. E il colore era rosso, Lochlainn non se ne stupì, certo, il colore era rosso, rosso sangue, vermiglio della linfa vitale delle vittime assassinate, una ad una, ancora e ancora, tanto che la creatura ne era stata ricoperta.
Lei lo aspettava, e Lochlainn aveva esitato di fronte alla sua maestosità. Quel fascino deforme esercitava su di lui un misterioso potere. Impietrito, inerme come un uccellino ipnotizzato dalla danza della serpe, era stato trascinato per un attimo nelle sue fantasie, sordo alle esortazioni del padre, prima irritato per il comportamento del pargolo, quindi preoccupato da una così protratta immobilità, interpretata come malessere in vece dello stupore estatico che era. Dopo un tempo indefinibile, il bambino aveva finalmente proferito parola.
:”Cos’è?”
L’ uomo era rimasto interdetto. Non aveva ben capito la domanda, e il quesito gli giungeva del tutto inaspettato. Poi aveva realizzato.
:”Quella? Un manticora.”
:”Una manticora.” aveva ripetuto Lochlainn, continuando a fissare l’ orrida bestia immortalata nella pietra davanti a se. Quindi, molto timidamente si era fatto avanti per osservarla più da vicino.
:”Non devi spaventarti per certe cose.” lo rimbrottò il padre.
:”Dovresti vergognarti, sei un uomo, non una donnetta.” ma il figlio non lo ascoltava.
:”E’ viva.”
:”Non dire idiozie!” sbottò il genitore, infuriato di non ricevere ascolto.
:”Avanti, tocca quella parete, vedrai che non c’è nulla da temere.” Lochlainn si voltò di scatto, un luccichio di insensata paura gli baluginò nello sguardo.
:”Mi mangerà la mano.”
:”Lochlainn, è un ordine!” ormai aveva perso le staffe. Ah, quando sarebbe tornato da Susan le avrebbe fatto vedere! Lo diceva lui, di non leggergli quelle stupide fole! Ora aveva paura anche di un semplice disegno! Fulminò il bambino con lo sguardo.
Nella mente di Lochlainn i pensieri cominciarono ad aggrovigliarsi come in una matassa mal riposta e ancora non filata. Sapeva che disobbedendo rischiava di essere punito. Certo, rischiava, mentre era sicuro che avrebbe perso una mano non appena avesse toccato la belva.
:”Allora?!?” l’ ennesima esortazione giunse secca come uno schiaffo. Suo padre doveva aver proprio perso la pazienza. E non era saggio tirare ancora la corta. Certo, però...
:”Oh, insomma!” e prima che potesse anche solo protestare, Lochlainn ebbe il polso strettamente serrato tra le dita del genitore, e immediatamente sentì sul palmo il freddo contatto della pietra, ne percepì la superficie ruvida, rendendosi improvvisamente conto di star toccando una cosa che a parer suo andava lasciata dormire. Quando fu nuovamente libero non interruppe il contatto, non staccò la mano dalla parete. Non osava. Il volto vicinissimo alla pietra cominciò a esaminare minuziosamente l’ affresco. I pigmenti, incredibilmente, non erano stati vinti dal pulviscolo che invece sembrava regnare sovrano sul resto dell’ ala, erano ancora straordinariamente brillanti, vivi. Oh si che erano vivi, come avrebbero potuto essere altrimenti? Alzò lentamente lo sguardo, non sapendo dove trovasse il coraggio per un’ azione tanto avventata. Sollevò il capo fino a incrociare gli occhi della fiera. La manticora ricambiò lo sguardo. No, non era una sua impressione, la bestia chinò il capo verso di lui. Tutto si svolse in un attimo. Lochlainn ebbe il tempo di vedere la smorfia di vittoria deformarne ancor più il muso, la luce maligna dello sguardo, lo spalancarsi delle fauci, la saliva grondante da quei denti micidiali. Un attimo dopo gli erano affondati nel braccio. Come descrivere l’ orrore, il terrore, lo sconvolgimento nel percepire lame affilate come rasoi lacerare la carne, frantumare le ossa che si disfacevano scricchiolando, straziare muscoli e nervi con la stessa facilità con cui un macellaio esperto trancia una porzione d un succulento quarto di bue? Lochlainn urlò con quanto fiato aveva in gola e prima ancora che la voce gli morisse in gola con un soffocato gorgoglio, svenne.
Aveva ripreso conoscenza nel morbido, familiare abbraccio delle lenzuola fresche, e volgendo lo sguardo d’intorno aveva tratto un sospiro di sollievo rendendosi conto di essere di nuovo nella sua stanza. Si era messo a sedere e aveva notato dei movimenti fuori dalla porta. Ascoltando meglio, gli erano giunte le voci del padre e della madre coinvolti in un acceso diverbio. Dalle poche parole che giungevano fino a lui, aveva capito che, al contrario di quanto si aspettava, era sua madre a essere infuriata con il consorte, per aver trascinato “il suo bambino in un posto così sconvolgente”. Convinto di aver sentito quanto gli bastava, Lochlainn aveva rivolto la sua attenzione al braccio sinistro che ora, era sicuro, terminava appena sotto il gomito, in un moncherino fasciato e ancora sanguinolento. Con sua grande sorpresa, la mano era ancora al suo posto, non c’ erano segni di alcun tipo dove la furia della manticora lo aveva colpito. Tale è la potenza della fantasia dei bambini, più potente di qualsiasi magia, tanto da far vedere cose che non esistono. Ma Lochlainn era convinto che non si era immaginato niente. Avevano svegliato la manticora, la guardiana del labirinto. E adesso lei sarebbe venuta a cercarlo, oh si, gli avrebbe fatto pentire di aver osato disturbare lei e i segreti da lei custoditi.
Lochlainn seguitò ad ascoltare l’ insistente raschiare sulla porta. Cosa aspettava quella dannata bestia? Sapeva benissimo che se solo lo avesse voluto avrebbe potuto sfondare la porta con un sol colpo delle zampe poderose. Uno scatto, e i muscoli massicci avrebbero devastato il legno, e lui sarebbe stato alla sua mercé. Quindi perché attendere? In un attimo Lochlainn capì. La manticora stava bussando. Voleva che lui stesso accettasse il suo destino, che firmasse la sua condanna aprendole la porta. Si divertiva a torturarlo in quel modo? Fino a quel punto si spingeva la sua crudeltà? Che bussasse quanto voleva, lui non avrebbe ceduto; avrebbe dovuto prenderlo con la forza, non si sarebbe mai consegnato di sua spontanea volontà. E mentre si chiedeva quanto tempo fosse passato –un’ ora? due?- il macabro bussare seguitava a seviziare i suoi già tanto provati nervi.
Suo padre era mancato dodici anni prima, perito nel corso di una battuta di caccia. Giudicato un eccentrico dalla maggior parte dei conoscenti, amava cacciare da solo addentrandosi nei boschi che circondavano il castello, così ricchi di selvaggina. Quel giorno però non era tornato. Lo aveva atteso fino al tramonto seduto sul ponte del castello e quando aveva scorto una sagoma avanzare verso di lui era saltato in piedi chiamandolo a gran voce. Potete immaginare lo sconforto quando si era reso conto che non del padre trattavasi, bensì di Dalia, la cavalla pezzata che il genitore prediligeva, ancora sellata. Appressandosi, Lochlainn aveva visto i graffi sulle spalle e sulle cosce dell’ animale e dopo averla afferrata per le redini era corso dentro a dare l’ allarme.
Avevano ritrovato il corpo solo il girono dopo, rintracciato grazie ai segugi, al sentiero di rami spezzati tracciato dalla cavalla, nonché ad un inusuale volteggio di corvi sulle cime degli alberi. Lochlainn sapeva bene che alle feste dei corvi non manca mai il morto. Avevano disturbato l’ allegro banchettare dei pennuti quando, smuovendo i cespugli, avevano trovato il cadavere semidivorato dell’ ormai ex conte di Fianna, accasciato sulla sua balestra. Lo avevano caricato su un cavallo e portato al maniero per dargli cristiana sepoltura. Lupi, era stata la sentenza. Probabilmente lo aveva attaccato un branco inero, disarcionandolo, e solo il cavallo era riuscito a fuggire alle belve, pur riportando qualche ferita. Il dolore di Lochlainn era nullo se paragonato al terrore, al senso di fatalità che lo pervadeva. Lupi? Non credeva proprio. Non lo avrebbe detto a nessuno, ma lui sapeva benissimo cosa lo aveva ucciso. Anche al funerale del compianto padre si voltava in continuazione, certo di trovarsi alle spalle, improvvisamente così come aveva fatto la sua conoscenza, la manticora intenta a fissarlo con gli occhi felini e a canzonarlo con il suo mostruoso sorriso. Ora tocca a te, ora tocca a te. La fiera non si era presentata per altri tre anni, quindi aveva fatto ritorno a ricordargli quale fatale errore avesse commesso, di quale colpa si era macchiato.
Scratch... scratch... scratch... Lochlainn aveva ben poco dal tapparsi le orecchie. Il rumore continuava, impietoso. E con esso, riemergevano ricordi forzatamente sepolti, come cadaveri di annegati che riaffiorano dopo un naufragio, lo stomaco tondo gonfio di gas generati dalla decomposizione, la pelle tesa al punto di scoppiare e di spargere le viscere molli pari ai pesci che sarebbero andate a nutrire, tutt’ intorno.
Nove anni prima non era toccato a lui, bensì a suo fratello minore. Lochlainn era presente quando Geri si era sporto dalla scogliera. Lui lo aveva richiamato, ma il fratello lo esortava a gran voce, vieni a vedere, gli diceva, c’è una cosa stranissima qui sotto! Era avanzato sempre di più, ma ciò che aveva visto sembrava vincere la prudenza. Quindi, senza nessun preavviso, senza scricchiolii o rumori di sorta, il ciglio della scogliera aveva ceduto. Si erano staccate solo poche pietre, ma era stato sufficiente a far precipitare Geri in mare. Ma non era morto. In fin dei conti il salto non era alto e l’ acqua era fonda, priva oltretutto di scogli sui quali ferirsi. Anzi, proprio per quelle qualità il promontorio era meta di molti ragazzi che amavano tuffarsi in acqua nelle calde e afose giornate di luglio. Le grida disperate di Geri erano risuonate a lungo, chiamava il fratello, Loch aiuto, Loch aiuto, Loch non so nuotare. E Lochlainn sapeva benissimo che Geri non era mai un buon nuotatore, sapeva a malapena tenersi a galla, inoltre in quel momento doveva essere a dir poco terrorizzato, e il terrore paralizza le membra più del veleno. O forse qualcosa gli impediva di nuotare. Ma non si era tuffato. Aveva ascoltato la voce del fratello farsi sempre più debole, le frasi più inframmezzate da gorgoglii, fino a quando il rifrangersi delle onde sul fianco di roccia non le avevano coperte del tutto. Non aveva nemmeno guardato oltre il ciglio. Lui voleva molto bene a suo fratello, ma sapeva che non c’ era niente da fare, sapeva benissimo che se si fosse sporto lei sarebbe stata là, tra le onde cristalline, a giocare con il corpo di Geri, tenendogli la testa sott’ acqua. Ora tocca a te, ora tocca a te, gli avrebbe detto quel ghigno malefico.
Nel buio della sua stanza Lochlainn si guardò la mano sinistra. Era pallida, magra, la pelle quasi trasparente. Da quando la manticora lo aveva morso, non era più riuscito a muoverne nemmeno un dito. Nessuno capiva perché si fosse così atrofizzata, nessuno sapeva che un essere crudele glie l’ aveva mangiata. Il cadavere annegato del fratello galleggiava di fronte a lui, gli occhi lo fissavano con sguardo accusatorio. Non mi hai salvato, Loch, potevi farlo, lei mi ha ucciso per colpa tua.
:”Non potevo salvarti.” sussurrò Lochlainn :”Se la manticora vuole prenderti nessuno può fare niente.” si sorprese a dire queste parole. Se la manticora vuole prenderti nessuno ti può slavare, pensò ancora, volgendo lo sguardo rassegnato verso la porta, al di là della quale lei chiedeva con insistenza di entrare.
Dopo la morte di Geri sua madre si era chiusa in un luttuoso silenzio. La donna allegra e dolce era morta, ora vagava come un’ anima in pena per i corridoi del castello, senza trovare pace. Talvolta gli faceva dei discorsi che ad altri sarebbero parsi deliranti o superstiziosi, ma che lui capiva benissimo.
:”Lochlainn” gli diceva :”La sciagura vuole distruggere questa famiglia. La sciagura, Lochlainn. A volte si svegliano cose che dovrebbero dormire. Forse abbiamo disturbato la sciagura. Forse qualche stregone, qualche praticante di quella riprovevole arte che chiamano magia nera vuole mettere a tacere le voci di questi umili servi di Dio, perché è lui a temerci più di tutti. E ricorda” aggiungeva a questo punto :”Se mai dovesse venire ad angustiarti, sappi che essi non temono acciaio di sorta. Difenditi con la fede, e con il fuoco. Temono il fuoco come le belve feroci, perché il fuoco purifica, monderebbe anche la loro anima nera, ed essi ne morrebbero. Ecco perché streghe e stregoni vengono messi al rogo; è l’ unico modo per liberare il mondo dal loro spirito malvagio.” Lochlainn a questo punto annuiva. Avrebbe tenuto quelle parole incise a lettere d’oro sul cuore.
Tuttavia l’ anno prima anche quella donna pia era stata sopraffatta. Una puntura di scorpione, una cosa abbastanza comune, quel tipo di insetti infestavano qualsiasi abitazione, e in un castello trovavano angoli bui per celarsi e reclamare come propria tana un po’ ovunque. Lochlainn disse tra se e se che sua madre era stata punta da uno scorpione ben più grosso di quelli che si vedevano abitualmente. E così la manticora si era presa anche lei. Il vile mostro non si faceva mai vedere, ma otteneva sempre ciò per cui era venuta.
Ora tocca a te, ora tocca a te. Queste parole gli rimbalzavano nella mente come il ritornello di una lirica che torni a punzecchiare la nostra attenzione rendendoci incapaci di disfarcene.
...scratch... scratch...
...ora tocca a te...
...scratch... scratch...
...sono qui per portarti via...
...scratch... scratch...
...fammi entrare...
Lochlainn si alzò dal letto, in preda all’ esasperazione. Ma si, che lo prendesse, che se lo portasse via nel suo regno di tenebra, che questa persecuzione finisse. Qualsiasi cosa, pur di liberarsi di quella spada di Damocle che da troppi anni pendeva sul suo capo. Il tappeto morbido gli solleticò le piante dei piedi quando scese dal letto. Si soffermò per un attimo a osservare gli unicorni giocare tra le onde della superficie intessuta da mani esperte. Forse non li vedeva, almeno non propriamente, vista la scarsa luce che penetrava nella stanza, ma li percepiva, li aveva sempre visti fin da quando era bambino e ora li salutò con affetto, conscio che sarebbe stata l’ ultima cosa che avrebbe visto. Si diresse lentamente verso la porta, lasciandosi alle spalle i suoi unicorni. Un unicorno per una manticora. Quale folle avrebbe mai accettato un simile baratto? La maniglia della porta era fredda, ostile. Lochlainn tese l’ orecchio. Non si udiva nessun rumore. Nessuno grattava la porta. Si udiva solo un calmo respiro al di là della soglia. Lochlainn chiuse gli occhi, girò la maniglia e lentamente, con calma surreale, scostò la porta, che si aprì senza il minimo cigolio. Così restò, ad occhi chiusi, troppo impaurito per guardare in faccia la morte. Qualcosa di umido gli sfiorò la mano, e Lochlainn trasalì. Un uggiolio lo spinse ad aprire gli occhi. Il grosso cane bianco gli leccò di nuovo la mano, finalmente la porta gli era stata aperta, e ancora una volta, se fosse stato fortunato, gli sarebbe stato permesso di dormire sul comodo letto accanto al padrone.
Il conte quasi svenne per il sollievo. Con un irrefrenabile desiderio di piangere per la gioia, gioia di essere ancora vivo, gioia di sapere che la sua ora non era ancora arrivata, gioia del tempo che gli era stato concesso, cadde in ginocchio e gettò le braccia al collo dell’ animale il quale, seppur non comprendendo l’agire del padrone, accolse con calore la novità, cominciando a scodinzolare e tentando di leccargli il volto. Lochlainn accarezzò il pelo ispido del cane, lo strinse a se, il suo caro Ruel, il suo amico fedele, l’unico a non accusarlo di pazzia, il suo unicorno bianco, stringeva e affondava il viso nella pelliccia folta, beandosi dell’ amore sincero e incondizionato che l’ animale gli donava.
Il pendolo batté le tre, e quel suono profondo lo riportò alla realtà. Si alzò in piedi, sentendo scorrere dentro di se nuova linfa vitale. Ruel trotterellò nella camera, e saltò sul grande letto a baldacchino. Lochlainn lo lasciò fare, ripromettendosi di non impedirgli mai più di dormire con lui. Come fece per tornare nella stanza, qualcosa lo costrinse a fermarsi. Aveva sentito un rumore. Un ticchettio, molto flebile, ancora lontano, ma che cresceva sempre di più. Per ‘ ennesima volta il terrore lo sopraffece. Veniva da vicino, da molto vicino, proprio lì, alla sua sinistra. Come in sogno si girò. Il rumore proveniva da dietro un angolo. Poco prima della svolta, vide due grandi alabarde dalla lama nera. Il fato gli piombò addosso con la forza di un titano. Voleva rientrare, doveva entrare e sprangare la porta dietro di se prima che fosse troppo tardi, ma non ci riusciva. E allora, solo allora, vide gli occhi, i terribili occhi gialli che lo avevano ossessionato per venti lunghissimi anni accendersi nell’ oscurità. La manticora emerse da dietro l’ angolo, più maestosa e orribile di quanto l’ avesse mai ricordata. Non era un sogno, gli veniva incontro, gli artigli sfoderati ticchettavano sul pavimento di pietra ad ogni passo, ad ogni lunga falcata. Lochlainn, immobilizzato e attonito dal terrore più intenso che avesse mai provato, vide in lei materializzarsi tutti i suoi incubi. Vide il padre dilaniato dai morsi dei lupi, vide Geri grigio, i lineamenti deformati dalla morte per annegamento, sua madre pallida, di quel pallore che solo la morte sa conferire. E’ colpa tua, Lochlainn. Tu l’ hai svegliata, tu l’ hai disturbata, non si dovrebbe scherzare con la tenebra, vi dormono segreti che nessuno dovrebbe destare. Non puoi fuggire, questo è il destino che è venuto a ghermirti. Non chiedere pietà, la manticora non ha misericordia di nessuno. Prenderà anche te, nessuno può farci nulla. Piangi, se vuoi, implora, e otterrai unicamente di svilire la tua dignità e di macchiare il tuo onore. Lei è sorda alle suppliche e immune alle lacrime.
Lochlainn non tentò nulla contro la fiera. Ormai era rassegnato, piegato, si limitò ad osservarla avanzare, fermarsi davanti a lui, ammirò come i denti rifulgevano la luce lunare, si sentì perfino di contraccambiare il sorriso che lei gli rivolgeva, ed ebbe l’ inusuale sensazione di salutare un vecchio amico assente da tanto tempo.
Quello che successe poi, lo visse come al rallentatore. La vide flettersi sulle possenti zampe, distendere il corpo flessuoso nel balzo, gli artigli protesi verso di lui, le fauci spalancate. Gli aveva preso una mano, si sarebbe presa anche il resto. In un attimo Lochlainn scorse una cosa mai notata prima: al collo, seminascosto dalla fulva criniera, la belva portava uno spesso collare. Ebbe perfino il tempo di leggere il nome che vi era inciso. E così qualcuno ti aveva davvero messa a guardia del labirinto. Mi hai cercato per tutti questi anni; il tuo padrone, druido, mago, negromante che fosse, deve essere fiero di te. Mi spiace pensò, un attimo prima che la morsa impietosa delle fauci stringesse la sua gola in un abbraccio mortale.
:”Mors.” fu la sua ultima parola, prima di scivolare nel pozzo di tenebra oltre al quale, secondo molti, si cela un’ altra vita.
Il giorno dopo venne ritrovato dalle serve che andavano ripulendo i corridoi del castello, e il suo corpo suscitò un coro di grida d’ orrore.
I dottori diagnosticarono che Lochlainn, conte di Fianna, aveva avuto un infarto; il suo cuore aveva semplicemente smesso di battere. La manticora si era portata via anche lui.

 
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