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Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: I PECCATORI DELL'ETERNA CONDANNA
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo
Rating: Per Tutte le età
Autore: selenika galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 19/08/2013 17:27:25

Nikolaj Yurevich Spektor è un cecchino professionista che farà i conti con un passato tormentato, che continua a rinnegare.
 
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CAPITOLO I
- Capitolo 1° -

I Peccatori dell'Eterna Condanna





Capitolo I




La disgustosa e ridicola smorfia dipinta nel viso dell’uomo era in parte illuminata dalla luce della luna, che dall’alto sorvegliava la città di Mosca come un guardiano della notte. La bocca spalancata dal terrore cercava di emettere suoni comprensibili, mentre gli occhi si muovevano nelle orbitre come quelli di un pazzo, tentando di distinguere le ombre.
«C-che cosa vuoi?» Chiese, con voce ridicolmente scossa dal panico.
Si udirono dei rami secchi venir spezzati sotto un passo felino, le foglie scuotersi dal vento che soffiava debolmente quella sera. Istintivamente l’uomo indietreggiò e si allentò il colletto della maglietta, che improvvisamente si era fatto più stretto, stringendogli il collo in una morsa soffocante.
L’ombra gli si avvicinò con lentezza, godendo di ogni attimo. Il piacere di veder stampato l’orrore e l’angoscia nei visi delle sue vittime gli dava un senso di potere e soddisfazione. L’altro gemette, appena scorse l’individuo davanti a sé. Due occhi vitrei lo studiavano come poteva fare il predatore qualche attimo prima di avventarsi sulla sua preda, che si sentiva perfofare da quello sguardo orribilmente intenso e ammaliante.
«Io ho già saldato il mio debito!» Gracchiò gettandosi le mani tra i pochi capelli rimastegli sulla testa. Guardò dietro di sé, forse col pensiero che avrebbe potuto scappare. Non ebbe nemmeno il fiato per urlare, quando percepì il freddo della canna sulla tempia. Con i denti che sbattevano tra loro, volse lo sguardo davanti a sé e finalmente riuscì a lanciare un urlo strozzato. Grazie al naturale istinto di sopravvivenza, comandò alle gambe di correre e s’affrettò ad allontanarsi dal proprio malfattore, a cui venne voglia di sorridere, nel vedere l’infantile ingenuità dell’uomo.
Il killer alzò il mirino della rivoltella esattamente sul cranio del fuggiasco e gli concesse qualche ultimo istante di vita. Il rumore lacerante dello sparo accompagnò il rinculo dell’arma e l’assassino riuscì a scorgere l’ormai morto padre di famiglia bloccare di scatto la corsa con una pallottola nel cervello.
Qualche istante e cadde in un tonfo, mentre il sangue scuro sgorgava dalla ferita a flotti nauseabondi. In meno di un secondo aveva tolto la vita ad una persona, ma il suo lavoro non finiva qua. Doveva eliminare ogni tipo di prove e questo includeva anche il cadavere.
Rinfoderò la pistola sotto il lungo cappotto e a grandi passi raggiunse il corpo esangue, che giaceva in modo scomposto sul suolo del campo di grano. L’omicida afferrò un coltello a serra manico dalla cintura e tagliò alcuni frumenti macchiati di sangue, poi recuperò il morto e caricandoselo in spalla lo portò su un cumulo di legname, vicino ad alcuni arbusti. Mentre ricontrollava la zona per accertarsi che fosse sicura, ne approffitò per recuperare la tanica di benzina lasciata nel bagagliaio dell’auto. Ritornato, versò il liquido giallognolo sul mucchio e ci gettò sopra un fiammifero.
Il corpo prese fuoco all’istante e il sicario si sedette poco più in là, appoggiando la schiena al tronco di un albero. Guardò con aria assorta il macabro falò davanti a lui e socchiuse le palpebre pesanti come macigni. Sebbene avesse il naso coperto da un maschera riuscì a sentire lo stomachevole odore delle carni umane che bruciavano lentamente. Gettando l’occhio sul terreno, s’accorse dei documenti sottratti qualche minuto prima dal cadavere dell’uomo. Li prese in mano e non perse tempo a leggere i dati che conosceva già. Benjamin Greene, giornalista a cui piaceva parlare di cose che avrebbe fatto meglio a tenere per sé, marito di Grace Greene, padre di due figli minorenni, nato il ventisei agosto a Dallas.
L’assassino indugiò lo sguardo sulla foto che conservava teneramente nel portafoglio, ritraente una donna mora e due piccoli bambini sorridenti. Passò il pollice sulla fotografia e tracciò una scia di sangue, oscurando i tre visi e profanando l’amore che lui non era capace di provare.
Con un gesto di stizza buttò i documenti nelle fiamme e li guardò bruciare insieme al cadavere con sadico gusto.






Quando scoccarono le cinque del mattino, tutto ciò che restava di Benjamin Greene era un mucchietto di frattaglie e il ricordo di un uomo scomparso.
L’assassino sparpagliò le ceneri come un contadino fa con i semi, sotterrò le poche ossa rimaste, e ritornò in auto. Più tardi avrebbe comunicato il buon esito dell’incarico agli altri, ma ora ciò che voleva fare era una dormita e una doccia. Voleva scrollarsi di dosso le trentotto ore passate ad occhi aperti.
Rincasato, ripose con meticolosa cura le armi e si spogliò. Mentre si stava togliendo la collana il cellulare si mise a vibrare sul comodino, producendo un fastidioso suono. L’uomo lesse il nome sullo schermo piatto e si chiese se aveva davvero voglia di parlare con quello.
Lasciò squillare il telefonino ed entrò nella spaziosa doccia. Alzò lo sguardo sul soffitto sopra di sé e si passò le mani tra i capelli corti, neri come la morte.
Le goccie d’acqua timide accarezzavano la pelle lattea, seguivano i lineamenti ben definiti degli addominali, delineavano i complessi disegni tribali dei tatuaggi che costellavano la schiena e la spalla dell’uomo. Lente scivolavano sul suo corpo, purificandolo solamente all’esterno.
Quand’ebbe finito, l’uomo uscendo dalla doccia afferrò un asciugamano e si tamponò il collo, evitando deliberatamente di incrociare il proprio sguardo sullo specchio. Teneva gli occhi bassi, come un codardo che fugge dalla realtà. Un vigliacco che non ha nemmeno il coraggio di affrontarla. Scosso da un moto d’ira verso se stesso, alzò gli occhi e appoggiò le mani ai lati del lavandino.
Un occhio color ghiaccio dalle sfumature grigie lo fissava, insieme ad uno molto più scuro che in contrasto con l’altro incuteva paura. Una inquietante cicatrice gli deturpava la guancia destra, passando per le labbra sottili. Dall’altro lato invece, un’ampia bruciatura nasceva dallangolo della bocca e moriva vicino l’orecchio sinistro. Numerosi tatuaggi devastavano sul busto dell’uomo, tra cui uno sul pettorale sinistro raffigurante il profilo di un teschio dalla bocca spalancata. Dietro il cranio si poteva scorgere la coda di un serpente che mostrava le fauci sotto la fila di denti.
A volte avrebbe preferito non riuscire a riconoscere il proprio volto. Avrebbe voluto guardarsi allo specchio e urlare: «Chi è questo?». Invece lui era stato un bastardo sciacallo fin dalla nascita e come tale sarebbe morto. A volte avrebbe preferito sentir il senso di colpa ingosciargli l’anima, quando toglieva la vita ad una persona. Ma lui l’anima non ce la aveva più.
Era un uomo senz’anima morto dentro.
Nel ridicolo tentativo di ignorare i propri pensieri imprecò a bassa voce e si asciugò alla svelta. Si infilò una canottiera bianca e dei pantaloni militari, insieme alla catenella attorno al collo. Nel momento esatto in cui prese il cellulare, quello si mise a tremare nel suo palmo. Questa volta rispose, dato che in quella mezz’ora l’avevano chiamato cinque volte.
«Si può sapere dove diavolo eri finito?» Sbottò una voce dai toni melodrammatici e al contempo striduli come un violino mal accordato.
«Ho eliminato il giornalista» Rispose con calma, come se non avesse notato il nervosismo dell’altro. Ci fu un breve silenzio che venne presto interrotto.
«Bene, molto bene. Torna alla base per le sei.»
Dopo aver terminato la telefonata, cacciò il cellulare in tasca e raggiunse la camera da letto al piano superiore. Aveva ancora qualche ora prima dell’incontro, quindi poteva concedersi un po’ di meritato riposo.
Chiuse gli occhi, e il suo fu un sonno senza incubi.






L’organizzazione criminale dei Senza Nome aveva bisogno di abili trafficanti di droga e di armi, ma anche di efficienti ed esperti killer per eliminare dalla circolazione chi provava a cantare. Ivan Bilinskii lo sapeva bene perché, essendo stato nominato vice-capo di una sede, aveva il compito di amministrare e organizzare la base russa. Di assassini professionisti ce n’erano pochi e di certo l’uomo che stava aspettando era uno di questi. Purtroppo, era anche uno stronzo.
Dopo mezz’ora sentì il portone aprirsi alle sue spalle e non dovette girarsi per sapere chi era arrivato. Con passo silenzioso e contemporamente altezzoso il killer camminò per il lungo corridoio, fino a che si ritrovò ad un metro dal biondo.
«La puntualità è un optional per te?» Domandò senza voltarsi, fissando con le sopracciglia aggrottate la scala che conduceva alle camere superiori. Quell’uomo era pericoloso, sia per il carattere ribelle impossibile da metter in riga sia per l’abilità nel uccidere.
Non sentendo risposra, Ivan si volse e incrociò le braccia al petto con finta sfrontatezza.
Nikolaj Yurevich Spektor, cecchino professionista dei Senza Nome, addestrato e divenuto uomo all’interno della organizzazione. Famoso per brualità e disumanità, per i piaceri perversi e lo sguardo assassino, era un uomo che nessuno riusciva a comprendere e che nessuno in realtà conosceva. Era un individuo dall’aria cupa e tenebrosa, sempre coperto in viso e dal cuore nero, corrotto dai peccati fino al midollo.
Ivan si passò il pollice sulle labbra prima di parlare.
«Spero che tu abbia compiuto un buon lavoro con Greene» Nikolaj ignorò il tono arrogante dell’uomo e non si mosse di un millimetro, quando quello gli si avvicinò con fare superbo.
«Se dubiti delle mie capacità stai commettendo un grave errore, Bilinski»
«Un grave errore? – sbraitò in una risata nervosa – Il grave errore lo stai commettendo tu nel usare quel tono con me»
Gli occhi dell’assassino, leggermente coperti dall’ombra del cappuccio, divennero due fessure ed Ivan sentì un fremito percorergli la colonna vertebrale. Subito indietreggiò di qualche passo e si ricordò con chi stava parlando. La paura di esercitare totalmente il suo potere sull’assassino gli rodeva l’orgoglio e per sfogare il nervosismo strinse le mani a pugno. Gesto che non sfuggi alla vista dell’altro uomo.
«Seguimi»
Il vice-capo, seguito dal cecchino, percorsero le scale in un silenzio di tomba e giunsero in una camera dai soffiti alti e dalle pareti rosso scuro. Di fronte a loro, in un imponente libreria in mogano pullulavano almeno un centinaio di libri e al centro della stanza vi era un tavolo in vetro. In un angolo sostava un uomo con i capelli biondi cenere, gli occhi scuri come la pece e un filo di barba attorno alle labbra carnose, piegate in una linea dura.
I due biondi si salutarono con una rapida stretta di mano mentre l’incappucciato restò immobile di fronte alla scrivania. Il primo a prender parola fu il vice-capo.
«Domani, verso le sei del mattino, arriveranno delle armi provenienti dall’America. Si tratta principalmente di granate, flash bang e alcune mitragliatrici. Il vostro compito è quello di verificare la qualità – con un cenno del capo indicò l’americano – e portare la merce alla base senza testimoni o problemi. Lo scambio avverrà-»
«Io rifiuto» Lo interruppe bruscamente Nikolaj, con voce ferma e leggermente roca. Ivan lo fissò e per un istante pensò che mettergli le mani al collo lo avrebbe zittito per sempre.
«Puoi ripetere?» Chiese, trattenendo a fatica la rabbia. Quando passarono alcuni secondi, capì che non avrebbe risposto e allontanandosi dal tavolo gli si mise davanti.
«Tu non puoi rifiutare. Che ti piaccia o meno, devi eseguire i miei ordini.» L’assassino parve sogghignare.
«Non lavoro con Aesera»Vincent Aesera alzò un angolo della bocca e alzò il viso a mo’ di sfida, scrutando gli occhi bicolori del socio. L’americano raggiunse i due al centro della stanza e scostò con una mano Ivan, come si può fare con una lattina buttata sul marciapiede.
«Hai paura di me?» Lo punzecchiò, con un sorriso canzonatorio in viso. I loro petti per poco non si sfioravano.
«Potrei farti la stessa domanda»
«Non ho paura delle femminuccie»
Nikolaj scattò verso l’uomo, ma la mano di Ivan lo bloccò con prontezza e nel tentativo di sedare l’ostilità fra i due uomini si mise fra loro. Vincent, chiamato anche il Mercante di Morte per le innumerevoli merci di armi che rivendeva, ritornò quatto quatto nell’angolo di prima. Il vice-capo ritrasse il braccio e guardò male l’assassino.
«Sta’ buono» Lo ammonì, mentre era impegnato a cercare delle carte nei cassetti del tavolo. Il russo ficcò le mani in tasca, cercando di controllarsi.
«Figlio di puttana» Borbottò tra sé e sé Vincent, pescando da un pacchetto una sigaretta. A quel punto per Ivan non ci fu nulla da fare: Nikolaj in due falcate piombò sul trafficante e gli afferrò il colletto della maglia con una mano. Vincent non ebbe nemmeno il tempo per scansarsi che un pugno diretto lo colpì al naso, provocando un sonoro schiocco. D’istinto si portò le mani al viso e scalciò via l’uomo, che riuscì ad evitare il calcio arretrando di un poco.
«Che cazzo!» Sbraitò lui, mentre si ripuliva le dita sporche di sangue sulla maglietta e tamponava il naso. Il superiore, che con un imprecazione aveva spinto via il connazionale, porse un fazzoletto al colpito. Subito dopo si voltò verso il cecchino e puntandogli contro l’indice scandì ogni parola, neanche stesse parlando con un ritardato mentale.
«Spektor, stammi bene a sentire: tu non mi sei mai piaciuto e dalla prima volta che ti ho visto ho capito che sei un fottutissimo stronzo della malora. Non so se hai capito, ma qui si fa come dico io e non si obbietta. Quindi datti una calmata, diavolo, o andrai incontro a guai molto seri.»
Nikolaj scostò con prepotenza la mano di Ivan dal suo petto, ringhiandogli contro con tanta violenza che faceva quasi spavento. «Non hai il diritto di parlarmi così» Il vice-capo contrasse la mascella fino a digrignare i denti come un cane in procinto ad attaccare. Riusciva a sentire il suo orgoglio urlare dalla collera.
«Sono un tuo superiore!»
«Me ne frego di cosa sei!»
Lentamente, socchiuse gli occhi e si morse l’interno guancia per trattenersi dal prenderlo a schiaffi sul posto. Chi aveva davanti era un uomo insopportabile, ribelle e senza controlli, indecifrabile e quindi imprevedibile. Il pericolo in carne ed ossa.
«Come osi» Sibilò, avanzando verso l’assassino. Quello rimase immobile, non indietreggiò di un solo passo, anche quando Ivan gli fu così tanto vicino che riusciva a sentirgli l’odore di colonia.
Senza dire altro, uscì dalla stanza e sbattè la porta con forza, non sapendo dove sfogare la propria rabbia. Il capo si voltò verso Viz, che nel frattempo aveva bloccato il flusso del sangue e si stava ripulendo le labbra macchiate. Accennò un sorriso storto e si mise seduto davanti al tavolo.
«Che caratterino» Cominciò il Mercante di Morte, buttando il fazzoletto intriso di rosso scuro nel cestino.
«E’ sempre così. Non riesco più a controllarlo. Né con le buone né con le cattive.» Una sonora risata rimbombò nella stanza, riempiendola.
«Che c’è di tanto divertente?»
«Se Spektor è un problema, puoi sempre cacciarlo» Ivan si prese la testa fra le mani e sbuffò rumorosamente, come se non avesse voglia di discutere su quell’argomento.
«Ci serve. E’ bravo come pochi»
«So già chi potrebbe sostituirlo»
«Spara» Sospirò, alzando gli occhi chiari su Vincent, fintamente incuriosito alle parole dell’uomo. Ormai si era rassegnato all’idea di dover sopportare gli squilibri di Nikolaj.
«Omar Chrutlow. Si è fatto le ossa nei quartieri malfamati di New York, è diventato un killer professionista a soli ventidue anni e ora gestisce un pub in centro.» Ivan si accarezzò il pizzetto biondo, improvvisamente interessato. Liberarsi di Spektor non sarebbe stata una passeggiata, conoscendo il carattere combattivo dell’uomo. C’era anche il rischio che le cose non andassero come previsto e che a rimetterci fosse lui stesso. Ma l’idea di Viz era allettante e come davanti ad una bella auto, Ivan Bilinskii si stava facendo ammaliare.
«E’ bravo?»
Vincent incurvò le labbra in un ghigno e frugò nella tasca dei pantaloni l’accendino. Entrambi, in quel momento, sapevano che ormai Spektor aveva le ore contate.
E per lui, ad attenderlo, c’erano solo le fiamme dell’inferno.
«Ti ho mai deluso?»
 
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