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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: La scatola.
Genere: Drammatico
Rating: Per Tutte le età
Avviso: One Shot
Autore: sarahfusi galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 13/04/2012 15:41:01

In onore del giorno della memoria.
 
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LA SCATOLA.
- Capitolo 1° -




14 giugno 1940


L’odore del the al limone era nauseabondo. Quella brodaglia maleodorante sembrava pulsare, dentro le pareti lustre del bricco di ceramica.
Era talmente caldo che fumava. Lo immaginò, dolce, delicato, terribile, scottarle la punta della lingua.
L’uomo seduto davanti a lui non aveva di questi problemi. Maneggiava la tazzina come se stesse trattando un prezioso manufatto, i baffi vibranti per il piacere, le labbra appena pronunciate nell’assaporare ciò che lei trovava ora disgustoso.
C’era una finestra, poco grande, che dava su un alto muro di mattoni, la sommità coperta simmetricamente da quattro stente file di rose canine. Sotto di loro c’era del filo spinato, l’aveva scoperto quando, un giorno, aveva fissato insistentemente la cima sminuzzata e vi aveva visto spine di metallo, che non appartenevano ai fiori. Dietro il muro si vedevano le foglie più alte di alberi verdi, forse albicocchi a spalliera mischiati a piante perenni,e qualche fronda sottile.
Il sole colava tra le inferriate, illuminando la stanza. Filtrava tra i rami grondanti di frutti acerbi e di alloro e le bruciava il viso, tanto che doveva coprirsi gli occhi con la mano sana.
L’altra, tumefatta, giaceva immobile sulle ginocchia livide. Non la muoveva.
Non tanto per le dita rotte, fasciate da pezzi di stoffa logori. No, quelle le aveva ormai perdute, avrebbe potuto immergerle nel the bollente e sentire soltanto un pizzicore.
No, erano i ginocchi, il problema. Gliele avevano tolte da poco, le sue gambe: il dolore era ancora cocente.
Sarebbe passata, certo, dopo un po’ di tempo passava tutto. Erano passate le lacrime, l’umiliazione, le ferite.
Bisogna solo aspettare.
Ma la nausea per quell’odore di pulito e di the… proprio era una delle rare cose che ancora non le avevano portato via.
La stanza era silenziosa, delicata, una bolla di sapone. Era piccola, larga circa sei passi. L’arredo era scarso, forse troppo.
Ampie tende di tessuto broccato, giallo canarino ed orlate di nero, ripiegate su loro stesse, uno scrittoio di vetro, due poltroncine in chintz color crema e due abatjour di argento placcato spente sopra comodini in legno di ciliegio.
C’era anche una grande libreria di abete, i sei piani occupati da volumi di psicologia e medicina, intonsi, ma con la rilegatura rovinata per essere passati tra le mani di troppi padroni.
I fiori invadevano quel piccolo spazio, così come il loro lezzo e il loro squallore: viole, achillee, calendule svettavano come uccellini appollaiati su un davanzale, dentro recipienti trasparenti riempiti fino a un quarto di un acqua limpidissima.
Quel piccolo ometto seduto davanti a lei, l’atteggiamento di un aquila tra le montagne, sembrava crogiolarsi nella delicatezza e nel buon gusto della sua altrettanto piccola stanza. Quegli oggettucci scintillanti, quel profumo, ed il solo respirare lì dentro sembravano formare la tela della sua felicità.
Indossava pantaloni di velluto rosso granata, una camicia beige ed un pastrano con il bavero piccolo, del medesimo colore dei pantaloni. Sulla pistagna stava una spilla rossa bianca e nera, un simbolo a zig zag che svettava netto, appena coperto dalla stoffa.
Il viso era flaccido, ogni tanto deterso con un fazzoletto profumato, il naso aquilino e le sopracciglia cespugliose, inclinate verso l’alto come tirate da pinze. La pancia, contenuta da un cinturotto,sembrava sempre più piena: era probabile che stesse ancora digerendo i tartufi del mezzogiorno.
Gli occhi erano piccoli, dalle palpebre pesanti, che gli davano un’aria un po’ ingenua e un po’ tenera.
Portava i colori del perenne inverno, come tutti, lì.
La pelle nivea, i capelli biondo platino, leggermente brizzolati sulle tempie, le iridi come acque di montagna: gelide e argentee.
Rasentava la perfezione, l’ordine, l’eleganza: s’incastonava perfettamente nell’ambiente.
Non sembrava accorgersi minimamente del fatto che fosse lei, una donnina sporca ed arruffata, stuprata nella mente e nell’animo, a contrastare la superficie perfetta della sua bolla di sapone, una bolla alla quale stava strenuamente vincolato. Questo suo disinteresse per le vesti lacerate, le gambe graffiate e coperte di lividi, il viso scarno e scavato, i capelli incrostati del sangue raggrumato e del vomito, sapevano candidamente metterla a disagio.
Lei non era mai stata né bella né brutta, né alta né bassa, né formosa né longilinea.
Orbene quella donna né bizzarra né monotona si presentava sempre più magra, durante le sedute, sempre più esangue:la pelle bronzea aveva assunto un colore grigio ed si presentava con una lordura spregevole,gli occhi, un tempo neri e liquidi, avevano perso di profondità, i capelli, un tempo acconciati con cura, mediocre certo, ma delicata come solo l’attenzione di una donna per il proprio aspetto può essere, ora erano un groviglio di paglia, tanto che si aspettava le sarebbero caduti nella notte a breve.
Si guardarono negli occhi, passero e verme costretti a convivere insieme senza combattere: un breve interminabile silenzio, prima della tortura.
“Desiderate una brioche, o una tazza di the?” pigolò lui gentilmente, avvicinando il piattino con le leccornie.
Lei scosse la testa, lenta. Lui sospirò, amareggiato.
Atteggiamenti d'apertura e disponibilità, attenzione agli altri e ai loro bisogni.
Ma, nella sostanza, oltre la patina superficiale, un piccolo borghese immobile nella conservazione del benessere personale. Anche lei, durante quelle sedute, aveva imparato a leggerlo dentro.
“Non so dirvi il rammarico di vedervi ogni volta ridotta in questo stato, Frau Lilibeth.”
“Non perdete il sonno, Herr Müller.”
Anche le loro voci si contrastavano:quella del tedesco era artificiosa, pomposa e beneducata. La sua era flebile,un sussurro di vento.
“Bene!” squittì il tedesco, il viso illuminato dalla gioia più artefatta. “Non avete perso il senso dell’umorismo. Mi fa piacere. Settimana scorsa eravate talmente debole che temevo che oggi non sareste riuscita nemmeno a parlarmi.”
Lei si adagiò meglio contro lo schienale della poltrona. Quel movimento le procurò una stilla di dolore sotto la pelle.
“Affetto, gentilezza,conversazioni normali.” Mormorò piano, una piccola smorfia. “Un paradiso, Herr Müller. L’unico posto dove è possibile parlare.”
“Mi fa piacere, mia cara, mi fa piacere eccome di questa vostra considerazione. Anch’io trovo piacevole la vostra compagnia.”
“Piacevole?” chiese la donna, stupita. “Mi devo essere espressa male, mio buon signore. Parlare senza dire, avvolti da una coltre di tepore insano…perdite di tempo,eppure così piacevoli per il fisico…per questo, forse, la peggiore tortura…è ciò che fa più male, è qui che uno pensa di non farcela, di cedere…”
“Eppure una donna così testarda ed orgogliosa da retta ben volentieri alle urla del fisico. Il fatto che voi acconsentiate di essere qui è una piccola vittoria, non trovate?” sorrise il tedesco, benevolo. “Certo, i miei compagni sono terribili. Vi trattano come un robot d’acciaio quando siete una bambolina di vetro, ma i risultati che stanno raggiungendo sono strabilianti. Nessuna resistenza, tranne una, povera cara.”
“Compagni, avete detto bene. Fra voi e i nazisti che mi spezzano le ossa c’è ben poca differenza. Un borghese e un militare lottano sempre per la stessa cosa, sotto profili diversi.”
“E voi per cosa vi ostinate a lottare?” l’uomo si sporse verso di lei, inclinandosi sul tavolino. “ Sapete che tutto questo è solo colpa vostra, Frau Lilibeth. Se solo non foste così ostinata, se solo voleste collaborare…”
“Sono giunte voci, dalle celle. Prima di essere ammazzato, un uomo ha gridato l’invasione di Parigi.”
“La libertà è ceduta dalla torre, a quanto ho sentito dalla radio.” Rispose l’uomo, pacato.
Lilibeth sgranò appena gli occhi, le ciglia umide di cordoglio, la bocca secca e sgonfia arricciata in una espressione appena sgomenta.
“La bandiera.” sussurrò.
“Avete parenti francesi? Mi sembrate sconvolta, mia cara.”
“Sapete bene che sono per metà italiana e per metà tedesca.”
“A volte non vi capisco, mia cara, sebbene il lavoro che faccia sia predisposto all’opposto con voi. Incompetenza? No, ho letto talmente tante persone che dubito raramente delle mie facoltà. Eppure queste sceneggiate sono, lasciatemelo dire, infantili da parte di una persona così intelligente. L’Italia è entrata in guerra, al nostro fianco.”
“Perché? Per quale inutile premio?”
“Il mondo sarà il premio, mia cara. La Germania vincerà il mondo, e lo spartirà con la vostra terra…e voi vi rammaricate per l’ammaino di un pezzo di stoffa francese?”
Gli occhi di lei, gonfi e violacei, divamparono gelo.
“Ogni fibra di quella stoffa è composta dalla materia della Marianne, dal sangue di Napoleon, dal colore di Manet, dalla penna di Baudelaire. E’ impregnata del pianto dei bambini, del riso degli anziani, dell’amore e della forza delle donne, del valore e della tempra degli uomini di Francia.”
“E’ un gallo che ha smesso di cantare, ormai.” Considerò l’altro, grattandosi il mento. “Sporche sanguisughe ingorde che hanno cercato di succhiare via tutta la linfa tedesca,se rammendate. Se fosse stato per loro, io non sarei qui, su questa bella sedia a sorseggiare questo the squisito.”
“Nemmeno io sarei qui, se non fosse stato per voi.”
“E’ qui che vi sbagliate, mia cara.” Herr Müller premette un dito su un ricevitore. Ci fu un suono meccanico, prolungato.
La porta si aprì. Entrarono due soldati, impettiti e rigidi come pupazzi di marmo.
Alzarono il braccio in avanti, salutando, (che bisogno c’era?), e adagiarono con disprezzo sul tavolino una piccola scatolina di cartone.
“Grazie, signori.”
Lilibeth non sentì la porta richiudersi. Non sentì più niente.
La sua vita stava vagando attorno a quella scatola da settimane, ormai, come un satellite.
Il suo cuore si gonfiava di sangue e amore ogni qual volta che le veniva posta davanti, mite e malinconico nell'agghiacciante scoramento.
Alzò una mano tremante, accarezzandone il dorso liscio.
Fu come respirare.
Fu come urlare.
S’impose di non commuoversi,questa volta. Non voleva offuscare la vista di quel suo miracolo personale con le lacrime.
Il tedesco rispettò quel sentimento,rimanendo zitto. Poi, dolcemente, la uccise togliendole di mano la scatola e portandola sotto la sua ala.
Lilibeth mugolò disperata, sentendosi negare quel contatto. Quello per cui lottava. Quello per cui aveva sopportato buio e sangue, vomito e lividi, urla e lacrime.
Quante volte aveva affondato i denti nelle labbra, quando volte aveva conficcato le unghie nella carne nei palmi,solo per quella piccola speranza di cartone?
Ed ora era lì, tra le mani di quel nazista, così vicino, così vicino…
“Parliamoci chiaro, mia cara.”
“Perché? Perché mi uccidete?”
“Oh no, no, no…” la mano di Herr M. scattò verso la sua, quella sana, ancora protratta verso la scatola. Accarezzò la sua pelle premuroso come un padre. “Povera piccola. Povera, povera bambola di vetro. Noi non abbiamo alcun interesse nell’ucciderti. Non concluderemmo niente. Ma stiamo concludendo qualcosa, adesso? Ti hanno ridotta così, piccolina, ti hanno rotta, frantumata in mille pezzi. Un giocattolo buono solo per i morti, poverina. E per cosa? Per cosa? Dimmelo, perché non riusciamo a capirlo. Sappiamo bene che qui dentro c’è qualcosa che ci appartiene, perché non vuoi rivelarci il segreto di questo sciocco contenitore?”
“Voi avete paura di quella scatola come non ne avete dei carri armati nemici.” Accusò la donna, ritraendosi con spregio. “Non parlerò,no,non dirò cosa contiene.”
“Perché ci rendi le cose così complicate? Perché non collabori? Basterebbe un codice, una parola, qualsiasi cosa, anche solo per aprila…una sillaba, una sola…e tutto questo finirebbe. Noi ci assicureremmo che il Reich sia salvo e tu torneresti dalla tua famiglia.”
Un lupo.
Un lupo biondo. L’aveva sempre paragonato ad un passero, che dall’alto dei rami punta al verme, quella creaturina innocente, che non può scappare, perché non ha gambe, né urlare, perché non ha bocca. Un passero che credeva di essere un aquila.
Invece ora aveva la sensazione di essere Cappuccetto Rosso. Di essere finita in una corsa assurda, in un gioco meschino, frutto di una mente cattiva. Chi sarebbe arrivato prima dalla nonna? E dov’era il cacciatore che l’avrebbe salvata?
Si sentì mancare l’aria.
Non sarebbe arrivato nessuno.

Dio, dio basta.
Uccidetemi, uccidetemi.

“Non ti manca, la tua famiglia?”
“Sì.” Un sussurro lieve, appena smorzato, sputato a fatica dalle labbra. Si sentiva svenire.
“Desideri tornare a casa, vero? Niente più botte, niente più cibo rancido, niente più sputi, insulti, bestemmie nelle tue orecchie fragili.”
“Sì…”
“E allora dacci la soluzione. Facci aprire questa scatola.”
Silenzio. Ma era un silenzio debole.
“Dimmi,cara, ti ho mai picchiata io?”
“No.”
“Ti ho mai sputato addosso?”
“No.”
“Ti ho mai insultata? Ti ho mai negato qualcosa?”
“Oh no, no, no…”
“E allora non vuoi farmi questo favore?” le parole di quell’uomo erano carezze arroventate. “Hitler sarebbe molto contento di te. Ti perdonerebbe tutto. Sappiamo che non è colpa tua, tu sei una brava tedesca, vero? Non nuoceresti mai al nostro amato Führer. Ti hanno costretta a farlo, ti hanno costretta a dire tutte quelle brutte cose sul Reich, ti hanno costretta a sigillare questa scatola. Come i miei compagni sono stai costretti ad usare la violenza, per farti parlare. Sei una donna, sei così stanca, povera cara…”
“Non posso. Non posso…”
“E va bene.” Herr M. si risistemò sulla sedia, soddisfatto. “Voglio farti un regalo. Hai subito troppo. Dopo aver parlato con una certa persona, deciderai se continuare in questa maniera.”
Lo avvertì alzarsi e trotterellare fino alla porta e affacciarsi sul corridoio.
“Fatelo entrare.” Disse pacato, prima di girarsi verso di lei. “Spero tu abbia più giudizio, stavolta. Mi dispiace vederti stare così, io ti sono amico, lo sai.”
Lo sguardo di lei si perdeva in quegli specchi sereni nei quali scorgeva rimpicciolita la propria immagine e per un istante si chiese, angosciata, quale fosse l’ennesimo supplizio.
E lui entrò. Il passo calzante, le gambe lunghe che molleggiavano, le braccia che frusciavano contro i fianchi magri.
Rimase fermo sulla soglia, vibrante di paura, il viso pallido e gli occhi cerchiati di stanchezza. La cercò, lentamente, le mani tremolanti serrate al pomello della porta, tanto che le nocche erano sbiancate.
Lei rimase in silenzio, socchiudendo le palpebre, adornate di ciglia umide che si sfioravano appena. La morsa nel cuore si allentò, e le catene che le legavano l’animo si sciolsero in filamenti di velluto.
Forse l’aveva sempre saputo, forse l’aveva sempre desiderato: la fine.
Oh, come doveva esser bello addormentarsi un’ultima volta fra le sue braccia…ma era così sfacciatamente troppo da chiedere, che si accontentò di vederlo lì, esortato dallo psicologo ad avanzare, disperato e vacillante.
Era più magro, e più normale: lo ricordava, fasciato gloriosamente nella sua divisa da carabiniere color cachi, un alamare a foglie d’acanto composto da palma branca e nappo sui baveri, il copricapo dorato con il fregio dell’Arma che adombrava gli occhi accesi di malizia e vita.
Era da tanto che non professava più, da quando erano andati in Germania, dove lavorava madido di sudore qualche orto sparuto accanto al loro cascinale. Eppure lei l’aveva sempre visto così, una fotografia di quando si erano visti la prima volta: giovane, orgoglioso, felice, passionale come chi ha il sangue bollente nelle vene.
“Vi prego. Vi prego.” Lo sentì sussurrare una volta voltato verso la porta. “Vi prego, basta. Vi prego, i nostri figli…”
“Sta a lei convincerla, Herr Sanna. Ci auguriamo che possiate riuscire dove molti di noi hanno fallito. Sapete bene che succederebbe, in caso contrario…il Führer non ha la pazienza, tra le sue qualità, ed io non faccio miracoli.”
Non aveva mai sentito la voce di Müller così: fu sconvolgente. Il tono era basso, ma lei aveva l’udito fino.
Quella modulazione di voce, roca, feroce, crudele, non l’avrebbe riconosciuta se non fosse stata certa che ci fosse lui dietro la porta.
Sussultò. La pelle tirò, livida, sui tagli freschi.
Sapeva perfettamente che uomo era: tuttavia si era assuefatta a quella voce amabile, tanto che fu come se si fosse scordata e poi ricordata di che pasta era fatto.
La porta si richiuse: suo marito era rimasto in silenzio, come pensieroso.
Levò gli occhi su di lui, senza azzardarsi a parlare a sua volta, cercando di sforzare ogni diottria che le era rimasta nel catturare ogni fibra di quell’immagine.
Lui non la guardò, all’inizio: gli occhi verde oliva, si persero dietro le sbarre della finestra, poi si focalizzarono sulla libreria, e fu come vedere le iridi contrarsi, ingrandirsi, puntare su qualche libro senza vederlo davvero.
Su alcuni, quelli più in basso, c’era un velo di polvere che la luce giornaliera rendeva simile a seta fulva.
Alla fine, Lucas deglutì, mordicchiò un bronzeo labbro e le narici si allargarono nel trarre quanta più aria possibile: si girò, con cautela, e posò gli occhi su di lei.
Fu quasi stupido come, in un momento come quello, desiderò essere d’aspetto più piacente. Per la prima volta dopo settimane, si rese conto di avere un’aria davvero terribile e se ne dispiacque.
Non sorrise, non pianse, non fece niente: si rendeva conto che ormai non poteva più togliersi di dosso quell’immagine di violenza che le avevano ricucito sulla pelle, e rimase ferma nel crogiolarsi in quel viso scavato.
Eccola, la felicità. Quale sapore delizioso, quale aroma, quale tepore!
Era meglio che addormentarsi abbracciati, rimuginò, perduta nella sua gioia: era meglio che vederlo ancora giovane, era meglio che vederlo in divisa.
Quando sai che stai per perdere ciò che ami, questo ti appare perfetto, anche se stanco e disperato, impaurito e ingobbito dal peso del dolore.
E lui respirava più forte, ora.
E ora piangeva.
E ora urlava.
E ora si accaniva sui libri, distruggendoli, strappando le pagine.
E ora gemeva alle sue ginocchia, ansante, la pelle della faccia arrossata e la mano sana di Lilibeth tra i capelli di carbone alla nuca o alla base dell’attaccatura, leggermente stempiata. La dolcezza di questa sensazione aumentava la sua tristezza.
“Oh, amore.” Sussurrò lei infine, sentendolo placarsi in un mugolio. “Oh.”
“Ti hanno fatto…così male…dio…dio…” singhiozzò lui, il viso affondato flebilmente nelle sue cosce, la voce impastata. Le ginocchia pulsavano di quel peso, ma la moglie continuò a cullarlo. Lo sentiva pregare sulla sua pelle, invocare il signore, ora benedicendolo,ora maledicendolo.
“Va tutto bene. Va tutto bene…”
“Parlami, parlami, dimmi che desideri me e i nostri figli, dillo…”
“Vi desidero con tutta me stessa.”
“Ho bisogno di crederci, dio mio, devo crederci.”
“Oh, povero marito mio. Oh, pover’uomo…” pigolò, chinandosi e baciandogli il capo. “Ti sto facendo soffrire. E i miei bambini, amati angeli, dimmi che stanno bene, t’imploro.”
“Hanno bisogno della loro madre. Io ho bisogno di mia moglie.” L’uomo alzò gli occhi, quegli occhi colmi di libertà, e tenerezza, e amore. Eccola, la più grande felicità. Eccola, la più spregevole sevizia. “Ti scongiuro, falli smettere di farti questo.”
Si sentì male, la terra si allontanava dai suoi piedi. I muri vacillavano, il soffitto la opprimeva.
Rimase perduta nella sua malinconia, cosciente di sé soltanto per il battito delle arterie; lo udiva come una musica assordante.
Ascoltava sempre il suo cuore, quando era riportata in cella e vi entravano due militari, in mano lunghe catene di rame e ferro.
Era così rilassante quel rumore, che un gatto avrebbe volentieri sonnecchiato sul suo seno, mentre sedeva, con ai piedi i suoi piccoli, accanto al camino del cascinale.
Avvertiva il calore della fiamma, e nella mano un tiepido bicchierino di liquore, mentre i piedi nudi venivano solleticati dai boccoli della bambina, la più piccola. L’uomo che le piangeva ora sui ginocchi sarebbe entrato in casa,affaticato, affamato. Avrebbe trovato subito la cena pronta, di là. Sarebbe andato a sedersi, mentre lei si sarebbe alzata per fargli compagnia, ma non prima di aver strofinato la testa al figlioletto maggiore, e baciato le gote della femminuccia.
Avrebbero dormito tutti e quattro assieme, davanti al camino, spaventati da eventuali arrivi di bombardieri, fino a quando la luce della luna avrebbe colorato di un pallido argento la cenere ormai fredda e un filo di sole le avrebbe colpito l’occhio, destandola in un’altra mattina di guerra e di amore.
“Vogliono che la apra, sai?” mugugnò, sentendosi le palpebre pesanti. “Ci sono altri come me, qui. Oppositori, ci chiamiamo. Come ci chiamano Loro è meglio che una bocca femminile non lo dica. Ci svegliano più volte ogni notte, innaffiandoci con spruzzi d’acqua ad alta potenza. Le nostre celle vengono sterilizzate continuamente con un disinfettante estremamente forte, i cui fumi ci fanno vomitare con violenza. Dopodiché i secondini rovesciano a calci i buglioli a sui nostri giacigli giù luridi, ci insultano, ci picchiano. Non distinguono fra uomo e donna, vecchio o giovane.”
I suoi occhi erano vacui, puntati su qualcosa di vago, mentre lei viveva le sue ombre: parlava senza riuscire a smettere, come pazza. Lucas stava male ad ogni sillaba, invece per lei erano solo suoni vuoti, che però doveva mandar fuori, o come ratti l’avrebbe divorata da dentro.
“Vieni via con me. Torna da me, dì addio a tutto questo.”
Le prese il mento tra due dita ruvide, stringendo un poco. Lei trasalii come se l’avesse schiaffeggiata, ed abbassò lo sguardo.
“Se sono particolarmente arrabbiati, usano catene.” Continuò, pallida. “Dopodiché arrivano dei medici, che salvano ogni volta la vita. Zitti, come burattini incastrati nei loro stessi fili. Non ci sono mobili, dobbiamo mangiare sul pavimento.”
“Lili…torna da me…dio,dio basta…”
“Molti di noi sono morti.” Sibilò infine, sgranando gli occhi. “Oppure portati via, non si sa dove. Nessuno è mai tornato. Sono morti.”
Lucas singhiozzava ancora, lamenti prolungati di una bestia ferita a morte.
“Aprila!” esplose, stringendole i fianchi ossuti. “Apri quella maledetta scatola!”
Com’erano stati precisi, nel martoriarla. Ora che ci pensava, era lodevole come fossero organizzati. Sangue, schiaffi, calci, e poi medici e decotte.
Sì,in Germania funzionava tutto. In Germania era tutto preciso, calcolato.
Anche la morte.
E lei non sarebbe mai morta. Mai.
Non erano ancora stanchi di lei. Ma lei lo era. Dio, se lo era.
Non avrebbe sopportato di rivederlo, per poi tornare in cella.
L’amore era fatto di scambi. Lui, lei.
Ma questa volta non avrebbe potuto fargli quella promessa, elargire quello scambio. No, non avrebbe aperto la scatola per tornare a casa.
Lo sapevano entrambi, l’avevano sempre saputo. Così come avevano sempre saputo che, se lei l’avesse rivisto, non sarebbe più riuscita a combattere la sua battaglia.
“Tutta la mia famiglia venne uccisa, te lo ricordi Lucas? Quando successe, credevo di non esistere più…non avevo un passato, e mi sembrava di non avere un futuro. Vagavo come un cieco errante nel presente, alla disperata ricerca di qualcosa che mi aiutasse a morire. Poi arrivasti tu, arrivò l’Italia. Così, d’improvviso. E d’improvviso arrivò pure il matrimonio, la casa, i figli. Mi spaventaste, se devo essere sincera. Siete comparsi così in fretta, dal nulla profondo che mi circondava…in fondo la mia vita è sempre stata così. Le cose mi sono sempre apparse davanti senza che le vedessi…senza che potessi fermarle… come fantasmi… ma il guaio non è tanto il fatto che le cose o gli eventi appaiano…il guaio è che poi scompaiono. Tutto scompare…la mia carriera, la nostra casa, la nostra terra. E poi voi, la mia famiglia, e anche il mio stesso corpo, a partire dalle dita delle mani. Tutto. ”
“Guardami.” Suo marito serrò le mandibole, poi sputò fuori quelle parole con uno sforzo immane. Le agguantò il viso, incrociando i loro sguardi. Una vena gli pulsava sulla tempia. “Guardami,maledizione. Sono qui. Siamo tutti qui. Noi esistiamo…”
“Lo so.” Replicò con dolcezza,accarezzandogli il viso. “Lo so, ora. Ho sempre pensato che, ad uno ad uno, foste scomparsi dalla mia vita, ma mi sbagliavo. Era la mia vita, qui dentro, che a poco a poco scompariva.”
Lui le lasciò il volto, incassò la testa nelle spalle. Lei continuò a carezzarlo,come una tenera madre.
“L’unico mio pezzo di vita è dentro quella scatola. Se la apriranno, io non esisterò più. E mi sento stanchissima.” Sospirò, gettando la testa all’indietro. “Non ce la farò a resistere. Non oggi. Neanche la Francia ci è riuscita, oggi, perché dovrei riuscirci io? Oh no, amore mio, no, non ce la faccio.”
“Non chiedermi questo.” La voce di suo marito era ferma, ora, rassegnata.
“Sei un uomo così buono,così coraggioso.”
“Oh…oh,dio…no…”
“L’hai portato con te, lo so. Tu esaudisci ogni mio desiderio.”
Lucas si staccò da lei, terrorizzato. Ansimava e girava gli occhi intorno a sé.
La pelle scottata per sempre dal sole meridionale si cosparse di piccole gocce di sudore, come rugiada.
Si accucciò accanto alla libreria, tirò un pugno contro il muro. Poi trasse un lungo respiro, e vomitò,macchiando il pavimento.
Qualcosa di piccolo capitolò dalle sue labbra secche, bianco. Un sacchettino chiuso da un nastrino di seta bianca.
Lui lo prese, strisciò verso di lei, le baciò le caviglie, le pianse sulle ginocchia gonfie e glielo mise in grembo.
Poi vennero tre uomini, tra cui il signor Müller. Egli si sedette al suo solito posto, non badò al vomito.
Gli altri due uomini lo presero per le braccia e lo trascinarono via, ancora scalpitante. La sua bocca si aprì in un verso stridulo, un urlo agghiacciante. Gridò il suo nome, maledisse dio,maledisse il fato. Poi la porta si richiuse, e glielo portarono via.




Ancora parole, ancora bugie. Ma ormai non importava più.
Tutto si chiudeva, un sipario desolato, rotto, bruciato. E lei sorrideva, serena, felice.
“Ben presto capirà, Herr.” Ripeteva con calma, mentre lui aggrottava le sopraciglia e si prolungava in discorsi sottili. “Ben presto lei saprà, ben presto lei saprà.”
Il sole tramontava, ormai. Sottili fasci di luce strisciavano dietro il muro. I mattoni sembravano colare sangue, ora.
Lo studiolo era rimasto in un lungo silenzio, ormai. L’uomo davanti a lei era stanco, nervoso, agitato.
Bramava sapere, gli occhi erano accesi da tale desiderio, dopo tanto tempo.
Voleva tornare a casa sua, probabilmente, dove sua moglie gli avrebbe preparato un pezzo di pollo alla birra e qualche patata arrosto.
Chissà se anche lui si addormentava in sala, con i figli e la sua donna, spaventato dagli aerei nemici, dal rumore degli spari, dalle bombe che incenerivano il cielo.
“La seduta sta finendo, ormai, e voi avevate promesso di farmi sapere cosa contiene la scatola.” Proruppe poi, abbandonando ogni sotterfugio.
Lei tremava, ormai, le labbra le stavano diventando violacee. Si reggeva strenuamente davanti a lui, fiera, gli occhi appena socchiusi e un sorriso appena pronunciato.
“Posso farvi una domanda?” disse. “Vi sentite sicuro ad obbedire?”
“Non ne capisco il senso.”
“Voi obbedite ciecamente agli ordini. La ribellione è un caos cocente, la sottomissione un freddo equilibrio. Voi vivete di questo, non è così? Vi sentite protetto.”
“Ora basta, Frau Lilibeth.” Si spazientì l’uomo. “Sono stanco delle vostre dichiarazioni. Non finga che questa società sia mostruosa ed inspiegabile. Anche lei ha accettato di impararla sui banchi di scuola.”
“E’ vero. Ho studiato la vita come altri volevano che la studiassi. Ma metterla in pratica…è una cosa personale.”
“Ci dica cosa contiene quella scatola.”
I tremori si facevano più violenti, ora, vere e proprie convulsioni. La donna si sporse oltre il bracciolo e vomitò sangue.
“Gesù!” balzò in piedi il tedesco, nauseato. “Cosa avete fatto, per l’amor di dio?”
Lei alzò appena il capo, un rivolo di rigetto che le colava all’angolo della bocca spalancata, gli occhi sgranati e pieni di venuzze rosse attorno alle iridi.
“Aiuto, aiuto!” strillò l’uomo, mentre un altro rigetto le saliva alla gola.
Si premurò di sporcargli la poltrona.
La porta si spalancò con un fragore, ma lei avvertiva solo un sordo ronzio. Un gelo le stava salendo dai piedi, rinfrescandole le membra bruciacchiate dall’odio altrui.
“In questa gelida organizzazione il cuore umano va presto in ipotermia, Herr Müller.” Sussurrò dolcemente.
Rovesciò gli occhi all’indietro, il corpo irrigidito spasimò senza controllo. Una schiuma bianca le salì alle labbra arricciate, gorgogliando orrendamente.
Le uscì un verso strozzato, che riempì le orecchie dei presenti. Contò cinque uomini,prima di annaspare in cerca d’aria, il cuore che le scoppiava nel petto.
Trasse un profondo respiro, e il suo corpo si accasciò ammollendosi, come una piuma che si posa delicata sul fango. Gli occhi si spensero come globi di una lampada che non arde più.
Un istante dopo, ella era morta.





Un fruscio leggero riempì l’aria.
Herr Müller non guardò il corpo tumefatto della donna nemmeno quando questo venne coperto con un telo.
“Portatela via, dio.” Gemette, disgustato. “Ha un lezzo tremendo.”
“Non può puzzare dopo poche ore, Herr. Sa dirci cosa è stato?” chiese l’ufficiale, un omone con la fama di sregolato e con occhi azzurri, dolci e freddi. “Testa o croce. Testa, si è uccisa lei in qualche modo. Croce, incompetenza medica.”
Tirò fuori dal taschino una monetina che luccicò di riverberi infuocati alla luce morente.
Uno schiocco di dita, uno schiaffo sul dorso dell’altra mano.
“Testa.”
Un uomo in mascherina aggiustò le pieghe del lenzuolo, assicurandosi che ogni centimetro della pelle del cadavere fosse nascosto.
Si tirò su, si sistemò il camice e ordinò ai suoi sottoposti di trascinarlo via.
“Veleno, signore.” Rispose senza ombra di dubbio. “Avete qualche idea su come possa averlo trangugiato?”
“L’ho tenuta sempre d’occhio.” Rispose lo psicologo, poi si batté una mano sulla fronte. “Il marito!”
“L’ha uccisa il marito?” echeggiò incredulo il gaudente. “Che incredibile atto di crudeltà.”
“Che vada in malora.” Sbuffò Müller, furibondo. “Lui e la sua sgualdrinella dalla pelle infetta di ribellione.”
“Farò un’autopsia più accurata.” Proclamò il medico, pensieroso. “Non la prenderanno bene, ai piani alti.”
“Testa, la donna non rivelato nulla.” Borbottò l’altro, guardando lo psicologo. “Croce, le ha detto qualcosa.”
La monetina vibrò nell’aria.
“Testa.”
“Quella piccola infame non ha spiaccicato nulla di sensato.” Ringhiò lo psicologo, sbattendo giù dal tavolo una pila di fogli. “E’ crepata prima di poter dare un senso alla sua patetica vita.”
“Il marito?” suggerì l’ufficiale, grattandosi la nuca. “Riuscirebbe ad aprirla? E’ della stessa pasta della moglie, ma ha a carico due bambini.”
“Non credo concluderemmo niente, ci avevano già provato.”
“Ma…prendendo i figli…forse…testa o croce?”
“Oh, la pianti per favore.”
La porta venne riaperta con violenza. Entrò un ragazzo, biondo, due chiazze rosse sulle guance e fattezze efebiche.
Era uno di quei loro soldati automi, giovani e forti, certo, e anche duri con i vinti,ma mai brutali come si conveniva.
Salutò militarmente, annaspante, poi tentò di ricomporsi.
“La scatola, signore.” Esclamò, incredulo. “La scatola si è aperta.”
L’ufficiale si grattò il mento, sorpreso quanto il giovane. Lo psicologo aprì la bocca in un paio di mute sillabe, poi si scaraventò fuori dalla porta prima di tutti.
“Testa o croce, figliolo?” sospirò l’ufficiale, passando accanto al sottoposto. Quello cadde dalle nuvole, tutto agitato com’era.
“Prego?”
“Testa, abbiamo salvato la nazione tedesca. Croce, non abbiamo raggiunto un bel niente.”
“Sce…scelgo croce,signore.”
“Idiota.” Sbuffò l’altro, gettando la monetina nell’aria. “Questo stupido affare è un falso. Ho perso tutto giocando d’azzardo, ma quel brivido,quello che ti piglia mentre la fortuna è appesa al caso, non me lo porterà via nessuno. Anche se adesso è solo una illusione.”
Non riuscì ad afferrare il marco, che cadde tintinnando sul pavimento. Lui imprecò, mentre l’altro lo guardava come fosse pazzo.
“Non…capisco.”
La monetina rotolò vicino al piede della poltrona. I due tedeschi la seguirono.
“Che c’è da capire?” sbottò l’ufficiale, stizzito. Sembrava non gradire dare troppe spiegazioni. “E’ lampante che uscirà sempre testa.”
Il ragazzo non lo stava più ascoltando. Guardava incuriosito l’esito della scommessa, benché lo conoscesse già. Chi li capiva, i giovani?
“Hey, guardi.” Esclamò all’improvviso,perplesso.
L’ufficiale abbassò lo sguardo, di malavoglia, una smorfia sul volto. Non gli importava molto del vedere che aveva ragione, l’unica cosa eccitante era vedere rotolare quella stupida moneta per aria. Il gesto di lanciarla gli ricordava notti focose, piene di liquore e donnine allegre e bellissime, quelle notti che si rovinano solo alla fine, quando tutto viene chiuso e tu sai che hai perso i soldi e che non potrai più giocarteli.
Ora che ci rifletteva, sua moglie ci era morta di crepacuore, per quel gesto.
Stava considerando l’idea di non farlo più, giusto per rispetto alla sua povera e defunta signora, quando cambiò idea. Anzi, quella piccola monetina avrebbe segnato nella sua vita altre giocate, questo era certo.
Parve che un brivido risvegliasse la sua mente assopita; il corpo molle si ricompose ed il viso si rianimò.
“Questa è bella.” Balbettò. “Dimmi, ragazzo, su cosa avevamo scommesso?”
“Sulla scatola, mi pare. Non seguivo bene il filo del discorso.”
“Beh.” Proclamò l’ufficiale, di nuovo vivace ed euforico. “Fatto sta che questo è davvero un fatto curioso.”
“Dovremmo raggiungere gli altri.” Suggerì il sottoposto, con reverenza.
“Giusto, giusto.” Sbottò l’ufficiale. “Andiamo un po’ a vedere cosa ci stava, dentro quella maledetta scatola.”
Uscirono in fretta, sbattendo la porta. Il cadavere di Lilibeth rimase solo, immobile, freddo, ancora accasciato sulla poltrona e ancora coperto dal telo, che puzzava di sterilizzante.
La luce del giorno non c’era più.
Solo un filamento, esile come un serpentello, che ora, tuttavia, faceva brillare entrambe le facce immobili della moneta, in bilico sul fianco.
Era caduta di taglio.





16 Giugno 1940


A svegliare il barbone dell’angolo nero, come lo chiamavano i ragazzini che bazzicavano in quelle zone, furono dei passi cadenzati, scarpe che scialacquavano nelle pozzanghere.
Era da tanto che non sentiva quel rumore,in quell’angolo: nessuno ci metteva mai piede, tutti avevano paura ad avvicinarsi troppo alla prigione militare.
Che poi per lui non era altro che la solita vecchia fabbrica, dove si erano installati uomini che urlavano troppo: aveva troppo alcol in corpo per avere timore di accattarsi lì per terra, col suo pezzo di cartone come materasso e il suo giornale come coperta.
Ogni tanto gli urlavano qualcosa, dalle finestre, ma evidentemente avevano altro da fare che badare ad un uomo ubriaco che insozzava una facciata che nessuno andava mai a vedere.
Qualcuno prima o poi si sarebbe divertito a sparargli: avrebbe puntato in basso la canna del fucile,annoiato dal rien faire, e avrebbe deciso che la puzza che emanava il suo giaccotto sudicio sarebbe stata decisamente fastidiosa.
E allora lo avrebbe colpito.
Tuttavia la mente del barbone era sprofondata in un’ebbrezza sonnolenta e triste, la grigia ubriachezza di chi non ha molto da fare: nessuno più sganciava una moneta per i mendicanti, e se gli avessero sparato non gli avrebbero dato molto fastidio. Era da un po’ che attendeva il sopraggiungere della fame, ma questa non sembrava arrivare mai, forse per via del liquore nello stomaco. Chissà come, quello non gli sarebbe mai mancato.
Aprì un occhio, pigramente, attendendo una bastonata o un insulto.
La pioggia, che cadeva a dirotto, fitta come un muro di strisce oblique, gli arruffava la barba crespa, tanto che i peli gli solleticavano la punta del naso. Forse sarebbe morto prima per i reumatismi, rimuginò,sentendo un torbido freddo raggrinzirgli le dita bagnate.
L’insulto, tuttavia, non arrivò. Semmai, ci fu il fruscio di una banconota, che lo destò del tutto.
“Dio ti benedica.” Gracchiò, mangiucchiandosi qualche sillaba.
“Non ho bisogno della sua benedizione.” Gli rispose l’uomo, il cappello tirato sul viso e un lungo cappotto beige col bavero rialzato. “Ho bisogno del tuo silenzio su quanto vedrai.”
“E con chi vuoi che parli?” borbottò lui, mettendosi faticosamente a sedere. L’uomo aveva un accento strano, benché parlasse correttamente il tedesco.
Erano pochi gli stranieri, di quei tempi, lì in Germania, e soprattutto erano pochi quelli che potevano permettersi di sganciargli mance.
Non era solo questo ad averlo incuriosito: la voce era malinconica.
Sì, fu questa la cosa strana. Non era triste, disperata, impaurita, la classica voce moderna.
Era semplicemente malinconica.
Lo fissò frugare nel bidone della spazzatura appartenente ai militari tedeschi, sospirando,pieno di pigro languore.
“Dì il tuo nome ad un povero vecchio.” Sbadigliò il barbone, mentre quello, i gomiti immersi nell’immondizia, sembrava anelare alla scoperta di un tesoro misterioso.
“Lucas.” Replicò lui, asciutto. “Non chiedermi altro.”
“E’ pericoloso quello che stai facendo,Lucas.”
Ed infine quello si girò a guardarlo, un mezzo sorriso che non si estendeva agli occhi languidi.
“Qui dentro c’è qualcosa di molto importante.” Rispose. “Eccola qua.”
Tirò fuori una scatolone di cartone, non molto grosso, dall’aria del tutto normale. Il barbone corrucciò le sopraciglia cespugliose,incerto,mentre l’uomo ne accarezzava il coperchio ammaccato.
Lucas, dal canto suo, tremava d’emozione. Il dolore e la rabbia avevano lasciato ad un sordo vuoto,che si presentava marginale quando guardava i suoi figli dormire accanto a lui e, ora, guardando ciò che rappresentava la sua defunta e meravigliosa sposa.
Come voleva affacciarsi tra le righe della sua breve esistenza e darci un senso.
Come aveva gli occhi? Di che colore erano le sue labbra?
Ricordava ogni singolo straccio di pelle che ricopriva il corpo di coloro che gliel’avevano portata via.
Le vene sul collo, le unghie sulle dita, il movimento delle narici.
E invece l’immagine di sua moglie la stava già dimenticando.
Per qualche crudele gioco del destino è l’assassino, colui che viene riecheggiato, e non la vittima?
Ma ormai non importava più. Ciò che importava era avere tra le mani quella scatola.
Gli venne in mente una bizzarria, un piccolo gesto folle che l’avrebbe fatto sentire vivo e, soprattutto, gli avrebbe fatto sentire viva lei.
Si chinò verso il barbone, dolcemente, e sollevò il coperchio. Quello ci guardò dentro, fece un’espressione buffa, poi guardò di nuovo lui.
“Ma qui dentro non c’è niente.”
Chissà come ci erano rimasti male, quelli lassù. Così tanta fatica!
Non era quello, il vero motivo per cui delle persone uccidevano altre, in fondo?
Ma,in realtà,per coloro che erano disposte a morire, per tale motivo, quel niente aveva un aspetto diverso. Si rendeva denso, caldo, e soffice. S’inebriava d’orgoglio, dignità, giustizia.
“Dipende da chi ci guarda dentro.” Rispose. “Per lei, qui dentro c’era tutto.”
Sì, quello era un niente migliore di qualunque resistenza al mondo.

Fine
 
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VOTO: (1 voto, 2 commenti)
 
COMMENTI:
Trovati 2 commenti
sarahfusi 16/01/15 14:10
Ti ringrazio, l'ho scritta quando ero più piccola.
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umisan - Voto: 16/04/12 00:34
Geniale!! Molto bella mi è piaciuta davvero! Complimenti
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