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Categoria: Libri e Film (da libri)
Dalla Serie: Il Signore degli Anelli (The lord of the rings)
Titolo Fanfic: LA STELLA DEL MATTINO
Genere: Sentimentale
Rating: Per Tutte le età
Autore: earwen galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 25/02/2005 22:31:39

al suo ritorno a lorien elanor è accolta dal capitano dei galadhrim,al quale tanti anni prima aveva donato un fiore che portava il suo nome.
 
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- Capitolo 1° -

A differenza della sorella Arwen, Elanor non aveva vissuto che i suoi primi anni a Lothlórien.
Aveva lasciato il Bosco d’Oro quando era solo una bambina, e per tutto quel tempo aveva viaggiato tra Gran Burrone, dove dimorava il padre Elrond, e Bosco Atro, ospite del Re Thranduil.
Era passato un secolo, e solo dopo un secolo si era decisa a tornare.
Adesso quella scena era meno vivida, ed il suo dolore si era lenito. Adesso respirare l’aria della sua terra non le avrebbe più fatto male.
«Bentornata a Lórien, Dama Elanor.»
La giovane riportò il pensiero al presente, e vide la sua guida, in piedi tra i tronchi di mallorn. Era vestito di grigio e di argento e portava sulle spalle un pregiato arco dei Galadhrim, e i suoi lunghi capelli di oro chiarissimo erano acconciati alla foggia elfica.
«Vi ringrazio, Capitano», rispose, socchiudendo le labbra in un sorriso. «Ma non era necessario che vi deste tanto disturbo per me.»
«Il vostro bosco è grande. Se non si conoscono i suoi sentieri è facile perdersi.»
Elanor chinò il capo ed accarezzò la criniera ambrata del suo cavallo. Haldir la osservò in silenzio: il piccolo elfo che aveva pianto con lui la morte di suo padre era diventato una fanciulla così bella da offuscare persino il leggendario splendore di Lúthien, dalla quale la sua stirpe discendeva.
Si avvicinò al cavallo dal lucente pelo di miele e sollevò lo sguardo alla sua padrona.
«Permettetemi di condurlo, mia signora», disse, prendendo le briglie tra le mani.
Mentre Haldir muoveva i primi passi, Elanor venne colta da uno strano senso di nostalgia. E non erano i tronchi d’argento o le foglie d’oro, né i fiori di niphredil: nasceva dal Capitano dei Galadhrim. Ma come poteva un perfetto sconosciuto darle una nostalgia che sapeva di lacrime?
Percorsero un sentiero che si inoltrava tra gruppi di alberi, e quando furono nuovamente all’aperto si ritrovarono su una collina ampia e spoglia che dava su un profondo fossato.
Più oltre si stagliava un colle verde popolato da imponenti alberi dorati che giganteggiavano come torri viventi.
«Caras Galadhon», mormorò Elanor, rapita dalla bellezza della sua città.
Non l’aveva mai vista dall’esterno, perché l’unica volta che era uscita da quei confini era stato il giorno della sua partenza, e se n’era andata senza voltarsi indietro.
«Sì», rispose Haldir. «Ma da qui non possiamo entrare.»

L’orlo del fossato era costeggiato da una strada lastricata con pietre bianche. Le porte della città si aprivano al di là di un ponte, tra due bracci di mura alte e forti.
Prima di imboccarlo Elanor scese dal cavallo e disse alla sua guida di lasciarlo andare. Aveva sopportato un viaggio molto lungo.
Haldir bussò alle porte, ed alle sue parole il cancello si aprì silenziosamente, per richiudersi silenziosamente quando furono passati. La Città degli Alberi si apriva davanti ad un viale incassato tra i bracci delle mura, ed era percorsa da innumerevoli sentieri e scalinate.
Soltanto dopo averne attraversati molti raggiunsero i luoghi eccelsi.
Adesso Elanor cominciava a ricordare. Il prato, la fontana d’argento, l’albero dal fusto liscio e cangiante come seta grigia, sul quale aveva dimorato ed avrebbe dimorato ancora.
Contro il tronco poggiava una grande scala bianca, sulla quale erano seduti tre Elfi vestiti di una cotta di maglia grigia ed una lunga cappa bianca. Non appena videro avvicinarsi la loro principessa saltarono in piedi, e si inchinarono con rispetto.
«Siete arrivata, mia signora», annunciò Haldir.
«Grazie per avermi accompagnata, Capitano», rispose la giovane, mentre scopriva la sua folta chioma castana.
«Sono io che devo ringraziare voi», replicò lui, e scrutò nei suoi occhi tanto profondamente da turbarla.
«Per cosa?» domandò allora Elanor.
Haldir infilò una mano sotto il mantello e ne uscì un pezzo di stoffa ripiegato su se stesso.
«Per questo», spiegò, e glielo porse.
Ad Elanor bastò aprirlo per capire. Il motivo per cui il Capitano dei Galadhrim l’aveva ringraziata era lo stesso motivo per il quale lei aveva provato quella nostalgia nel vederlo.
«Sei tu…» sussurrò, tornando a guardarlo.
Lui si inchinò accennando il suo primo sorriso, e senza aggiungere nient’altro tornò sulla strada che avevano percorso.

«Ti ha aspettata a lungo.»
Elanor spostò lo sguardo alle scale davanti a lei: Arwen era lì, e le stava sorridendo.
«Soltanto per ringraziarmi di un fiore?»
«Per ringraziarti di avergli dato una speranza quando ogni altra speranza era svanita.»
Elanor tornò a guardare Haldir, ma lui non c’era più.
«E’ un cavaliere valoroso», continuò Arwen.
Sua sorella sorrise a sua volta.
«Nostro padre gli concederà la mia mano solo se si terrà lontano dai guai. E, da quello che ho imparato, un cavaliere valoroso i guai li va a cercare.»
Arwen chinò il capo, e diventò triste. Elanor le si avvicinò.
«Lui sta bene», le disse.
«Lo so», rispose l’altra. «Adesso vieni. Ti stanno aspettando.»
Elanor non avrebbe mai pensato che il ricordo di quanto era accaduto le sarebbe tornato in mente senza procurarle un profondo dolore.
Adesso non le apparivano che ombre. Ricordava un letto decorato d’argento, scavato tra le radici di un giovane mallorn. Ricordava un Elfo che sembrava dormire. Ricordava le guardie che lui comandava inchinate poco distanti. Ricordava i suoi tre figli, in piedi davanti a lui. I loro volti non erano solcati dalle lacrime, ma i loro occhi erano lucidi. Il loro contegno era dignitoso, ma i loro cuori bruciavano di odio per chi li aveva privati della loro forza. Ricordava di essersi avvicinata al più bello e più triste dei tre fratelli, di avergli strattonato timidamente il mantello. Lui si era inginocchiato e le aveva asciugato le lacrime con la dolcezza di un carissimo amico. E lei gli aveva donato l’elanor, perché non voleva che lui dimenticasse, che si ricordasse del piccolo Elfo che aveva pianto per il dolore che lui stava provando.
Gli aveva donato quel fiore per consolarlo della perdita del padre. L’aveva fatto senza riflettere, spinta soltanto dalla pena. Haldir, figlio di Erestor, aveva perso suo padre, e lei, in quanto signora di Lórien, doveva fare qualcosa per lenire la sofferenza del suo suddito. Senza nemmeno saperlo gli aveva donato un bocciolo di gioia, un bocciolo che adesso era sbocciato in uno splendido fiore che portava il suo nome.
Amava Haldir di Lórien, amava l’Elfo che aveva consolato quel giorno lontano.

Elanor camminava pensierosa tra gli alberi d’argento di Caras Galadhon.
«Quanto sei diventata bella», le aveva detto Celeborn, non appena l’aveva vista. «Bella come Lúthien e le donne della sua stirpe, eppure più luminosa. Se tua sorella Arwen è detta Undómiel, Stella del Vespro, è giusto che a te venga attribuito il nome di Stella del Mattino. Elanor Auriel, Stella del Mattino degli Elfi.»
La luna brillava alta nel cielo, e le foglie sul terreno, bagnate dalle acque dei ruscelli, splendevano come perle.
Vagava con lo sguardo tutt’attorno a sé, ma non riusciva a vedere Haldir nel buio della notte.
Tuttavia non si era accorta che qualcuno l’aveva raggiunta, e quando una mano gentile si posò sulla sua spalla non poté fare a meno di sussultare. Ma ben presto si rese conto di non averne avuto alcun motivo, perché chi l’aveva sorpresa nel cuore della notte era chi lei aveva cercato tanto a lungo.
«Ecco perché non riuscivo a vederti», sorrise, abbracciandolo. «Ti cercavo troppo lontano.»
Haldir le prese le mani tra le sue e se le portò alle labbra.
«Mia signora», sospirò devoto. «Sapevo che ti avrei trovata qui.»
«Qui?» chiese lei.
«Non ricordi questo posto?»
Davanti a loro c’era un mallorn più giovane degli altri, ma altrettanto maestoso. Tra le sue radici era scavato una sorta di letto decorato di un argento ormai brunito, e sul letto fiorivano splendidi elanor dorati. Era l’ultima dimora del padre di Haldir.
«Sì. Lo ricordo», mormorò.
La fanciulla andò a raccogliere uno di quei fiori e lo odorò. Quanta nostalgia evocava, quel profumo così dolce.
Haldir la raggiunse.
«La vita si rinnova continuamente», disse. «I fiori appassiti sono nutrimento per quelli più giovani, le foglie cadute dagli alberi arricchiscono la terra. E noi elfi, Haldir? Quando ci trafigge una freccia o un dolore ci spezza il cuore… dove andiamo, noi?»
«Non lo so. Ma non è una cosa che devi temere», rispose l’elfo, stringendole la mano. Lei lo guardò negli occhi. «Questi confini sono ben protetti. La guerra non raggiungerà Lórien.»
«Non è così. Io so che non è così. Gli Elfi saranno chiamati a combattere a fianco degli Uomini ancora una volta, e dovranno rispondere. Forse non è saggio avere paura di quel momento. E io non posso che sperare che non arrivi troppo presto.»
Gli strinse la mano a sua volta, e poggiò la testa sulla sua spalla.
E fu così che passarono la notte: l’uno accanto all’altra, in piedi davanti alla tomba di Erestor, vicini come erano stati la prima e ultima volta che si erano visti.

*

Quando Galadriel apparve a fianco dello sposo, il chiarore nel quale la Compagnia era immersa si trasformò in una nebbia abbagliante.
Elanor scendeva le scale del talan dietro di loro, a capo chino. Indossava un lungo abito bianco, ma non abbagliante come quello della Dama. Aragorn riuscì a scorgerla nell’immensità di quella luce candida, e nel vederla lì, nel saperla al sicuro, per un istante sentì il suo cuore rasserenarsi.
«Il nemico sa che siete giunti qui. Qualunque vostra speranza di segretezza ora è svanita», esordì Sire Celeborn, scrutando negli occhi del Ramingo. «Otto sono qui, eppure nove si sono allontanati da Gran Burrone. Dimmi, dov’è Gandalf, perché molto desidero parlare con lui. Non riesco a vederlo, da lontano.»
«Gandalf il Grigio non ha varcato i confini di questa terra», disse Galadriel. «È caduto nell’ombra.»
«E’ stato preso sia dall’ombra che dalle fiamme», spiegò Legolas. «Un Balrog di Morgoth. Siamo finiti inutilmente nella rete di Moria.»
A quelle parole così dure, gli occhi di Gimli il Nano si riempirono di lacrime.
«Mai inutile è stata un’azione di Gandalf nella vita. Ancora non conosciamo appieno il suo scopo», replicò dolcemente la dama, e il suo sguardo si posò su di lui. «Non lasciare che il grande vuoto di Khazad-dûm riempia il tuo cuore, Gimli, figlio di Gloin, perché il mondo è diventato colmo di pericoli. E in tutte le terre l’amore ora si mescola con l’angoscia.»
Il nano alzò lo sguardo ed incontrò quello di Galadriel, che sorrideva.
«Cosa avverrà ora a questa compagnia?» domandò ancora Celeborn. «Senza Gandalf non c’è più speranza.»
«La vostra missione è sulla lama di un coltello: una piccola deviazione ed essa fallirà, per la rovina di tutti.» Galadriel li fissò ed esplorò in silenzio i loro volti. «Ma la speranza permane, fin quando la Compagnia sarà fedele. Che i vostri cuori non si turbino», sorrise infine. «Ora andate a riposare, perché siete logori dal dolore e dalla molta fatica. Questa notte dormirete in pace.»
Con quelle parole i signori di Lórien si congedarono. Ma Elanor restò lì, davanti a ciò che rimaneva della Compagnia dell’Anello. I suoi occhi erano velati dalla tristezza. Gandalf il Grigio era stato più volte in quei boschi, e più volte lei lo aveva incontrato. Una grande stella si era spenta.
«Caled veleg, ethuiannen», sospirò, con lo sguardo chino al terreno. «Aiya Eärendil, elenion ancalima.»

«A si i-Dhuath orthor. Han mathon.»
Elanor volse lo sguardo alle sue spalle. Aragorn era lì, e la osservava mentre raccoglieva l’acqua dalla Fontana con una brocca d’argento.
«Non sarà la nostra fine, mia signora», le rispose.
«Cosa possono fare gli Uomini contro un odio così scellerato?»
«C’è ancora forza negli Uomini.»
«Ma io non riesco ad avvertirla.» La giovane sospirò amaramente. «Se vi lasciamo soli, se salperemo per Valinor abbandonandovi al vostro destino non ci sarà un futuro per la Terra di Mezzo.»
«Edra le men. Men na guil edwen, haer o auth a nir a naeth.»
«Forse sarò lontana dalla guerra, Aragorn. Ma continuerò a provare dolore e disperazione finché Sauron non sarà caduto.»
Quanto era identica ad Arwen.
Aveva gli stessi capelli scuri, la stessa carnagione luminosa, lo stesso azzurro negli occhi. La stessa speranza nel cuore.
Erano pochi ormai gli elfi che avevano a cuore la sorte del mondo degli Uomini. Aragorn non voleva pensare che li avrebbero lasciati al loro destino. Che li avrebbero lasciati soli.
«Avverto la presenza dell’Anello», riprese lei in un sussurro. «Mi fa male.»
«Andremo via preso.»
«Ci rivedremo, Aragorn? Tornerete dalla vostra missione abbastanza presto?»
«Dan, u-eveditham.»
Il Ramingo si inchinò con deferenza e prese congedo. Mentre lo guardava allontanarsi gli occhi di Elanor si velavano di lacrime amare.
Aragorn, figlio di Arathorn, era tra gli Uomini la persona più cara agli Elfi. Era ciò che restava della stirpe spezzata di Númenor, l’ultimo monumento alla linea di sangue dei grandi re di Gondor. Nonostante fosse un sovrano senza corona era sulle sue spalle che gravava il destino della Terra di Mezzo. E ora che Gandalf il Grigio era caduto Elessar doveva trovare la forza solo in se stesso.

*

La Compagnia dell’Anello si allontanò su tre barche veloci e leggere donate dai signori di Lórien.
Elanor assisteva alla loro partenza seduta sulle robuste radici d’argento di un mallorn, che a tratti di confondevano con i drappeggi del lungo mantello che indossava. Sembrava un fiore, un luminoso fiore di elanor appena sbocciato dal grembo di una terra grigia.
Mentre gli elfi del Bosco d’Oro continuavano a seguire il lento scorrere delle barche, Elanor abbandonò il suo posto e corse allo Specchio. Soltanto lo Specchio avrebbe potuto darle le risposte che cercava.
Attraversando una grande siepe entrò in un giardino verdeggiante dove non crescevano alberi, che si apriva libero al cielo. Scese una lunga scalinata e mise piede in una profonda conca umida di rugiada, sulla quale correva il mormorante ruscello splendente che sgorgava dalla fontana in cima alla collina. Sul fondo una vasca d’argento bassa e poco profonda poggiava su un piccolo piedistallo scolpito come un albero frondoso; accanto vi era una bella brocca, d’argento anch’essa.
Con l’acqua del ruscello Elanor si chinò a riempire la brocca e poi la vasca fino all’orlo.
Dapprima non scorse che il riflesso del cielo ceruleo sopra di lei; ma ben presto l’acqua limpida iniziò ad incresparsi, e la fanciulla vide ciò che mai avrebbe voluto vedere.
Un esercito di strani Orchi stava seguendo la Compagnia sulla sponda occidentale dell’Anduin. Li avrebbero raggiunti a Parth Galen, vicino alle cascate di Rauros, e lì il destino dei Compagni dell’Anello sarebbe stato deciso. Boromir avrebbe cercato di prendere l’Anello a Frodo, e avrebbe riscattato la corruzione del suo cuore morendo nel vano tentativo di salvare Merry e Pipino dalle grinfie degli Orchi; Frodo sarebbe passato da solo sulla sponda orientale, e Sam sarebbe andato con lui per seguirlo negli Emyn Muil; Aragorn, Legolas e Gimli invece avrebbero seguito le tracce degli Orchi fino alle terre di Rohan, dove per prima si sarebbe abbattuta la furia delle due Torri. Al Fosso di Helm sarebbe stata combattuta una grande battaglia, e gli Elfi sarebbero stati chiamati a partecipare. Haldir avrebbe guidato quel glorioso esercito. Avrebbe combattuto con onore al fianco di Aragorn. E sarebbe morto.
Quando vide quell’ultima immagine Elanor scaraventò la vasca lontano da lei e cadde in ginocchio senza fiato. Cercò di non piangere, di non farsi sopraffare dal dolore e dal terrore, ma non ci riuscì, e dalla sua gola uscì un urlo lungo e straziante.
Il mantello grigio le cadde dalle spalle mentre cercava affannosamente un appiglio per alzarsi.
Lo Specchio mostrava molte cose. Cose che avrebbero potuto verificarsi se la Storia avesse preso un corso ostile.
E la storia aveva già preso un corso ostile.
Elanor si sentì sollevare da qualcuno, ed aprì gli occhi lucidi per guardare il suo viso.
«Elanor», le sorrise amorevole Celeborn. «Perché ti disperi?»
«Ada! Ho visto cose terribili… terribili!»
Celeborn le prese il viso tra le mani e le posò un bacio sulla fronte.
«Ricordi cosa ti è stato detto quando ti è stato mostrato lo Specchio per la prima volta, Elanor Auriel? Che mostrava ciò che sarebbe potuto succedere, e non ciò che sarebbe successo. Non ciò che sarebbe successo.»

*

Ma tutto ciò che lo Secchio aveva previsto si era avverato.
Il potere del nemico era cresciuto. Sauron aveva usato il suo burattino Saruman per distruggere la gente di Rohan. Isengard era stata sguinzagliata.
Il cancello del Fosso di Helm si aprì davanti all’esercito degli Elfi.
La lunga schiera di guerrieri dalle armature d’argento sfilò composta davanti agli occhi increduli dei cavalieri di Rohan. Erano lì per portare speranza agli Uomini, ma Haldir non riusciva a serbarne per sé.
Quando era giunto il momento di congedarsi aveva raggiunto Elanor nella sua stanza, e si era inginocchiato ai piedi del letto sul quale era seduta.
Lei l’aveva guardato supplichevole, come se quella preghiera silenziosa fosse stata sufficiente per cambiare le decisioni che erano state prese. Indossava il più bel vestito che Haldir avesse mai vist, le cui lunghe maniche ricamate si allargavano fino a toccare terra. I lunghi capelli scuri le cadevano sul busto seguendone la bella linea fino alla vita, cinta da una stringa di maglie di bronzo.
E per tutta la marcia fino alle terre di Rohan il ricordo di quei brevi, strazianti momenti era rimasto impresso nella sua mente.
Ma adesso era tempo di combattere. Doveva mettere da parte la dolce immagine di Elanor in lacrime che ripeteva il suo nome tra i singhiozzi.
«Porto notizie da Elrond di Gran Burrone», annunciò, quando si fu inchinato a re Théoden. «Un’alleanza esisteva una volta tra Elfi e Uomini. Molto tempo fa abbiamo combattuto e siamo morti insieme: è giunto il tempo di onorare quell’alleanza.»
«Mae govannen, Haldir», lo accolse Aragorn, a braccia aperte. «Sei più che benvenuto.»
«Siamo fieri di combattere al fianco degli Uomini ancora una volta.»

L’armata di Saruman si avvicinava. Il rumore della guerra cresceva. Nell’oscurità si vedevano punti di luce infuocata, come fiori rossi in un prato nero. Le nuvole erano attraversate da fulmini blu.
Per un lungo istante le vedette sulle mura scorsero lo spazio che li separava dagli Uruk di Isengard: ribolliva di una melma oscura, composta di strani esseri alti, bassi, snelli, corpulenti, con grandi elmi e scudi lunghissimi.
La pioggia iniziò a scendere, fitta e pesante.
Questo vedeva Elanor mentre giaceva sul suo letto preda della disperazione con gli occhi socchiusi, i capelli sparsi disordinati sul cuscino, i lembi del vestito che strisciavano per terra. I suoi respiri erano profondi ma lenti, il suo sguardo triste ma privo di ogni lacrima, la sua pelle ancora rosata ma fredda.
Le sembrava di udire i tuoni che squarciavano il cielo, il rumore delle frecce che trafiggevano le corazze degli Orchi, e le urla, e il clangore delle spade che si scontravano.
Cercava di scorgere Haldir, ma non riusciva a vederlo. Era lontano da lei, adesso.
La visione che aveva avuto si stava trasformando in un sogno dai contorni sbiaditi quando sentì qualcosa di rovente trafiggerle la schiena. Ma non urlò: lo vedeva, finalmente. Vedeva Haldir, ferito, morente, tra le braccia di Aragorn.
Elanor emise un lungo, impercettibile lamento.
Le foglie d’oro e d’argento che entravano dalla finestra del talan le si posavano sulla pelle, sui capelli, sul vestito. Il cielo già buio al di sopra di Lothlórien divenne ancora più scuro e cupo, e la brezza mite che soffiava tra gli alberi si trasformò in una gelida folata di vento ostile che veniva da sud, dalle terre di Rohan.
E con il cuore di Haldir di Lórien cessò di battere quello di Elanor Auriel, Stella del Mattino del popolo degli Elfi.

 
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