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Categoria: Manga e Anime
Dalla Serie: L'Attacco dei Giganti
Titolo Fanfic: LAGGIù,SULLA FRONTIERA
Genere: Horror, Fantasy, Dark
Rating: Per Tutte le età
Avviso: Spoiler
Autore: dealubitina galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 29/12/2015 15:16:36

Quattro eroi, quattro codardi, quattro sciocchi avventati. Quattro esseri umani la cui esistenza è stata cancellata dalla Storia.
 
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IL BUCO
- Capitolo 1° -

Il soldato non aveva mai pensato al futuro. Era un qualcosa di indistinto, confuso, che si andava a disperdere laddove la nebbia nasceva. Che futuro c’era, in quel mondo?
Il soldato era cresciuto all’inferno. Non si era mai aspettato nulla, dal mondo. Non credeva che il mondo di sopra, fuori dai sotterranei, potesse essere diverso, soltanto perché illuminato dalla luce del sole. Non credeva che l’animo delle persone potesse essere più gentile o meno crudele, che la pietà fosse insita nel cuore di ognuno. Non si era mai fatto illusioni di quel genere.
Se nasci all’inferno, ne porterai sempre un pezzo dentro di te.
Il soldato pensava molto al passato. A quello che era successo 70 anni prima. Quel mondo grigio e fuligginoso della sua infanzia aveva annientato la sua fantasia infantile. Non aveva mai sognato un futuro da re, per sé.
Aveva visto le mura per la prima volta quando aveva 12 anni. Erano lì, davanti a lui, sporco di nero e di cenere, gigantesche ed eterne. Candide e scintillanti sotto la luce di quella gigantesca lanterna che aveva solo, sempre, sentito nominare.

Il soldato fu svegliato dalla luce candida del sole. Quella luce, perfettamente bianca, filtrava dalla coltre di nubi liscia e inanimata, e a sua volta traspariva dalle imposte sbeccate e malridotte della casa della signora Astrid.
Cloe non era più accanto a lui, ma il suo calore rimaneva. Il soldato si accorse, per la prima volta dopo tempo, di essere perfettamente riposato.
Il soldato amava dormire. Probabilmente non lo si sarebbe detto di lui, un uomo così oscuro, dalle profonde borse sotto gli occhi nero pece. Eppure, ogni volta che si distendeva sul letto, sulla branda, sul pagliereccio, si sentiva pervadere dal calore del suo stesso corpo, e si sentiva in pace con se stesso. Amava chiudere gli occhi appena fatto buio. Raramente, come era successo la sera prima, sgradevoli pensieri lo coglievano in quei momenti. Il soldato non amava rimuginare. Era un uomo di pochi vizi. Uno di essi era l’essere felice di poter vedere il sole, il giorno dopo. Chissà, forse quei dodici anni passati alla tremula luce delle candele dovevano aver creato in lui quella così grande sete di luce.
Adorava quei momenti, in cui la veglia appena iniziata ha il sapore dei sogni appena finiti, e il sole filtrava dallo spiraglio della finestra, della tenda, o semplicemente illuminava il suo volto, mentre se ne stava appoggiato ad un albero in qualche foresta infestata di titani. E, schermandosi gli occhi con la mano, amava spiare la grande lanterna, controllare se ancora ci fosse. E se ci fosse stata, l’indomani.
Il soldato amava concedersi piccoli vizi come quello.
Il soldato, un tempo, prima di divenire debole, aveva amato dormire, vivere, da solo.
Una volta, prima che Cloe entrasse nella sua vita, aveva accolto alcune donne tra le sue braccia.

Il soldato si alzò dal sacco a pelo, e si avvicinò alle imposte. Il sole, dietro alla spessa coltre di nubi, da cui continuavano a cadere morbidi fiocchi di neve, probabilmente brillava felice e indifferente. Contento nella sua solitudine, soddisfatto della sua autosufficienza. Proprio come un titano. Una monade, ma senza vita.
Loro non mangiavano. Loro vomitavano le creature cui avevano spezzato la vita, senza cibarsene. Solo una volta, una sola volta, nelle tragiche spedizioni annuali cui il soldato aveva partecipato, aveva visto dei mostri essere animati dalla fame. Giudith.
Il sole era ancora là, nascosto ma presente, pronto a spiare quel pigro risveglio. Un altro giorno del pellegrinaggio alla Polis era iniziato.
Il soldato notò, in un angolo della stanza, una bacinella d’acqua. Fumava, era bollente. Appoggiata al piccolo mobile di metallo che reggeva la bacinella, un pezzo di stoffa assorbente. Accanto alla finestra, un piccolo specchio macchiato dagli anni. E, in una coppa lì vicino, un rasoio d’argento. Sorrise tra sé e sé, e se lo appoggiò sulla barba ormai lunga.
Se la prese con calma. Stette attento a non tagliarsi, e ammirò deliziato ogni pelo che cadeva nell’acqua calda, guardando gradualmente apparire la pelle olivastra sottostante. A lavoro finito, si asciugò il viso.
Prese in mano lo specchio. Era da molto che non guardava il suo volto. Perfino da prima della spedizione dell’impiccato.
Il soldato aveva trentuno anni, e sarebbe stato giudicato probabilmente un bell’uomo, se non fosse stato per la singolarità del suo aspetto, e per lo sguardo imperscrutabile negli occhi. Erano occhi piuttosto comuni e normali, aveva sempre pensato. Neri, leggermente a mandorla, occhi da furbo, nascosti dietro ciglia altrettanto nere. Spesso Cloe diceva che quello sguardo era colmo di rabbia. Che racchiudeva la rabbia di tutta l’umanità. Il soldato non lo credeva. Non credeva fosse l’ira a spingerlo avanti, anche se aveva sempre amato raccontarselo. Il soldato aveva la carnagione scura, poco più chiara della povera Giudith, e folti capelli neri, ricci. Ribelli. Crescevano in continuazione, in riccioli crespi che, puntualmente, si riempivano di foglie secche, ramoscelli e vari detriti volanti, tra le risatine strozzate delle reclute. E di Gregor.
Nel complesso, aveva un aspetto inusuale. In quel mondo così piccolo, la maggior parte delle persone aveva capelli biondi, color miele, o al massimo castani, e scialbi occhietti azzurri. C’era in lui un qualcosa di esotico, e il soldato lo sapeva. Quel suo esser differente, nell’aspetto, nel colore della pelle, nel taglio degli occhi e nelle labbra troppo carnose, aveva sempre respinto quasi tutti. Il soldato aveva imparato a convivere con la diffidenza, col pregiudizio. Con l’essere diverso, perché col passato ricoperto di fuliggine e con i palmi delle mani troppo più chiari rispetto ai dorsi non si può, di certo, esser amati da tutti. Aveva imparato a convivere con le gomitate che le comari si scambiavano al suo passaggio, e con i sospiri confusi delle ragazzine costrette dai padri di famiglie troppo numerose ad arruolarsi. Ragazzine che speravano, mostrando una tetta qua e là al primo caposquadra di addestramento, di ottenere un facile posto nella guardia cittadina. Aveva imparato a sopportare le chiacchiere non troppo nascoste dei compagni di corso di addestramento. “Scimmia”, una volta, un rosso di capelli, gli disse, durante il secondo anno. Quella fu la prima rissa a cui il soldato partecipò, nella vita nel mondo di sopra, e vinse.
Il soldato aveva lunghe mani affusolate, dall’aspetto delicato. Anche troppo. Dopo aver impugnato troppo a lunghe le lame, sentiva le vesciche nascere sui palmi, e, durante la battaglia, già spaccarsi. Ricordava con orrore, ai tempi dell’addestramento, i combattimenti corpo a corpo. Tirar pugni gli piaceva, ma detestava vedere la pelle delle nocche spaccarsi a sangue. Teneva sempre in tasca un unguento dall’orrendo puzzo.
Era un uomo di corporatura agile, slanciata. Probabilmente si avvicinava ai sette piedi di altezza. Quando fu ordinato caposquadra, dovettero far fare su misura in fretta e furia un’alta uniforme, perché i pantaloni d’ordinanza gli arrivavano a malapena alle caviglie. Altre risatine delle reclute.
Era entrato nella legione esplorativa a sedici anni, la prima età utile per essere un soldato regolare. Ed era già troppo alto per i minuscoli lettini delle camerate.

La luce era candida, sul suo volto. Il soldato, quella mattina, si sentiva calmo e pulito. L’orribile visione della ragazza in abito da sposa, piangente di fronte alle mura, era solo il ricordo di una vita che non gli apparteneva. Erano problemi di qualcun altro. Di una donna, che di lì a poco, sarebbe passata a miglior vita. Quel freddo, e i troppi anni e i troppi dolori sulle spalle, l’avrebbero stroncata.
Col suo miglior sorriso stampato sulle labbra, tornò nella stanza principale.
Gregor, con indosso solo le braghe ed una lisa camicia di lino, Lem, ancora avvolto in una pesante coperta di lana battuta, e Cloe, piedini sporchi e scalzi, aveva già l’uniforme indosso. Probabilmente era stata lei a lasciare l’occorrente per la barba, nella stanza. A volte quella donna era capace di gesti di una dolcezza estrema e incomprensibile, ed altre volte, perfino il peggiore dei titani riusciva ad essere più gradevole. Dallo sguardo che Cloe gli rivolse, voltandosi a sorridergli, quel giorno doveva essere di buon umore.
Tutti e tre erano seduti al tavolo, soli. Silenziosi. La neve aveva ricominciato a mulinare, fuori dalla finestra, e disegnava strani ed effimeri disegni sui loro volti.
-Buongiorno, John.
John sospirò. Mancava qualcuno. Palesemente. La sedia a dondolo nell’angolo, vicino all’antico e rozzo camino sporco di fuliggine, era vuota. –Dov’è la donna?
-Andata. -,rispose semplicemente Lem, col suo solito sguardo vago, disperso in lidi misteriosi che nessuno poteva conoscere.
-Andata dove?
-Mi sono svegliato all’alba, e non c’era più. ,- borbottò Gregor.
-Le persone sono strane,-mormorò John. Perché mai una donna di più di cento anni avrebbe dovuto allontanarsi, nella notte, nella peggiore tormenta che il mondo dopo la sua fine ricordasse?
-Ha lasciato questo,-annunciò Cloe, tenendo in mano un grosso tomo, rilegato in cuoio marrone, dall’aspetto solido. -Sembra essere un diario, o qualcosa di simile.
Il soldato si avvicinò al camino, e prese alcuni pezzi di legno da una catasta in un angolo. Afferrò un ramoscello, e gli diede fuoco con l’acciarino. Di lì a poco, un fuoco gioioso crepitava nel camino.
-Dobbiamo andare a cercarla. , - disse il soldato, infilandosi la giacca dell’uniforme, sempre troppo stretta e corta di maniche.
-Ma guarda John! Fuori c’è la tormenta.,-sorrise Lem,-Ho fatto il tè. Gregor ha trovato scorte di cibo in scatola che basterebbero ad un esercito, nella cantina. Sei proprio sicuro di voler partire ora? ,-ammiccò l’uomo, i lineamenti affilati contratti in una smorfia gioiosa.
Cloe sospirò, con la superiorità che può avere solo una donna. –Si è allontanata volontariamente. Mentre tutti dormivamo. Probabilmente ha voluto semplicemente condividere con qualcuno la sua storia, per poi andarsene. Riuscite a immaginarne il peso? Si sarà sentita svuotata, ma in pace. Avrà voluto farla finita. E, inoltre, ha lasciato questo in bella vista. -E la ragazza indicò il tomo.
-Va bene, va bene,-disse John, alzando le mani. –D’accordo gente. Fuori c’è la tormenta peggiore che si ricordi, abbiamo cibo, acqua, calore a volontà, numerosi giorni d’anticipo sulla tabella di marcia, e la nostra reciproca fantastica compagnia. Soprattutto Gregor, che chiacchierone che sei stamattina.
L’omaccione sbuffò, facendo una smorfia. –Stanotte ho dormito male, stronzo.
-Qualcuno ha dato da mangiare ai cavalli?
-La stalla è strapiena di paglia. Quella donna doveva temere un’altra fine del mondo, per accumulare così tanti viveri. ,-notò Lem. Fece una pausa, prese un profondo respirò, e il silenzio nella stanza si fece totale, se non per lo scoppiettio del fuoco.
-Ho letto il diario, prima che voi vi svegliaste, e credo che sia necessario parlarvene. Ma, prima, dobbiamo promettere. - Lem annunciò infine con aria solenne.
Cloe scoppiò a ridere, di gusto, coprendosi la bocca con la mano bianca. –Cosa? Siamo una specie di società segreta ora?
Il soldato la zittì con un’occhiata di fuoco. –Siamo stati tutti già vincolati al segreto quando abbiamo fatto sparire il corpo del comandante. Io e Cloe l’abbiamo consegnato al titano. Tu, Lem, hai fatto partire le false ricerche, e tu, Gregor, ti sei occupato di tenere a bada i soldati semplici. Qualunque cosa, credibile o meno, tu ci stia per dire, sai che saremo con te.
Il soldato si stupì delle sue stesse parole. Non era un grande oratore, e tantomeno amava fare discorsi che includessero più di una frase. Fu in quel momento che si rese conto di ciò che legasse quel gruppo di quattro eroi, di quattro dannati: avevano vissuto esperienze terribili, avevano ingannato, avevano ferito e avevano mentito, tutti insieme. E fra di loro c’era sempre stato un accordo tacito, un sottile ma indistruttibile filo invisibile che li legava, nonostante le leghe e le mura a dividerli. Non avrebbe mai dimenticato lo sguardo risoluto e i grandi occhi verdi di Cloe nell’aria gelida di quella mattina fuori le mura, il pesante sacco di juta in spalle, e un cadavere al suo interno.
Forse era proprio in ciò che stava l’amicizia. Finalmente, da qualche parte nel suo animo fuligginoso, qualcosa si sciolse, si depurò definitivamente dei dolori e dei rancori. Ora, sapeva, il soldato, che, qualunque cosa fosse avvenuta, loro tre sarebbero stati con lui. Insieme. Ciascuno con la propria storia, con le proprie aspirazioni, i propri pregi e difetti. Se quello era il mondo dopo la sua fine, come diceva la vecchia dispersa nella neve, allora avrebbe voluto vivervi assieme a loro. Non sarebbe più stato ladro di rimpianto, il re dei solitari nascosto nel buio con la sua pelle scura: era diventato debole. Ma esserlo era anche bellissimo.
Cloe, dopo le parole del soldato, aveva abbassato lo sguardo. –Hai ragione, John. Non avrei dovuto scherzare.
Lem sorrise. –Quindi siamo d’accordo? Mai, e poi mai, una parola riguardo ciò che sto per raccontarvi. E mai, una parola sull’esistenza di questo diario.
Anche Gregor annuì. –Sono con te, fratello.
L’aria era tiepida, nella stanza legnosa della fattoria. La neve si accumulava sulla finestra, e veniva spinta via del vento; il tè fumava nelle rozze tazze di corno poggiate sul tavolo.
-Bene. Allora..

La donna di un altro tempo

Astrid aveva ucciso una sola volta, quando andò a lavorare nelle miniere. Il territorio degli umani sembrava disegnato per racchiudere in sé tutto quanto poteva essere necessario ad una vita agiata: c’era acqua in abbondanza, montagne per i pascoli, pianure per il grano, colline per la vite, boschi per selvaggina. E minerali. Grandi giacimenti di ferro all’apparenza inesauribili, di carbone, di oro, di rame e argento.
Astrid guardava la cartina appesa al muro della villa, mentre rifletteva su come far sparire il cadavere della donna, nuda, obesa, e rugosa, che stava sanguinante di fronte a lei. Una vacua espressione di sorpresa era ancora dipinta sul volto, in parte sfregiato dal colpo che Astrid aveva dato con la brocca argentata trovata su un delizioso tavolino di legno intagliato.
Astrid era calma. Incredibilmente calma. Pensò di farla a pezzi, e nasconderla in giardino; ma l’avrebbero scoperta.

Allora decisi l’unica cosa possibile. Scappai. Scappai di nuovo. Raccolsi, di nuovo, quanto potevo, in una sacca. Ma, prima, presi i vestiti della donna. Erano costosi. Pieni di perle. Sarei riuscita a ricavarne più o meno quanto avevo ricavato dal mio abito da sposa. Lanciai a terra il quadro che conteneva la cartina del mondo, e presi la pergamena. La arrotolai. E la infilai nel mio sacco da viaggio. Almeno, ora, sapevo dove andare.
Scappai nella notte che diventava giorno. Solo l’alba e i cani randagi erano testimoni della mia fuga. Camminai a lungo, non seppi quanto, fino a che non vedi il muro Sina. Non piansi, a quella vista, a quel candore appena dorato dalla luce del sole. Non ne avevo la forza. Attraversai il cancello a testa bassa, trascinando il mio corpo e il sacco come fossero una cosa sola.

La signora per cui Astrid aveva lavorato era una ricca possidente di miniere d’argento. Ne aveva due, sparse per l’interno del muro Maria. Dal Sina, Astrid aveva vagato. Aveva vissuto di stenti e della carità della gente, era andata ad elemosinare nelle opere di carità di grandi e piccole città. Aveva frugato nella spazzatura.
La nostra Astrid doveva essere davvero bella, da giovane. Qui c’è un ritratto a carboncino che un altro disperato le aveva fatto alla luce di candela, una notte che avevano trovato assieme rifugio in una stalla del podestà di un villaggio.
Così sola, così bionda e così innocente, doveva probabilmente attrarre le voglie dei ladri e dei mostri che vagano nella notte, e così aveva imparato a difendersi.

La strada per arrivare al muro Maria era lunga. Non so come feci a sopravvivere, guardandomi ora, vecchia e stanca. Incontrai un uomo, una notte. Quell’uomo prima, mi accolse nella sua casa, e a me, dopo tanto peregrinare e dormire al freddo, parve una reggia. In realtà, era solo un sottoscala di un edificio industriale. Ma era caldo, e c’era cibo. L’uomo mi sorrideva, mentre versava zuppa nella mia ciotola. Mi chiese se volessi fare un bagno. Io accettai.
Lui se ne andò in un’altra stanza, e io mi sentii al sicuro. Aveva uno sguardo bonario, lunga barba color mogano. Mi immersi nella tinozza d’acqua calda riscaldata al camino, e mi sentii felice.
Mi rivestii. Dormii accanto al fuoco.
Il giorno dopo, l’uomo non c’era. Al suo posto, c’era un coltello col manico intagliato in una strana pietra bianca, liscia, leggermente striata di ocra e ambra.

Astrid aveva continuato il suo viaggio. Aveva venduto in un mercato nero uno degli abiti della donna, attenta a tenere nascosto il volto sotto il velo di lana pesante, ed aveva comprato un cavallo, il coltello nascosto dentro la manica della blusa, durante la trattativa. Con sua stessa sorpresa, si era resa conto di saper cavalcare la bestia. Era una femmina, un po’ vecchia e stenta, ma Astrid non aveva fretta. Seguì la cartina, che indicava, oltre la città in cui aveva comprato la cavalla, una via che, destreggiandosi fra colline e boschetti, fra fattorie e ampi campi di grano, conduceva al cancello del Rose. Ogni sera bussava ad una fattoria diversa, offriva i suoi pochi soldi in cambio di un pasto caldo e di un luogo in cui dormire. A volte le sbattevano la porta in faccia, a volte non volevano neppure le sue monete e condividevano un boccone con lei senza chiedere altro che la sua compagnia.
Astrid si addormentava ogni notte accanto alla cavalla, che fosse sotto ad un albero solitario o dentro ad una stalla calda di paglia. Le sue gambe erano diventate forti, ed il suo volto era abbronzato per il lungo viaggio all’aria aperta.
Le prime giornate passate a cavallo furono un inferno. Sentiva la pelle delle cosce spaccarsi e il sangue scorrere. Ma, piano piano, tutto migliorò. La pelle si ispessì, e il clima divenne più mite. Il sole riscaldava anche le ore lontane dal mezzogiorno, e il sorriso più sincero e indifferente di ogni contadino nel suo campo pareva più felice. Attraversò una zona di frutteti, e i meli fiancheggiavano la strada di terra battuta. Raccoglieva un frutto, e lo mordeva. Faceva riposare la cavalla ad ogni fontanile, le offriva le sue mele. Salutava ogni passante sul suo carretto trainato da muli, e adorava vedere il volto sorridere in risposta. I ragazzini dei villaggi che attraversava si fermavano a scuotere la mano nella sua direzione.
Arrivò al muro Rose che era già primavera. Attraversò la città al limitare delle mura a cuor leggero. Si riparò gli occhi da sola con la mano, quando vide la grande effige femminile sul cancello. E dall’altra parte, chiese delle miniere d’argento.

Quel distretto si chiamava Karanes. Era una città come tutte le altre. Rispetto a quella in cui mi ero risvegliata quel giorno lontanissimo nel tempo, aveva solamente l’aspetto poco più povero. Come se quelli che ci avevano rinchiuso lì avessero già deciso quanto ricchi saremmo dovuti essere. Anche la gente era più diffidente, più distante. Parlavano poco fra loro. Parlavano poco con me.
Il primo giorno in quella città, mi recai nella prima locanda che trovai. Avevo ancora dei soldi con me, ricavati dalla vendita del ciarpame di quella puttana, e mi pagai una stanza.
Chiesi alla locandiera, una donna più o meno della mia età, con lunghi e lucidi capelli neri, se sapesse qualcosa delle miniere di argento della famiglia della signora L. Quella mi guardò sorridendo. Sì, lo sapeva, disse. Una di esse era a nord est, a poche miglia di distanza dalle mura esterne del distretto. Io le sorrisi di rimando, e lei mi versò una birra.
Non ne avevo mai bevuta, o, almeno, non in quel mondo e in quella vita. La ragazza mi invitò a sedere su uno sgabello davanti al bancone. Non so perché, ma avevo sempre immaginato una locanda come un luogo vecchio, consunto, che puzzava d’alcol.
Ancora oggi ci penso. Quel mondo era nuovo, creato per noi. Ecco perché non c’erano case con l’intonaco scrostato, ecco perché i campi erano ancora fertili e le miniere ancora traboccavano di preziosi. Ed ecco perché neppure la peggior bettola puzzava d’umano, di sporco, di sesso e di violenza. Era solamente un enorme palco teatrale.
Era passato solo poco più di un anno e mezzo dal risveglio.
Mi tolsi lo scialle, e me lo ripiegai in grembo.
“Tu sei diversa”, disse la ragazza, giocherellando con una ciocca di capelli.

Astrid parlò a lungo con la giovane locandiera, prima di andare a riposare su un vero letto dopo un viaggio così lungo. E, per la prima volta, si rese conto della grande Bugia.
Lei non ricordava nulla del mondo di prima, ma era certa di non essere nata lì. Aveva vissuto sulla sua pelle, assieme alle altre povere disgraziate che non ce l’avevano fatta, l’orrore di non conoscere il proprio passato. L’orrore di essere in trappola a causa di una minaccia senza nome ma dal volto folle ed umano, qualcosa di cui si leggeva nei libri, ma che nessuno aveva mai visto.
Ricordava il suo abito da sposa candido, e il candore impossibile delle mura, che svettavano fino al cielo, e toccavano le nubi.
Quella ragazza non ricordava nulla. Astrid le chiese dove fosse nata e quanti anni avesse. Lei rispose di essere nata in quel distretto e di aver ereditato il locale dai genitori, morti tragicamente per un’epidemia di peste che aveva colpito la zona est del muro Rose. Rispose che ne aveva 23.
Astrid ascoltò senza parlare. Aveva improvvisamente freddo. Si coprì con lo scialle, si fece dare la chiave della stanza. E dormì un lungo sonno senza sogni.
Il giorno dopo ripartì. Comprò pane al mercato e riempì la borraccia dell’acqua ad una fontana pubblica. Salì in sella alla sua cavalla, che nitrì felice nel poter tornare a trottare nei campi fuori da quel muro.
E fuori dal muro Maria c’era un enorme distesa di dolci colline striate da ordinati filari di vite, da cui pendevano già gli acini d’uva. E il cielo era azzurro, le nuvole morbide che veniva voglia di toccarle.
Il suo nuovo viaggio durò tre giorni. Al terzo giorno, chiese ad un fattore se conoscesse la miniera di argento della signora L. Lui rispose, mentre soppesava una pera appena colta dall’albero, che pareva piegarsi sotto il peso dei suoi frutti, che mancavano poche miglia. Sempre dritto, sulla strada di terra battuta. E le rispose anche che era troppo giovane e bella per andare a lavorare in miniera. Lei sorrise, dicendo che non le interessava. La bellezza sarebbe servita a poco, in quel mondo bellissimo e crudele.

Giunsi alla miniera al limitare del terzo giorno. Non fui sorpresa quando incontrai un delizioso, piccolo, villaggio, con le casette dai tetti pendenti e un piccolo ritaglio di terreno davanti a ciascuna di esse.
Né lo fui quando vidi annoiate guardie cittadine, intente a giocare a dadi sotto un pergolato di gelsomini in fiore. Gli uomini mi guardarono, borbottarono qualcosa di osceno fra loro, e tornarono ai loro dadi, una bottiglia di vino poggiata sul rozzo tavolo.

Astrid parlò con un uomo, che la rimandò ad un altro uomo, e ad un altro ancora, fino a giungere ad una casetta dall’aria più opulenta delle altre. Fu scortata fino allo studio di quest’ultimo, un grasso, calvo, e unticcio ometto, dalle dita grassocce piene di gioielli e dalla pelliccia d’ermellino buttata sulle spalle. Abiti sfarzosi. Forse lui era stato un fidato amministrativo della signora L.
L’ometto la guardò. Astrid era piccola di corporatura, esile e neppure troppo alta.
E le offrì un lavoro come apripista. Già, avrebbe dovuto infilarsi nei cunicoli creati con la dinamite per controllare se vi fossero vene argentifere o meno, e, in tal caso, tornare indietro ad avvisare i genieri.
Astrid accettò. Qualcosa le diceva che tutto sarebbe andato bene.

E tutto andò bene.



-Lem, scusa se ti interrompo..
I lineamenti dell’uomo parvero ancora più affilati. –John, sai perfettamente che non devi interrompermi quando parlo.
Il soldato scoppiò a ridere. –Mi è venuto in mente che alla fine non hai più raccontato cosa hai scoperto sui classe 2-3 metri.
Lo sguardo di Lem si riaccese, e intrecciò, felice, le lunghe dita le une con le altre. –Hai ragione, caposquadra! Perché non me l’hai ricordato prima?
Cloe, durante il racconto, aveva trovato un uncinetto ed un gomitolo di lana. Con doti che John non le conosceva, aveva cominciato a lavorare, ed ora il filo intrecciato stava cominciando ad assumere l’aspetto di una sciarpa. Gregor, ancora corrucciato, aveva semplicemente continuato a fissare il suo thè.
-Avanti, parla.,-berciò.
-Benissimo! Allora, come sapete, abbiamo catturato tre titani in quella spedizione, e io non sono tornato al mio villaggio per la licenza. Sono rimasto al quartier generale con loro. Li ho fatti legare mani e piedi, e gli ho fatto bloccare le mascelle. Quelli della mia squadra mi guardavano come se fossi un pazzo.
-Non ne dubito.
-Ho compiuto degli esperimenti,-fece, diventando improvvisamente serio,-e scoperto alcuni fatti fondamentali. Ovviamente, anche di questo non dovrete far parola con nessuno. Solamente voi e la mia squadra sapete cosa ho scoperto.
John capiva il perché di tanto segreto. Da qualche anno serpeggiava, nella legione esplorativa, il fantasma della censura. Quell’armata racchiudeva i pochi esseri umani davvero interessati a cosa ci fosse là fuori, e a come uscire da quelle dannate mura. In poche parole, gli scienziati.
Il re Claudius, e tutti i suoi sottoposti, non avevano interesse a rendere il popolo edotto, riguardo ai titani. Loro erano la minaccia. Loro ti uccidono per il puro gusto di farlo. Loro sono enormi ed invincibili. Loro sono divinità. John si era ben presto reso conto che quel piccolo mondo era tenuto insieme, pacifico e stabile, solamente dal terrore. Che tante persone, dentro quelle mura, erano unite solo dalla paura dell’esterno.
C’era stato un comandante, prima dell’impicciato. Un uomo come Lem. Un uomo di scienza, che non amava combattere, ma desiderava capire, comprendere. Aveva scoperto che l’unica sostanza in grado di staccare frammenti dalle mura era il diamante.
Ma le mura erano e sono sacre. Non devono essere in alcun modo profanate. Una notte, mentre raccoglievano campioni in una zona sperduta del muro Maria, il comandante e la sua squadra morirono. Furono trovati già ricoperti di mosche, da John e Gregor, che all’epoca era solo una recluta. Si racconta che alcuni contadini dei paraggi avessero visto uomini della corpo di guarnigione, ben conosciuti nella zona, avventarsi contro i soldati della legione esplorativa. Si erano uditi spari, nella notte.
John, alla vista dei cadaveri straziati dalle pallottole di quegli uomini coraggiosi, aveva stretto i pugni tanto da sentire il sangue colare. Aveva giurato vendetta. Aveva giurato, a se stesso, che avrebbe per sempre protetto uomini come Lem, come il comandante M. B.
-Quelle creature sono deformi, certo. Ma sono più vicine a noi dei titani più grandi, che sembrano meglio proporzionati.
Cloe alzò lo sguardo, allarmata, dal suo lavoro. –Da che l’hai dedotto, Lem?
L’uomo serrò le labbra sottili, sotto i corti baffetti bruni. –I giganti non mangiano per nutrirsi. Vomitano i cadaveri degli umani. Sono solamente macchine per uccidere.
“Allora ho cominciato a ragionare. Poco prima di partire per la spedizione ero stato in una fabbrica delle nostre spade. Ne producono centinaia, a lotto. Ma a volte, ve ne sono di fallate. Un difetto nella produzione della lega, e il metallo si arrugginisce, si corrode, e la lama si spezza.
Non sappiamo da dove provengono i giganti, se siano stati creati da qualcuno, se un tempo fossero umani o se siano, soltanto, un flagello divino. Ma io ho una teoria. Credo, che, proprio come quelle lame, alcuni possano esser fallati.
I giganti sono autosufficienti. Vivono da chissà quanto fuori dalle mura, in un mondo privo di umani, eppure sono ancora vivi. Anche le piante si nutrono solo della luce del sole.
-Dove vuoi andare a parare Lem?,- mormorò il soldato.
-Voglio dire, che i giganti sono come le spade, sono armi. Sono armi create da qualcuno più grande e più forte di noi, più avanzato, in un passato neppure troppo remoto.
“Quei mostri deformi hanno bisogno di nutrirsi. Una sera, io e la mia squadra eravamo al quartier generale, e avevamo appena cenato. La solita merda di spezzatino del peggior taglio di carne della vacca più macilenta del paese, ma mangiabile. Ricordo di non aver finito la mia porzione. Decisi di andare a controllare i giganti, che probabilmente già erano assopiti, per la mancanza di luce.
Uno era ancora vigile. Quello con gli intestini visibili. Mi sedetti accanto a lui, e guardai il movimento nei suoi visceri. Per i primi momenti ne fui disgustato. Poi ricordai le lezioni di anatomia che avevo seguito all’università, prima di coscrivermi alla legione esplorativa. Si trattava di intestini umani: crasso, tenue, cieco, sovrastato dal fegato e dal pancreas. La bestia mi fissava con grandi occhi vuoti, totalmente assenti. Ricominciai a mangiare quella brodaglia, perché avevo fame.
Ma all’improvviso qualcosa parve risvegliarla. La bestia sbavava e sbraitava con urla da belva, gutturali, inumane, e le sue viscere si contorcevano. Ero ipnotizzato. Allora mi sorse un dubbio.
Provai ad allontanarmi, ma lasciai la scodella vicino al mostro. E lui continuò a sbavare, a cercare di liberarsi, con le pupille vuote e prive di intelligenza puntate sul piatto ormai freddo.
La belva aveva fame, e non di me.”
Gregor parve ridestarsi dal torpore, e sospirò. –Lem, quindi tu staresti dicendo che quei giganti hanno ancora impulsi umani?
L’uomo dal volto affilato annuì, e un tenue colore gli tinse il volto pallido. –Esatto. E credo che sia così perché la loro trasformazione è stata incompleta.
Ci fu un lungo silenzio. Il soldato aveva fin troppe idee per la testa. Lanciò un’occhiata a Lem, il cui volto pallido non tradiva alcuna emozione. Cosa aveva in serbo per loro? Cos’altro raccontava l’autobiografia della donna, dispersa nella neve?
-La domanda principale ora è,-riprese lentamente Lem, soppesando ogni parola,-Cos’è che trasforma gli umani in giganti?
John sbuffò. –Io vado a prendere una boccata d’aria.
Il soldato si lanciò addosso la pesante coperta di lana e il mantello dell’uniforme. –Vengo con te,-annunciò Cloe, facendo lo stesso.

Fuori, l’aria era immobile. La neve aveva smesso per un istante di cadere, ma arrivava fino alle ginocchia del soldato. Cloe vi era sprofondata quasi fino alla vita. Era bellissima, in quel candore.
Gli rivolse un gran sorriso, le guance già rosse per il freddo. Si mise in punta di piedi, e, con cura, gli avvolse la sciarpa attorno al collo.
-E’ per te, John.
Il soldato la strinse a sé, e delicati fiocchi di neve ricominciarono a cadere.

 
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