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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Manga e Anime
Dalla Serie: Slam Dunk
Titolo Fanfic: RICORDI
Genere: Sentimentale, Drammatico, Introspettivo
Rating: Per Tutte le età
Avviso: One Shot
Autore: kimo-chan galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 07/08/2003 17:28:11

ogni tanto la mia piccola mente malata si domanda come era il passato dei nostri eroi. io mi sono inventata quello del protagonista. sorry papi inoue
 
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-CAPITOLO UNICO-
- Capitolo 1° -

carissimi! sono tornata! ehi-ehi! vi ho sentiti voi tre laggiù in fondo! come sarebbe a dire "NOOOOOOOOOO!", eh?
cmq, questa mia grandiosa opera l'ho scritta all'estero, a Palma di Maiorca, tra una sbirciatina e l'altra di quei gran tori che ci sono laggiù (non gli animali).
visto che la tv era spagnola e la mia conoscenza in materia si limitava ad "hola" ho dovuto riempire le giornate in modo diveso.
per concludere, sta roba qui era tanto per fare qualcosa, non aspettatevi nulla di grandioso. anche se basta la mia firmetta perchè leggiate qualcosa di grandioso! oh, oh oh! (e la cazzata madornale è stata detta pure oggi. olè)
se siete già spariti dopo sto sproloquio vi capisco poveri cari. chi, con indomita forza di volontà, ha resistito or ora lo lascio in pace. bye!

-CAPITOLO UNICO-

Era da tanto che non lo facevo.
Non dormire la notte per pensare a quello che ero, a quello che mi è successo, al mio passato.
Di quando ero piccolo ho solo pochi e vaghi ricordi, ma una cosa la ricordo bene: il rifiuto.
Nessuno mi voleva. Nessuno voleva un bambino con i capelli rossi.

<< bambini coi capelli rossi sono figli del diavolo>>.

L’ho sentito dire molte volte, dagli zii, dai nonni, da chiunque mi vedesse. Ricordo solo due persone che non mi guardavano storto per questo “difetto”, chiamiamolo così.
Ma in fondo per loro due doveva essere naturale, è raro che dei genitori rinneghino il proprio figlio. Alla fine, però, mi hanno abbandonato pure loro.
Solo. Sono rimasto solo due volte.
La prima a sette anni. Credo che l’anno del mio settimo compleanno, io abbia passato più tempo in ospedale che in qualsiasi altro luogo. Però, dovevo restare, non potevo lasciarla. Non potevo lasciare mia madre come aveva fatto papà.
La mamma diceva sempre che lui non l’aveva abbandonata, solo che loro non potevano rimanere insieme. Io ero un bambino, non ci pensavo a queste cose, sentivo semplicemente il dovere di rimanerle accanto, giorno e notte, sino a che non si fosse spenta.
Dopo la morte della mamma ho transitato da una casa all’altra dei miei parenti, accompagnato da un’assistente sociale.
È strano, di quella donna, di cui non conoscevo nemmeno il nome, ricordo solo una cosa: gli occhi.
Occhi neri, comuni però profondi e caldi.
Quando mi guardava con quegli occhi sorridenti mi sentivo calmo, rilassato. Ogni insicurezza o paura scemava via.
Purtroppo era solo una persona che mi regalava tranquillità.
Dopo numerosi viaggi di casa in casa, finalmente il mio tour finì in un orfanotrofio.
Molti associano a questo nome un luogo orribile, dove i bambini vengono rinchiusi e maltrattati come prigionieri. Pensano che l’infanzia di un bambino che è stato in orfanotrofio sia la peggiore di tutte.
Io non la penso così.
Ho vissuto due anni della mia vita lì dentro e posso assicurare che non è così terribile come dicono. È vero, non è un luogo felice e gioioso come altri vogliono far credere, ma è vivibile e sicuramente si sta meglio che in tante comuni case. In orfanotrofio hai un tetto sopra la testa, un letto, tre pasti caldi al giorno e compagnia. Per me era più che sufficiente.
Stavo abituandomi al fatto che nessuno desse più importanza al colore dei miei capelli.
Per insegnanti e tutori ero uno dei tanti mocciosi, per gli altri bambini idem.
Poco dopo che compii nove anni un uomo venne a prendermi. Non l’avevo mai visto prima di allora, però mi pareva che avesse un’aria familiare.
Scoprii in seguito che era mio padre.
Raccolsi quelle due cose che mi erano rimaste, ricordi della mamma più che altro poi lui, “papà”, mi portò in un appartamento che presto diventò la mia sospirata casa.
Non gli chiesi mai perché non si era fatto vivo in quei due anni, né tanto mento nei sette prima, non m’interessava… o forse avevo solo paura di sapere.
Credo che se mi avesse detto che non gliene poteva importare nulla di me, mi sarebbe cascato il mondo addosso.
Anche se fosse tornato a prendermi solo perché si sentiva in dovere di farlo, dato che anche lui aveva contribuito a mettermi al mondo, non m’importava. Preferivo vivere illudendomi che lui mi voleva bene.
Ma mi sbagliavo. Lui mi voleva davvero bene.
Cercava in tutti i modi di instaurare un rapporto con me, di farmi divertire, di farmi vivere un’infanzia normale, come quella di qualsiasi bambino di nove anni.
Per me era come un sogno ma, si sa, i sogni durano poco. Perciò non volevo rimanere bruciato e rifiutai ciò che lui mi offriva. Me ne stavo per i fatti miei con un atteggiamento sempre molto scostante. Non mi toccava nulla, quasi non provavo emozioni. Avevo indossato una corazza che mi proteggeva da qualsiasi sentimento.
Man mano che crescevo questa corazza s’induriva sempre di più. Avevo già sofferto una volta e non volevo che succedesse ancora.

Ero diventato un teppista, niente mi spaventava, potevo affrontare tutto, VOLEVO affrontare tutto. Ogni volta che tornavo a casa con lividi e tagli, vedevo il viso di mio padre preoccupato all’inverosimile. E non capivo. Non capivo perché si preoccupasse tanto.
Il primo anno delle medie mi sentivo una persona importante.
Sembrava persino divertente. Un ragazzino di dodici anni temuto da tutti.
Per le vie di Kanagawa tutti i teppisti mi conoscevano come quello a cui non avvicinarsi mai.
Forse era un po’ esagerato, ma era meglio così. Nessuno doveva starmi vicino.
A scuola, come per strada, intorno a me c’era il vuoto. Chiunque mi incontrasse cambiava direzione, persino i professori.

Stava arrivando l’inverno, e si sentiva. Tirava un vento gelido, ma non m’importava. Ero salito sulla terrazza della scuola ugualmente.
Mi piaceva guardare il cielo plumbeo che non lasciava capire se quel giorno avrebbe fatto scendere dei soffici fiocchi di neve o mi avrebbe fatto soffrire ancora un po’ con l’attesa.
Quel giorno, mentre fissavo il cielo in cerca di una risposta, mi si presentò davanti un ragazzo. Doveva avere circa la mia età.
In un primo momento pensai che fosse uno dei tanti che volevano fare a botte con me solo per dimostrare di essere il migliore. Ma quando lo guardai con più attenzione notai gli occhi neri, come pozzi di petrolio. Mi ricordarono gli occhi dell’assistente sociale e come quelli della donna mi diedero tranquillità. La cosa mi sorprese non poco, era da tanto che non la provavo.
Si presentò. Mi disse un semplice <<ciao, io sono Yohei Mito. Tu sei Sakuragi, vero?>> probabilmente se fosse stata un’altra persona a questo punto avrebbe già tutti i denti rotti, ma quegli occhi mi paralizzarono e mi limitai ad annuire.
Lui lasciò correre sul suo viso un largo sorriso. Lo cosa mi fece piacere, ma allo stesso tempo mi mise in agitazione <<che vuole?>> era la domanda che mi ronzava in testa, ma lui non mi diede il tempo di porgliela che già mi aveva risposto <<sono qui perché voglio conoscerti>>.
Quella frase mi spiazzò.
<<Lui mi voleva conoscere? E soprattutto: perché?>> nessuno aveva mai voluto conoscermi, ed io di certo non lo chiedevo.
Mi alzai, con le mani in tasca e lo superai senza degnarlo di uno sguardo raggiungendo la porta che portava alle scale. <<perché te ne vai?>>mi chiese girandosi, io mi fermai.
Continuando a dargli le spalle dissi <<non m’interessa conoscerti>> appoggiai la mano sulla maniglia <<non ho detto che tu mi debba conoscere. A me interessa conoscere te!>> mi disse tranquillo <<non c’è niente da conoscere>> risposi secco aprendo la porta e andandomene.
Lo rividi parecchie volte, per i corridoi e per strada. Pensai quasi che mi seguisse! Non si avvicinò più a me, e con il passare dei giorni scomparve.
Passarono mesi e di lui nemmeno una traccia. Era finita la scuola e per un mese avrei gironzolato come un vagabondo per le strade, annoiato. Camminavo guardando il cielo di un turchese intenso. Potevo anche non fissare la strada, tanto sapevo che nessuno avrebbe osato scontrarsi con me.
Passavo le giornate a guardare il cielo. Mi affascinava quel tetto senza altezza né larghezza, dai colori più disparati, a volte sporcato con batuffoli bianchi.
Un giorno, nel pieno dell’estate, ritrovai quel ragazzo, Yohei Mito aveva detto di chiamarsi, che mi aspettava appoggiato al cancello di casa mia.
Non capii il motivo, ma ero felice di quella visita, però, il mio viso troppo abituato ad un’espressione truce non lasciò trapelare questo sentimento.
Quando si accorse della mia presenza lasciò quella postazione per venirmi incontro con il suo solito sorriso <<ehi, sei arrivato finalmente!>> mi disse come se fossimo stati amici di vecchia data, io lo guardai storto <<che diavolo ci fai qui?>> gli chiesi gelidamente, ma il sorriso che troneggiava su quella faccia non scomparve, anzi, si allargò ulteriormente.
<<volevo farti una visitina>> mi rispose come se fosse stata la cosa più naturale di questo mondo <<ripeto la domanda: che diavolo ci fai qui?>> gli chiesi ancora spazientito <<perché non vuoi che nessuno ti stia vicino?>> disse rivoltando la domanda. Sinceramente non compresi subito e ci dovetti pensare un po’, ma lui non aveva alcuna fretta <<non mi serve nessuno>> risposi infine <<chi non ha bisogno di nessuno è un debole>> disse facendo spallucce.
Quella frase fece salire la collera che fino ad allora non si era fatta sentire, strinsi i pugni <<tutti gli esseri umani si appoggiano a qualcuno, è nella nostra natura. Nessuno è tanto forte da sopravvivere solo come un cane, nemmeno tu: Hanamichi Sakuragi!>> aggiunse additandomi. Sul mio volto comparve un ghigno <<pensi che io non sia tanto forte da sopravvivere da solo, eh?>> gli chiesi sogghignando <<esattamente, anche tu ti devi reggere a qualcosa>> mi rispose sicuro. Ora non sorrideva più, voleva ascoltarmi, sentire ciò che avrei detto. <<vuoi sapere a ciò che mi aggrappo io?>> dal tono poteva sembrare una domanda, ma era un’affermazione bella e buona. Era per quello che era venuto.
<<mi sorreggono i ricordi, contento?>> dissi col tono di chi aveva fatto una rivelazione stupida. Ora era confuso, glielo si leggeva in faccia.
Io scossi la testa come per dire che non c’era nulla da fare, poi, riportai lo sguardo su di lui che mi fissava ancora senza capire in significato delle mie parole.
<<dovresti conoscere il mio passato per capire>> sbottai senza accorgermene <<fammelo conoscere, allora>> mi disse candidamente.
No, quello non lo potevo proprio. Era una ferita che avevo chiuso con fatica e non l’avrei riaperta solo perché lui voleva “conoscermi”! Ci si brucia una volta, la seconda è da idioti.
<<mi spiace amico, ma questo non lo posso proprio fare>> <<perché no?>> mi chiese ancora, non voleva mollare. Un ragazzino fastidioso ma a cui portare rispetto.
Strano ma vero, quel ragazzo dagli occhi neri era riuscito a guadagnarsi il mio rispetto, cosa più unica che rara dato che non l’avevo per niente e nessuno.
<<perché non sono affari tuoi!>>risposi riacquistando la mia arroganza. Ma lui non voleva mollare, i suoi occhi lo dicevano chiaro e tondo che mi avrebbe tenuto lì sino a che non gli avessi raccontato tutto, e non ci avrebbe provato una seconda volta. In quel momento ero alquanto fragile, lui lo sapeva e voleva sfruttare l’occasione. Se avesse rimandato, probabilmente non sarebbe più riuscito a piegarmi. <<ti va di fare un giro?>> mi chiese sfoderando un sorriso. Tutto ciò mi confuse, non capivo se era un modo per estorcermi ciò che voleva o, più semplicemente, un pretesto per stare in mia compagnia. Non ci pensai, alzai semplicemente le spalle come per dire –fa quello che ti pare-.
Andavamo dove voleva lui. Continuava a parlare senza sosta e a sorridermi come un mentecatto. Dopo circa un’ora cominciai ad non ascoltarlo più, sentivo solo scorci di discorso. Ma quanto fiato aveva in corpo?
Entrammo in una viuzza che mi pareva familiare, alcuni edifici li ricordavo, altri non tanto. Mi fermai di colpo davanti ad un palazzo grigio, molto vecchio ed in pietra.
Sopra il portone d’ingresso s’intravedeva una scritta mezza scrostata ma ancora leggibile. Tale scritta diceva “orfanotrofio”, era quello dove ero stato io. Spostai lo sguardo verso sinistra, riconobbi la finestra della mia vecchia camera. Come dimenticarla.
Il rumore del vecchio cancello arrugginito distolse la mia attenzione dalla finestra per portarla qualche metro più in là.
Da esso stava uscendo un’anziana signora vestita modestamente, ma con gusto, il viso ricoperto di rughe non era truccato e i capelli lisci e argentei erano raccolti in uno chignon. La riconobbi, era una mia tutrice. In fondo non era cambiata molto: stesso portamento elegante, niente di superfluo sopra la sua persona e tutto messo al posto giusto con rigore.
Si stava dirigendo verso il portone principale dove ero io. La seguii con lo sguardo mentre si avvicinava. Quando fu a un paio di metri da me la vidi corrugare leggermente la fronte e portare gli occhialetti con la montatura d’orata sopra il naso.
Sul mio viso era comparso magicamente un sorriso nostalgico. Non ricordo il motivo, ma la rimasi a fissare mentre mi studiava attentamente. Si avvicinò ancora qualche passo e notai che il suo viso da terribilmente confuso divenne terribilmente sorpreso quando riconobbe in me quel bambino evitato da tutti che era stato ospite e suo allievo per due anni.
<<salve signorina, come sta?>> chiesi come se fosse stata la mia vicina di casa.
<<Sa-Sakuragi, sei tu ragazzo mio?>> chiese ancora incredula, io annuii e lei mi buttò le braccia al collo. Le ero sempre stato particolarmente a cuore, il motivo non lo conoscevo. Per me aveva sempre qualcosa di speciale.
<<oh, quanti anni! Come sei cresciuto!>> esplose squadrandomi da cima a fondo. Io sorrisi lieto di quella attenzione. Mi ricordai poco dopo che c’era anche Mito, che osservava la scena.
<<Hanamichi, ora mi dovrai raccontare un mucchio di cose! Vieni, prendiamoci un tè!>> disse felice ghermendomi un braccio <<ma, veramente…>> mi fermai riferendomi al ragazzo dietro di me. <<ah, lui dev’essere un tuo amico! È invitato anche lui naturalmente!>> si affrettò a dire afferrando con il braccio libero quello di Mito.
Ci trascinò letteralmente dentro, offrendoci tè e dolci e facendoci fare il giro completo dell’edificio. Ogni tanto provavo nostalgia, in fondo quella era stata casa mia in qualche modo. Dopo un paio d’ore di conversazione sui vecchi tempi, ci lasciò liberi con la promessa di tornare qualche volta. Mi aveva fatto piacere quella visita e lo si poteva capire guardandomi. Anche Mito aveva avuto ciò che voleva, almeno in parte e sul suo viso aleggiava un sorrisetto compiaciuto.
<<allora sei stato in orfanotrofio>> disse spezzando la momentanea tranquillità <<…>> io non risposi, non volevo dargli soddisfazione. <<non mi sembra che tu ci sia stato tanto male da diventare il teppista che sei ora>> concluse cercando una risposta. In quel momento pensai che ormai aveva scoperto gran parte del mio passato e non vedevo il motivo per cui non dirglielo. Mi aveva dato l’idea di una persona leale e non mi sembrava uno che andasse in giro a fare la spia, o almeno lo speravo.
Era come se volessi liberarmi di un peso che avevo sulla coscienza. Pensavo che, se lo avessi detto a qualcuno, mi sarei sentito più leggero.
Lui voleva conoscere? Allora avrebbe conosciuto! <<vedi…>> cominciai incerto tenendo la testa bassa.
Gli raccontai ogni cosa, per filo e per segno. Ogni tanto lo guardavo di sottecchi per vedere come reagiva, sarebbe stato meglio se non avesse saputo nulla ma ormai la frittata era stata fatta. Nei giorni seguenti lo rividi sempre più spesso, ci trovavamo davanti a casa mia e poi andavamo a zonzo tutto il giorno. Conoscemmo Okusu, Noma e Takamiya e insieme a loro formammo l’Armata Sakuragi. Che idioti, ma mi piaceva.
Man mano che stavo con loro, la mia corazza andava via via sgretolandosi fino a cedere completamente. Emerse una parte di me che non conoscevo neppure io.
Da Sakuragi il duro, divenni Sakuragi il burlone. Ero completamente trasformato.
Continuavo a fare a botte con il supporto dei miei degni compari, ma ora non era più per scaricare la rabbia. Mio padre si sorprese molto di questo repentino cambiamento, ma ne fu felice.
Nonostante continuassi a partecipare a risse, lo vedevo più rilassato.
Ricominciata la scuola iniziò anche il mio interessamento verso il gentil sesso. Ad ogni ragazza, però, conseguiva una scaricatura e un piccolo periodo di depressione in cui ripetevo la classica frase <<perché non ha voluto diventare la mia ragazza?!>>.
Ero in un momento felice della mia vita, come in un sogno, ma, ribadisco, i sogni non durano molto. Stavo ritornando a casa, era domenica. Avevo passato tutto il pomeriggio alla sala giochi con i ragazzi, ma appena aprii la porta mi ritrovai davanti una scena agghiacciante. Mio padre era steso a terra immobile. Lo chiamai, lo scossi, ma niente non si svegliava.
Uscii di casa di corsa, poco distante c’era un pronto soccorso, ci avrei messo pochi minuti ma mi sbarrarono la strada. Erano stati degli idioti che io e l’Armata avevamo sistemato la mattina stessa. Non me ne fregava niente di quelli, dovevo raggiungere il pronto soccorso il prima possibile. Cercai di superarli, ma mi bloccarono e cominciarono a picchiarmi.
Io li pregavo di lasciarmi andare, che mio padre stava male ma ci guadagnai solo di farli ridere di gusto. Io provavo a divincolarmi, ma loro non mi mollarono sino a che non caddi a terra privo di sensi.
Non so quanto tempo passò, quando rinvenni mi trascinai verso il pronto soccorso. Quei bastardi mi dovevano aver fatto qualcosa alla gamba, non riuscivo a muoverla. Arrivai e urlai <<mio padre sta male! Andate da lui!>> un infermiere mi raggiunse guardandomi preoccupato, effettivamente ero ridotto male, ma lo cacciai. Gli dissi che doveva andare da papà. Si precipitarono con un’ambulanza, ma non ci fu nulla da fare. Anche lui mi aveva abbandonato. Ero rimasto da solo per la seconda volta.

Appena si concluse il funerale, fui avvicinato da un uomo, era un assistente sociale. Un altro. Mi disse che da quel giorno in poi avrei vissuto con i miei zii.
Furono loro che mi riportarono a casa. Pensai che avrei dovuto fare la valigia per trasferirmi, e feci per salire le scale, ma loro mi fermarono dicendomi che non ce n’era bisogno.
Non volevano un marmocchio teppista in giro per casa. Dissero all’assistente sociale che mi avrebbero tenuto loro solo per non avere mucchi di scartoffie da compilare.
Mi avrebbero pagato la scuola, per tutto il resto mi sarei dovuto arrangiare.
Mi dissero tutto ciò sulla porta di casa, dopo di che se ne uscirono sbattendo la porta e lasciandomi lì.
Rimasi rintanato in casa per giorni, senza mangiare. Ma dopo una settimana anche il mio stomaco reclamò.
Vennero a trovarmi Mito e gli altri.
Quasi non mi riconobbero. Erano venuti per tirarmi un po’ su il morale. Mi portarono in giro, sale giochi, ristoranti, tutto ciò che sapevano che avrebbe potuto farmi piacere me lo diedero.
Inizialmente rifiutavo ogni cosa, volevo rimanere da solo, ma poco a poco riacquistai la mia allegria e la mia voglia di vivere. Ritornai a fare l’idiota, lo sbruffone.
Ogni due giorni andavo al cimitero, dai miei genitori.
Li avevano seppelliti vicino. Il riflesso del sole sulle lastre di marmo bianco mi accecava, ma io rimanevo a fissarle cercando una risposta alla domanda che tanto mi tormentava la notte senza farmi dormire <<perché mi avete abbandonato?>>.
Ancora oggi questa domanda mi tormenta, ma la risposta non l’ho ancora udita.
Sopravvivo di lavoretti part-time e dell’assicurazione sulla vita di papà. Non ho detto nulla agli zii dei soldi di quest’ultima, altrimenti se li sarebbero intascati loro lasciandomi a morire.
Spesso mi chiedo se ci siano altri motivi, a parte i capelli, per cui i miei parenti mi odiano tanto. Un’altra domanda senza risposta.
Nella mia mente le domande aumentano di giorno in giorno.
Ora sono cambiato ancora, non sono più un teppista. Ora gioco a basket per l’amore di una ragazza che non avrò mai.
In fondo però, non lo voglio il suo amore. Voglio solo qualcosa a cui aggrapparmi.
I ricordi sono diventati troppo dolorosi.

<<bi-bip bi-bip bi-bip…>> ah, la sveglia. Lo odio questo rumore.
Sono già le sette, comincia un nuovo giorno. Forza! Indossa la tua maschera di ragazzo felice e spensierato e preparati ad affrontare tutti con la tua solita idiozia.
La vita va avanti e tu la devi seguire…genio.

ok, lo so! dopo che l'ho riletto mi ha fatto schifo pure a me. ma non sono stata curva sul computer due ore a provare a tradurre quella roba incifrabile che avevo annotato per poi non pubblicarla!
fate opera di carità e mandate a questo povero diavolo qualche commentuccio (accetto pure insulti e scatarrate allegate).
bye bye Kimo-chan ^.^!
 
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