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Categoria: Manga e Anime
Dalla Serie: KING ARTHUR
Titolo Fanfic: SHIELDMAIDEN OF ROME
Genere: Azione
Rating: Per Tutte le età
Autore: earwen galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 16/02/2005 23:11:33

versione definitiva, aggiornata, riveduta e corretta...e anche un po` cambiata della trilogia su k.a.
 
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- Capitolo 1° -

"Ecco", sorrise Edayn, posando una piccola pentola sulla testa di Gilly. "Un vero scudiero di Roma."
"Sono pronto!" esclamò entusiasta il ragazzino, ed estrasse dal fodero una spada smussata che per poco non colpì il petto della sua amica. "Chiedo scusa. Non è così pericolosa. Non è nemmeno affilata..."
"Non va bene", sorrise lei. "Non ucciderai molti nemici con una lama smussata." Stava per aggiungere qualcosa, ma il rumore dei cancelli che si aprivano la interruppe. Finalmente erano tornati. "Forza, campione", disse. "C'è troppo rumore là fuori. Vostro padre è arrivato."

Artù e la sua compagnia di sarmati erano entrati da poco nella cittadella, e non erano soli. Insieme con loro c'era il loro salvacondotto per la libertà: il vescovo Naius Germanius, uno degli uomini più vicini al Papa. I documenti e i permessi che aspettavano da quindici anni erano nelle sue mani.
"Siete in ritardo", li rimproverò Edayn.
Artù le andò incontro per abbracciarla come faceva ogni volta che tornava. Lei era la figlia del suo consigliere più fidato, con lei si confidava, a lei rivelava ogni sua preoccupazione. Era una gioia vederla prima di ogni altro, al suo ritorno. E il bacio sulla fronte con la quale salutava non era, come tutti pensavano, unica prova di un amore tenuto altrimenti nascosto: a Edayn lui si rivolgeva con la devozione più sincera.
"Che brutto aspetto", continuò la giovane, mentre gli toglieva l'elmo dalle mani.
L'ospite da Roma li raggiunse con la sua scorta. Germanius era un uomo non troppo alto, dai capelli radi e prossimi ad ingrigire, ma aveva dei modi ed un sorriso accattivante. Forse sorrideva così perché non erano buone le notizie che portava.
"Giravano voci sulla bellezza della sassone scudiera di Roma", disse. "Una volta tanto le voci dicevano il vero."
"Eccellenza", rispose deferente lei, con una rispettosa genuflessione.
"Te l'ho riportato sano e salvo", la schernì Lancillotto, dopo che Artù fu entrato con il suo ospite. "Dovresti ringraziarmi."
Edayn scosse la testa sorridendo ed andò via.
Le attenzioni che il cavaliere aveva nei suoi confronti erano di tipo ben diverso da quelle che generalmente aveva un uomo per una donna. Per Lancillotto Edayn era una compagna di duelli e di gioco d'azzardo, non una donna. In lei vedeva una valida avversaria, una mente brillante, un gradevole libro da farsi raccontare piuttosto che leggere di persona. Ma lei questo lo sapeva. L'aveva sempre saputo. La rassegnazione era l'unico scudo che le era rimasto per difendersi.

§

Quella sera avrebbe dovuto essere diversa da tutte le altre, eppure nessuno sembrava disposto a rinunciare alle proprie abitudini. I cavalieri sarmati non lo avrebbero ammesso mai, ma quella vita, la vita della cittadella, sarebbe loro immensamente mancata. Sì, finalmente avrebbero rivisto casa, ma non avrebbero passato un singolo giorno a non ripensare anche solo per un istante a quello che avevano lasciato in Britannia. Dappertutto in quel borgo c'era qualcosa di loro: dai segni di pugnale lasciati sul bersaglio ai loro nomi incisi sulle sedie della Tavola Rotonda, dalle scritte sulle cortecce d'albero di quando erano ragazzini all'esercito di figli di Bors.
Edayn si aggirava per le vie del piccolo borgo guardandosi intorno. Anche per lei era ora di andar via, di vedere Roma per la prima volta. Lei non era la vera figlia di Claudio Augusto: era romana e sassone, sarmata e britanna. Romana come Claudio, che l'aveva accolta come una figlia, e sassone come la madre che non aveva mai conosciuto; sarmata perché tra sarmati aveva passato gli ultimi quindici anni della sua vita, e britanna perché ormai era diventata parte di quelle terre.
Si fermò pensierosa davanti ai cancelli. Si chiedeva come sarebbe stata la sua vita a Roma. Artorius la descriveva sempre come una città meravigliosa, viva, ricca di bellezza e cultura, dove ogni uomo era libero. Ma lei temeva che un posto così non esistesse. Temeva per lei stessa, perché in quanto sassone sarebbe stata disprezzata come barbara e come pagana, nonostante fosse stata cresciuta secondo i costumi di Roma e la religione cristiana. Solo il suo vigore e la forza innata che aveva nel sangue facevano di lei una figlia di Sassoni. Soltanto questo.
"Signora! Signora!"
Gilly la stava chiamando. Insieme con lui c'era la sua decina di fratelli, che la guardavano in attesa.
"Raccontaci la storia di Achille!"
"Sì!" gli fecero eco i bambini. "Achille!"
"E così volete la storia di Achille", sorrise lei prendendo in braccio il più piccolo, e si sedette su una pietra. Gli altri le si accovacciarono davanti. "Achille era il più grande degli eroi dell'antica Grecia. Visse tanti, tanti secoli fa, e partecipò alla più grande guerra mai combattuta."
"A Troia!" intervenne Gilly.
"Sì, a Troia."
"Dov'è Troia?"
"Se esistesse sarebbe ad est."
"Come la Sarmazia?"
"Molto più a sud della Sarmazia."
Ed Edayn iniziò a parlare della bellezza di Elena, di Paride ed Ettore, di Achille e Agamennone, della morte di Patroclo. Adesso attorno a lei non c'erano solo i figli di Bors. I cavalieri di Artorius e qualche altro abitante del castello si erano avvicinati, e ascoltavano rapiti quella leggenda che sapeva di storia.
"Achille non sarebbe mai tornato in guerra se Patroclo non fosse stato ucciso. Era il suo migliore amico, l'affetto che li legava era ancora più profondo di quello fraterno."
"Più di quello fraterno?"
"In un certo senso sì, Gilly. Spesso tra fratelli si litiga per sciocchezze, ci si fanno dispetti senza motivo. Questo non successe mai tra Achille e Patroclo."
"Cose da femmine!" protestò il ragazzino, balzando in piedi. "Avanti, parla della guerra!"
"Cose da femmine?" lo sfidò lei. "Allora ascolta bene questo, signorino: Achille sfidò Ettore davanti alle mura della città. Il duello fu all'ultimo sangue, la forza di Ettore era sovrumana. Ma Achille era un semidio, e non poteva essere ferito. Uccise Ettore, legò il corpo al suo carro e per tre volte lo trascinò attorno alle mura perché nessuno potesse riconoscere il suo volto."
"Ora basta con queste signorinelle!" intervenne Bors, mentre cullava l'ultimo dei suoi bastardini. "Quell'Achille lì era una damigella profumata in confronto ai Cavalieri del Grande Muro!"
I presenti alzarono al cielo i loro bicchieri urlando festanti. E avevano ragione di farlo. Ne avevano ogni diritto.
Il capannello che si era formato attorno ad Edayn andò via via scemando. Solo Lancillotto rimase con lei.
"Raggiungi i tuoi fratelli, piccolo Achille", disse la giovane, mettendo per terra il bambino che aveva tenuto in braccio per tutto il racconto.
"E così andrai a Roma, finalmente", sorrise Lancillotto, quando furono soli. "Cosa farai una volta laggiù?"
"Penserò a ognuno di questi giorni", rispose la ragazza.
"Credevo fossi felice di andartene da questo posto."
"Come potrei? Per te è diverso, Lancillotto. Avevi una vita, prima di questo avamposto. Io sono cresciuta qui, è come se ci fossi nata. Tu vuoi tornare dalla tua famiglia, alla tua terra. Ma la mia famiglia siete voi. Non mi importa nulla di questa terra, ma venderei l'anima al diavolo pur di passare con voi il resto della mia vita. Roma ha centinaia di abitanti, eppure sono certa che tra mille non potrei mai trovare nessuno che possa anche lontanamente somigliare a uno solo di voi."
Lui sorrise ancora.
"Nel bene o nel male?"
"In entrambi, temo."
"Io non credo che penserai più alla Britannia, quando sarai lì. Vivrai come figlia del nobile Claudio Augusto, sposerai un ricco signore romano e sarai felice per il resto dei tuoi giorni. Tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine, Edayn."
Lei accennò un sorriso.
"Possiamo solo sperare che la fine arrivi il più tardi possibile."

I due tornarono dopo poco tra la gente in festa.
Nonostante fosse stata adottata da un nobile romano, Edayn si era sempre considerata una di loro. Aiutava Vanora con i figli, duellava con i cavalieri, a volte si concedeva un bicchiere di vino al loro tavolo. Eppure non c'era persona che non continuasse a mostrare riverenza nei suoi confronti.
Camminò dritta fino al bersaglio al centro di quella caotica osteria sotto le stelle; Galahad aveva appena tirato il suo pugnale.
"Non male", commentò lei, mentre prendeva un coltello dal tavolo più vicino. "Ora vediamo se io riesco a fare meglio."
Fece qualche passo indietro, portò il braccio avanti a sé per misurare la traiettoria e lanciò con un bel colpo di polso il coltello, che centrò perfettamente il manico di quello di Galahad.
"Si può sapere come diavolo hai fatto?" domandò sconcertato lui.
"Miro al centro."
Edayn non ebbe il tempo di aggiungere altro che un altro pugnale fendette l'aria e andò a conficcarsi al centro del suo. Solo una persona sarebbe riuscita a farlo.
"Tristano", sospirò Galahad, sconfitto.
"Miro al centro anch'io", lo schernì il suo amico.
Galvano aveva osservato quella piacevole scena seduto al tavolo di fronte a loro. In piedi dietro di lui una giovane contadina gli massaggiava le spalle, ma lui non aveva occhi che per Edayn.
La trattava con tutto il rispetto che meritava una sovrana. Erano rare le volte in cui non la chiamava "signora", e quelle poche volte che pronunciava il suo nome volgeva lo sguardo altrove. Non ricordava di non averla mai amata. Ma lei era figlia di Claudio Augusto, ed il suo destino era al fianco di Artù. Galvano non aveva mai osato sperare di prendere il fortunato posto del suo comandante.
Edayn stava venendo verso di lui, adesso. Sotto la luce della luna gli appariva come una bianca dama dalla bellezza sconvolgente.
Quando la vide arrivare, la contadina lasciò le spalle di Galvano ed andò via; perché tranne Edayn tutti erano a conoscenza di ciò che il cavaliere provava per lei.
"Ti ho portato del vino caldo", gli sorrise, sedendosi accanto a lui. "L'ho fatto io, so che ti piace."
Galvano prese la coppa tra le mani e sorseggiò lentamente quella bevanda deliziosa.
"Grazie, signora."
"Quante volte devo ripeterti di chiamarmi Edayn?"
Lui non disse nulla.
"Mi mancherete così tanto. Ma è giusto che torniate alla vostra patria."
"La patria è dove si trova il cuore, ho sentito dire."
"E il vostro cuore non si è mai mosso dalla Sarmazia. Siete stati molto coraggiosi a combattere per qualcosa in cui non credevate. Roma vi è grata per questo."
"Tu e tuo padre ci siete grati; già all'alba di domani Roma ci avrà dimenticati. Ma a me questo non importa, non importerà più quando sarò tornato a casa. Mi sposerò, avrò dei figli che parleranno di me ai loro figli e ai figli dei loro figli. Il mio ricordo morirà con loro, e tanto mi basta."
"E invece ti sbagli. È vero, probabilmente nel tuo piccolo villaggio sarmata andrà così. Ma qui, Galvano, nel grande Impero Romano, voi vivrete in eterno. I vostri nomi e le vostre gesta saranno tramandate di padre in figlio, di madre in figlia, nelle leggende di Artù e dei suoi cavalieri. Saranno scritti poemi su di voi, i vostri nomi saranno incisi con lettere dorate nel grande libro degli eroi immortali." La giovane chinò la testa. "Ti confesso che almeno una volta avrei voluto partecipare a una delle vostre missioni. Avrei voluto combattere al vostro fianco, diventare importante per l'impero come lo siete stati voi. Sono stata troppo vigliacca per portare a termine questo proposito."
"Non puoi vivere nel rimorso per una colpa che non hai commesso."
"Che intendi dire?"
Galvano esitò. Poche ore ancora, e sarebbe andato via. Non avrebbe rivisto più quella splendida giovane. E lei l'avrebbe dimenticato. Finalmente poteva dire ciò che serbava nel cuore.
"Mia signora, tu sei bella, e coraggiosa, e hai molte cose per cui vivere", mormorò, e per la prima volta incrociò il suo sguardo senza provare timore. "E molti che ti amano. So che è troppo tardi per tornare indietro. So che non serve a molto ormai sperare. Se fossi un nobile tuo pari, in grado di renderti felice... ma non lo sono. Sono solo un figlio di contadini di una regione che la maggior parte dei romani nemmeno conosce."
Edayn restava ad ascoltare, silenziosa e turbata.
"E so che il mio destino non è con te", continuò lui. "Volevo solo che lo sapessi. Più di ogni altra cosa, vorrei rivederti." Galvano sospirò, ma non cessò di guardarla. "Non provare pietà per me."
"Non rifiutare la pietà, dono di un animo gentile", sussurrò la ragazza, posando una mano sulla sua. "Non è pietà quella che provo per te, perché sei un cavaliere nobile e valoroso, ed hai conquistato una gloria che non sarà mai dimenticata. E se anche le vostre gesta dovessero essere obliate e cancellate dalla Storia io mi ricorderei sempre di te. Tu sei un uomo d'onore, e..."
"Allora non c'è nulla di questi quindici anni che io deva rimpiangere o rimproverarmi", la interruppe Galvano, alzandosi velocemente. Non aveva bisogno di dire né di udire altro. "Addio, mia signora."
Edayn sollevò la testa e lo guardò con gli occhi lucidi. Quella era davvero la fine di ogni cosa.

§

Quando Edayn si svegliò aspettava di trovare il sole alto nel cielo, e invece non era nemmeno l'alba. Ma dalla fessura della porta entrava un po' di luce: non doveva essere l'unica sveglia a quell'ora.

Artorius era nella stanza vicina.
Edayn lo vide seduto accanto alla finestra, con uno sguardo mesto, perso nel cielo di una notte senza stelle.
"Perché sei sveglia?"
"In sogno ho visto un'onda immensa", mormorò lei, "che invadeva terreni e sovrastava le colline. Io mi trovavo sul bordo; l'oscurità era totale nell'abisso davanti ai miei piedi. Una luce splendeva dietro di me, ma non riuscivo a voltarmi. Potevo solo stare lì, in attesa."
Il cavaliere si girò a guardarla. Era triste, pallida, e aveva gli occhi semichiusi di chi si era appena risvegliato da un terribile incubo.
"La notte cambia molti pensieri", rispose. "Dovresti riposare."
"Dovresti farlo anche tu." Edayn si sporse dalla finestra. Sopra il vestito bianco indossava uno splendido mantello di porpora, sul quale i suoi capelli biondi risaltavano come oro vivo. "Germanius vi ha affidato una nuova missione, non è vero?"
"Come fai a saperlo?"
"Non lo so. All'inizio mi è sembrato troppo affabile e sorridente per essere un vescovo, ma era solo un impressione. Ora ti vedo qui. Non c'è altra spiegazione."
"Dobbiamo partire domani", sospirò lui, dopo una lunga pausa.
"Gli altri ne saranno lieti."
"Dovevo estorcergli quei documenti con la forza."
"Sai che non ne saresti stato capace. Avevi dato la tua parola e l'hai mantenuta. È stata Roma a venire meno al patto, non tu."
Artù scosse la testa, e sospirò pesantemente.
"Il futuro che ho promesso ai miei cavalieri è quasi svanito."
"Ma non è perduto", insistette Edayn. "Sapevi che un momento come questo sarebbe potuto arrivare. Non è la fine, ma l'inizio. Devi guidare i tuoi uomini un'ultima volta. È questa la tua strada."
"La mia strada mi è oscura."
"E' già tracciata davanti ai tuoi piedi, non puoi esitare adesso."
"Edayn..."
"Se davvero non credi in nient'altro credi nei tuoi cavalieri. Credi nei tuoi amici. Affronterete il vostro ultimo nemico, e voi lo sconfiggerete."

E così aveva visto bene. Germanius non era venuto per concedere la libertà ai cavalieri sarmati. Adesso il riguardo che aveva nei suoi confronti era nettamente diminuito, i suoi sentimenti molto meno benevoli.
Il vescovo uscì dall'appartamento di Artù nello stesso momento in cui Edayn stava passando davanti alla porta.
"Vi rendete conto che al di fuori del Vallo di Adriano ogni essere umano che non sia un woad o un sassone è destinato al massacro, Eccellenza?"
Una libertà di quel genere non era concessa a nessuno; si chiedeva come avrebbe reagito Germanius.
"Credi che informarmi di questo sia di tua competenza, ragazza?" chiese lui, indispettito.
E quella era l'indole liberale e rispettosa dei romani?
"Vi chiedevo solo, Eccellenza, quale causa fosse più importante della vita di sette uomini."
"La vita di un ragazzo destinato a diventare papa."
"E se non dovesse diventarlo?" lo incalzò lei. "Avranno rischiato la vita invano?"
"Oh, lo diventerà. Alessio è figlioccio del Papa. Capirai quindi che lo diventerà senz'altro."
"Figlioccio del Papa", ripeté poco convinta la ragazza. "O figlio stesso, magari."
Germanius la guardò con disprezzo.
"Soltanto una barbara sassone come te potrebbe annebbiarsi la mente con questi pensieri sacrileghi", sibilò.
"Probabilmente è vero. Ma solo un romano sarebbe in grado di trasformare certi pensieri sacrileghi in una realtà ancora peggiore."
"Ragazza sveglia", sorrise a denti stretti il vescovo, riacquistando l'atteggiamento gioviale che aveva perduto. "Se sono davvero cavalieri leggendari e soprattutto se Dio vorrà sopravvivranno."
"Credo che Dio non sia di casa qui, Eccellenza."
"Quello che appena detto è blasfemo ed eretico. Non hai paura della collera del Signore?"
Edayn scrollò le spalle.
"Mio padre ed Artorius mi hanno fatto crescere con l'idea che Dio è buono e misericordioso. Non credo che scatenerà la sua collera su una giovane ingenua che non ha mai conosciuto la grandezza di Roma. Per questo non ho cosa temere."
"Così il castigo divino non ti spaventa. È lecito sapere cosa temi, allora?"
"La gabbia", rispose ferma lei. "Restare dietro le sbarre finché l'abitudine e la vecchiaia le accettino, e ogni occasione di valore sia diventata un ricordo o un desiderio."
"Potresti fare in modo che questo non sia il tuo destino", disse Germanius, laconico. Quella giovane barbara aveva forza e carattere invidiabili. Avrebbe servito bene quella causa. "Si dice che tu sia scudiera di Roma. Perché non lo dimostri e vai a combattere con Artù e i suoi cavalieri?"
"Che cosa?" chiese sconcertata lei. "Dite che dovrei andare con loro?"
"Certamente. Mi è stato riferito che sei abile sia con l'ascia che con le spade, e che tra le tue mani l'arco diventa un'arma ancora più temibile. Mi è stato riferito che non avevi nemmeno dodici anni quando sei riuscita ad ammansire un purosangue impazzito. Brogo, l'hai chiamato."
"Brego, mio signore", lo corresse lei. "Aveva paura della sua ombra. Io l'ho semplicemente fatto girare verso il sole."
"Almeno una volta avrei voluto partecipare a una delle vostre missioni. Avrei voluto combattere al vostro fianco, diventare importante per l'impero come lo siete stati voi".
Questo aveva detto a Galvano. E adesso il destino poneva davanti a lei un'altra via, la via che desiderava percorrere.
"Andrò con loro, Eccellenza", disse, vinta da un impeto improvviso. "Partirò con Artorius."
"Benissimo! Benissimo!" esclamò Germanius. "Ora va' a prepararti. Dicono che la bellezza non è un'arma sufficiente, qui in Britannia."

"Io non manderò mia figlia a morire!"
Claudio entrò furibondo nelle stalle. Edayn era lì con Brego, ed accarezzava la sua bella criniera corvina.
"E' stata una mia scelta, padre", rispose.
"Perché fai questo? Perché vuoi andare con loro?"
"Perché qualche giorno ancora, e non li rivedrò mai più. Il mio ultimo giorno con loro doveva essere questo. Ma quando ho saputo, quando Artorius mi ha detto della decisione di Roma ho sentito che a parlarmi non era lui, ma il mio destino. Ho la possibilità di acquistare qualcosa che ho perduto, qualcosa che non avrei mai potuto recuperare se le cose fossero rimaste com'erano. Ma le cose sono cambiate. E se ora non vado con loro lo rimpiangerò per sempre." Edayn gli prese il viso tra le mani e lo costrinse a guardarla. "Per cosa mi avresti insegnato a combattere? Per cosa avrei speso i miei giorni a maneggiare arco e spada? E Brego? Me l'hai voluto regalare quando mi hai vista domarlo. Un cavallo come lui non può limitarsi a galoppare per Badun Hill."
"Per difenderti semmai un nemico fosse riuscito a passare a sud del Vallo", insistette lui. Le sue labbra fremevano di rabbia e paura. "Ma andare così incontro al pericolo... Edayn!"
"Finché ci saranno Artorius e i suoi cavalieri non mi accadrà niente. Te lo prometto. Fammi usare la tua spada, padre."
In quell'istante Claudio vide negli occhi della figlia una luce nuova, una serenità che non aveva mai conosciuto. Strano affare che una simile serenità le fosse data dal pensiero della guerra. Fu allora che il nobile consigliere capì che Edayn non avrebbe mai trovato la pace se non avesse esaudito quel desiderio. Fu allora che non gli rimase altro che concederle la sua benedizione e farle dono della spada che un tempo egli aveva brandito con onore al fianco di Artù.


 
Continua nel capitolo:


 
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