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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Videogiochi
Dalla Serie: Sonic
Titolo Fanfic: SONIC ORIGINS
Genere: Autobiografico, Introspettivo
Rating: Per Tutte le età
Avviso: One Shot
Autore: knuckster galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 21/02/2011 18:19:51

Una raccolta di brevi storie sul passato di tutti i personaggi del mondo di Sonic.
 
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DOTTOR EGGMAN
- Capitolo 1° -

Potere.
E’ la parola attorno alla quale ho improntato gran parte della mia vita.
La capacità di essere in grado di fare qualunque cosa, di poter modificare la realtà a proprio piacimento, di far girare gli eventi nella ruota del destino dalla parte più favorevole.
La sorte non è stata sempre benigna nei miei confronti. Ci sono stati molti avvenimenti che mi hanno segnato nel profondo e hanno fatto di me quello che sono oggi. Non sono un tipo che si accanisce contro il destino beffardo, che si lamenta per le sfortune e le disgrazie del proprio passato.
E’ il mio passato che ha prodotto la mia storia ed è la mia storia che ha prodotto me.
Io sono il frutto di ciò che mi è capitato nel corso della vita e dato che non cambierei neanche un particolare di come sono fatto, non cambierei neanche un dettaglio della mia storia, la storia di quello che tutta Mobius ormai conosce come…


DOTTOR EGGMAN


Avevo appena tre anni quando questa parola che avrebbe significato così tanto per me cominciò ad insinuarsi prepotentemente nella mia vita. Non ricordo molto della mia infanzia, ma sono sicuro di essere stato una peste di bambino, una cosa di cui dovrei congratularmi con me stesso. C’è solo un ricordo di quel periodo che rimane ancora vivido nella mia memoria, anche dopo tutti questi anni. E’ legato alla persona che più di chiunque altro ho considerato un modello, un’ispirazione… un padre più di quanto lo sia stato quello vero. Si trattava di mio nonno Gerald.

- Devi scusare la nostra visita così improvvisa! So che quando sei nel bel mezzo delle tue ricerche non vuoi essere disturbato, ma Julian ha minacciato di ricominciare a sfasciare tutti gli elettrodomestici di casa se non lo avessi portato a trovarti… e, conoscendolo, è capace di mantenere la promessa! Il mio forno non è mai più stato lo stesso da quando ha distrutto il vetro con quel calcio! E pensare che lo avevo comprato ad una… -
Il piccolo Julian Robotnik non riusciva a capacitarsi di quanto una persona fosse in grado di risultare irritante quando parlava a ripetizione come un pappagallo obeso. Sì, un pappagallo obeso. Era proprio la descrizione adeguata per sua madre, anche se solo tra qualche anno avrebbe capito il significato della parola “obeso” e l’avrebbe sostituita al “cicciona” nel suo profilo identificativo. Oh, ma aveva tanti altri nomi che calzavano a pennello per quella donna: “Balena bisbetica”, “Maiale schiamazzante”, “Rotolo di lardo peloso” e chi più ne aveva più ne metteva. Certo, non aveva la minima idea di cosa volesse dire la metà di quelle parole, ma gli piaceva molto accostare all’idea di sua madre dei paroloni complicati che esprimessero tutto il fastidio che provava ogni volta che la sentiva parlare. Si era divertito da matti quando aveva rivelato alle sue amiche, oche quanto lei, la sua abitudine di radersi i baffi, o meglio, quello che lei definiva “peluria naturale sotto al naso”. Come no, pensava sempre Julian. Il tricheco nei cartoni animati che gli piacevano tanto non aveva un paio di baffi folti e cespugliosi quanto quelli di lei. Stava di fatto, comunque, che nel momento in cui il piccolino aveva accennato a questa sua abitudine, accidentalmente e innocentemente come si era sforzato di far credere, il suo doppio mento tremolò come un budino e le sue guance flaccide arrossirono più di un papavero. Provava una sorta di piacere infantile nel mettere in imbarazzo quella sottospecie di balenottero logorroico di sua madre.
Nel momento in cui nonno Gerald lo aveva preso per mano lo aveva guardato con occhi luminosi e carichi di affetto, lasciando a sua madre solo un’occhiata di sufficienza e di irritazione. Rieccola di nuovo a fare un comizio sulla nuova lavastoviglie, come se al nonno gli importasse qualcosa. Gerald, però, annuiva interessato, senza distogliere lo sguardo da sua figlia, anche se il tic che aveva di muovere le dita della mano destra lasciavano trasparire tutto il suo fastidio. Julian era abituato ad osservare con attenzione ogni movimento di suo nonno, quindi capì immediatamente lo stato d’animo dell’anziano parente. Si chiedeva come Gerald non avesse ancora mollato un ceffone su quello stupido faccione brutto e grasso, ma sapeva anche che l’autocontrollo e la pazienza di suo nonno erano pari solo al suo genio. Non c’era nessun altro sul pianeta che potesse essere più “figo” di suo nonno, o almeno era l’aggettivo che usavano sempre in tv per descrivere le persone che Julian invece definiva con un semplice “brave”.
Era sempre un piacere per lui andare a trovare il nonno. Era l’unico che non lo trattava come un poppante, a differenza di sua madre la cui apprensione cronica gli impediva di farlo sentire diversamente da come si sente un cane al guinzaglio. La cosa che più adorava del tempo che trascorreva con nonno Gerald era il fatto che lo trattava da adulto, gli parlava con un linguaggio che non sempre capiva ma che comunque riusciva a farlo sentire a suo agio. E poi nel suo laboratorio c’erano così tante macchine particolari e bizzarre. Era sempre stato attratto dalla tecnologia e aveva una vera e propria passione per i robot, come i suoi numerosi giocattoli a tema potevano confermare. Il mondo di nonno Gerald era così affascinante e curioso che costituiva un vero e proprio paradiso rispetto all’ambiente noioso e opprimente di casa sua, con la sua stupida madre e il suo stupido padre.
- Nonno Gerald? Mi fai vedere come funzionano i computer? - domandò Julian tirando il braccio di suo nonno e interrompendo la conferenza della balena obesa.
- Adesso andiamo, Julian! - replicò Gerald, contento che il bimbo gli avesse dato un pretesto buono per interrompere le chiacchiere di sua figlia - Sono contento comunque che siate venuti a trovarmi! Non rimarrò in città a lungo, sono venuto solo per sbrigare delle questioni burocratiche che riguardano la clinica in cui è ricoverata Maria! -
- Oh! Come sta la piccola? Si sente meglio? -
- Le sue condizioni sono stabili, ma i dottori dicono che hanno in mente una nuova terapia che potrebbe farla migliorare! -
- Nonno Gerald! Nonno Gerald! - strepitava Julian - Andiamo? Andiamo? -
Scusandosi in maniera un po’ troppo formale con sua figlia, Gerald si allontanò e si diresse verso la poltrona della sua scrivania sulla quale lui e il bambino si sedevano di solito per giocare e chiacchierare come sempre facevano.
- Allora, diavoletto! - disse il dottor Robotnik scompigliando i capelli di suo nipote come sempre faceva per stuzzicarlo - Hai qualche nuovo giocattolo da mostrarmi stavolta? -
Con gli occhietti acquosi illuminati da una luce estasiata, Julian estrasse dalla tasca dei calzoni un piccolo razzo spaziale di plastica.
- Ti piace, nonno Gerald? - domandò il piccolo, muovendo il giocattolo nell’aria ed imitando con la bocca il rumore di un motore.
- E’ davvero bellissimo, Julian! Vuoi fare l’astronauta da grande? -
- Io da grande voglio diventare proprio come te! -
Gerald rise sommessamente. A Julian piaceva molto quella risata un po’ rauca, probabilmente perché era una caratteristica tipica del suo eroe.
- E’ una strana coincidenza, sai? Tuo nonno in un certo senso è anche un astronauta! -
- Davvero? - replicò Julian, guardandolo a bocca aperta.
- Davvero! Infatti sono da poco tornato da una missione super segreta nello spazio! -
- Dai, nonno, raccontami tutto! Per favore! -
Suo nipote pendeva letteralmente dalle sue labbra. Sapeva che il modo migliore per farlo stare tranquillo era mostragli il funzionamento delle strumentazioni del laboratorio o raccontargli una delle sue storie. Era molto strano che quel bambino così piccolo fosse il suo più grande confidente in quel periodo così difficile della sua vita. Tra di loro però c’era un legame più speciale di quello che di solito c’è tra nonno e nipote. Gerald si sentiva libero di parlare con lui dei suoi importanti segreti, trasformandoli in mirabolanti avventure a lieto fine. Julian invece, godendo della sua compagnia, poteva sfuggire per qualche ora a sua madre e alle sue unghie laccate di rosso che tentavano in tutti i modi di frenarlo nella sua scoperta della vita.
- Va bene! - acconsentì Gerald, segretamente contento di poter finalmente infrangere il segreto di stato e di poter parlare ad un’anima viva di quello di cui si stava occupando - Allora, devi sapere che nello spazio attorno al nostro pianeta esiste una grande astronave che si chiama ARK! In questa astronave tuo nonno lavora insieme a tante altre persone per costruire un giocattolo molto molto speciale! Si chiama Shadow ed è una specie di super eroe! Il suo scopo, una volta che sarà stato completato, sarà di aiutare tua cugina Maria a guarire dalla sua brutta malattia! Però gli ostacoli sul percorso sono molti! Ci sono degli uomini cattivi che non si fidano di tuo nonno e che vogliono mettere le mani sul suo giocattolo perché temono che possa usarlo per fare cattiverie! -
- E tu li hai fatti tutti fuori, vero, nonno? - chiese Julian, affascinato dall’uomo che aveva di fronte - Li hai messi al tappeto con calci e pugni! -
- E’ proprio quello che succederà se gli uomini cattivi tenteranno di rubare l’invenzione di tuo nonno! Adesso Shadow e Maria riposano tranquillamente nell’ARK e io continuerò a proteggerli fino a quando sarà il momento giusto! -
- Il momento giusto per cosa? -
Gerald sorrise e stampò un bacio sulla fronte di Julian.
- La prossima volta che ci vedremo ti racconterò il resto! Mi raccomando, questo è un segreto tra noi due, d’accordo? Non farne parola con tua mamma! Non le ho detto dove si trova davvero Maria e non sa niente di Shadow! -
Julian storse la bocca al solo pensiero di rivolgere la parola a quella stupidissima gallina.
- Puoi contarci, nonno! -
L’affetto nel modo in cui Gerald guardava suo nipote era più che evidente.
- Sono sicuro che da grande diventerai un grande scienziato come tuo nonno! -
In quel momento di cinquanta anni fa, Gerald Robotnik non si rendeva conto di quanto la sua previsione si sarebbe rivelata esatta.

Quello fu l’ultimo giorno in cui vidi mio nonno Gerald. Dopo non lo avrei più rivisto. I miei genitori ci misero fin troppo tempo per dirmi che ne era stato del più grande eroe della mia infanzia. Non si degnarono di dirmi che era stato arrestato dai GUN, ma tentarono di indorare la pillola di quella notizia per paura che potesse turbarmi. Fatica del tutto inutile! Non appena mi resi conto che non avrei mai più potuto parlare con mio nonno, piansi, urlai e strepitai più di quanto avessi mai fatto in tre anni della mia vita, distruggendo praticamente ogni cosa che mi capitasse a tiro in quella casa. Quel momento non lo ricordo solo perché è stato l’apoteosi della mia infanzia da pestifero, ma perché fu anche il momento in cui mi ripromisi con più convinzione di sempre che sarei diventato esattamente come mio nonno Gerald… e il giorno in cui riuscii ad arrivare di un passo più vicino a quel traguardo è stato il giorno della mia laurea in ingegneria elettronica. Sentirmi chiamare dottor Robotnik era per me una soddisfazione immensa, perché potevo essere fiero di portare il nome del più grande scienziato che avessi mai conosciuto.
Un traguardo era stato raggiunto ed era l’ora di puntare a qualcos’altro… un obiettivo molto più in alto. Non venni mai a sapere il motivo dell’arresto e della fucilazione di mio nonno da parte dei GUN. I segreti del governo erano qualcosa di inespugnabile persino per un genio come me. Però sapevo che avrei potuto trovare parte delle risposte che cercavo nel luogo più significativo della vita di mio nonno: la sua torre-laboratorio. I GUN l’avevano fatta sgombrare e chiudere per sempre, ma non fu un problema per me introdurmici di soppiatto. C’erano ancora alcuni dei documenti che mio nonno aveva stilato sulle ricerche che aveva condotto durante la sua lunga carriera di scienziato. Avevo trent’anni quando mi sono imbattuto nei due progetti che forse hanno determinato in modo preponderante il mio futuro.


Il solo pensare che quella torre ormai diroccata, polverosa e ricoperta da ragnatele in ogni angolo era un tempo la dimora che ospitava uno dei geni più grandi di tutto il pianeta faceva ribollire il sangue nelle vene a Julian mentre si addentrava nei corridoi bui e deserti con l’unica compagnia del fascio di luce di una torcia elettrica. Se il suo nonnino avesse potuto vedere cosa ne era rimasto della sua gloriosa eredità sicuramente sarebbe andato su tutte le furie. Quegli stupidi omuncoli del governo non avevano la più pallida idea di quello che si rischiava a sfidare in quel modo un Robotnik. Avevano la pelle più dura del diamante e uno spirito combattivo degno di un leone. Era sicuro, infatti, che suo nonno Gerald avesse lottato con tutte le sue forze per opporsi all’arresto da parte della GUN e magari che avesse lasciato un raffinato piano di vendetta che avrebbe fatto pentire tutti coloro che avevano osato mettersi contro un uomo della sua intelligenza.
Julian era così immerso nei suoi pensieri che si accorse solo in quel momento di essere arrivato nell’archivio della torre, la stanza in cui suo nonno teneva tutte le registrazioni e le documentazioni del suo lavoro e dei suoi progetti. Non era la prima volta che si addentrava nell’edificio abbandonato. Era dal giorno stesso della sua laurea che era diventato un assiduo frequentatore del luogo che considerava una specie di altare votivo alla memoria del genio di suo nonno, oltre ad una riserva infinita di informazioni di carattere tecnico-scientifico. Esattamente come aveva fatto una dozzina di altre volte in precedenza, forzò il sistema elettronico di chiusura della porta blindata e quella si aprì sferragliando fastidiosamente a causa della ruggine che ricopriva i suoi cingoli. Storse il naso quando l’odore acre di chiuso gli bruciò nelle narici una volta varcata la soglia, ma non se ne curò più di tanto. Il suo obiettivo erano i fascicoli ricoperti di polvere riposti negli scaffali dell’archivio. Era rimasto a metà della lettura di un progetto che suo nonno Gerald aveva abbandonato tempo fa, un progetto che stuzzicava incredibilmente la fantasia di Julian. Qualcuno potrebbe chiedersi se non sarebbe stato più facile per lui prendere i documenti che gli servivano e andare a consultarli in un posto più illuminato e confortevole, ma Julian sentiva inconsciamente che il lavoro di suo nonno non dovesse abbandonare le mura entro il quale era stato svolto. Era una sorta di modo per onorare la sua memoria rimanere lì dentro a studiare e ad assorbire tutta la conoscenza che Gerald si era lasciato alle spalle.
C’era un voluminoso dossier riguardante il progetto intitolato semplicemente “Robotnik”. In cima al malloppo di fogli di carattere tecnico-illustrativo c’era un appunto di suo nonno. Aveva letto e riletto quel messaggio intriso di malinconia, maledicendo più volte il loro disgustoso governo e l’avidità del genere umano. L’appunto recitava così:

“Quando molti anni fa ho progettato il robotizzatore speravo di aiutare il genere umano perchè volevo contribuire a rendere la qualità di vita delle persone migliore di quanto non sia in realtà. I miei sogni però non sembravano conciliarsi con le esigenze di chi è al potere in questo nostro mondo. La tecnologia che ho ideato permette di trasmutare i tessuti organici più fragili in tessuti meccanici più robusti. Con il trapianto di questi nuovi organi artificiali sarebbe stato possibile allungare di molto la prospettiva di vita dei soggetti affetti da gravi malattie. Tuttavia, non avevo considerato che debellare i malanni significava rendere inutili i medicinali, quindi negare alle case farmaceutiche un sostanzioso guadagno continuo. Il mio progetto è stato bocciato ed ora giace in questo archivio come monito di quanto l’avidità umana superi lo spirito di comunione”

Era stato il triste resoconto degli sforzi non ricompensati di suo nonno a far crescere in Julian un odio profondo per il genere umano. Sarebbero stati loro stessi la causa della loro distruzione un giorno, di questo ne era sicuro.
A quanto pareva, però, anche Gerald non era del tutto soddisfatto del mondo in cui viveva, a giudicare dal progetto incompleto più stupefacente in cui Julian si fosse imbattuto fino a quel momento. Rinchiuso in un’area di massima sicurezza della torre, una zona così ben sigillata che Julian riuscì a violare solo dopo molti tentativi, c’era un dispositivo meraviglioso la cui funzione rasentava quasi la fantascienza. Se non avesse rinvenuto gli appunti di suo nonno, non sarebbe mai riuscito a capire a cosa servisse quel grande cerchio di metallo dorato.

“Il Macroverso è un argomento che mi ha sempre affascinato. La vastità teorica del tessuto dimensionale che metterebbe in connessione sterminati mondi con il nostro è qualcosa allo stesso tempo terrificante e stupefacente. Purtroppo, nelle condizioni in cui versa attualmente la mia vita pensare alla pace di altri mondi è l’unica fonte di conforto. La mia amata nipotina Maria sta peggiorando di giorno in giorno e temo sempre di più che i GUN vogliano sottrarmi il progetto Shadow a cui ho lavorato sin da quando ho scoperto la malattia di Maria. Sono stanco di tutto questo. Certe volte desidererei fuggire via dalla Terra insieme alle persone che amo. E’ un desiderio che si è fatto sempre più vivido e reale nella mia mente da quando Black Doom mi ha parlato del Macroverso e mi ha aiutato a costruire questa macchina. Non mi fido completamente di lui e non credo di avere il coraggio di azionarla per vedere se è davvero in grado di aprire le porte di un nuovo mondo. Per il momento devo solo concentrarmi su Maria e sul progetto Shadow. La vita della persona più cara che mi è rimasta al mondo dipende da me… non posso fuggire… devo continuare ad andare avanti…”

Una macchina per creare degli esseri robotici. Una macchina per viaggiare attraverso altri mondi. In quel momento Julian non se ne rendeva ancora completamente conto, ma aveva tra le mani tutta l’eredità di suo nonno, un’eredità che gli avrebbe permesso di cambiare il significato della sua personale interpretazione della parola “potere”.

Mio nonno Gerald possedeva un talento e un genio che, devo ammetterlo, superavano di molto le mie reali capacità, ma non le mie potenzialità. Impiegai gli anni successivi nel cercare di riprendere il lavoro di mio nonno da dove lo aveva lasciato. Il suo robotizzatore era una macchina troppo incredibile e affascinante perché rimanesse a marcire nella polvere della sua vecchia torre-laboratorio. Non fu semplice raccogliere i pezzi di ciò che il nonno aveva lasciato e rimetterli insieme in modo coerente, ma quando avevo ormai cinquant’anni la meta non sembrava poi tanto lontana… almeno fino al giorno in cui parlai con l’ultima persona con cui mi aspettavo di parlare.

Quella voce lo fece sobbalzare, non tanto perché fosse particolarmente imperiosa o minacciosa, ma perché non si sarebbe mai aspettato che un’altra anima viva a parte lui avrebbe calpestato il suolo di quella torre che tutti credevano abbandonata e in disuso. Un cinquantenne dottor Julian Robotnik, infatti, aveva trascorso gran parte della sua vita nel rimettere in sesto il vecchio laboratorio di suo nonno. Aveva sostituito i meccanismi delle porte blindate, aveva ordinato le sale e riparato la maggior parte dei sistemi di controllo e, anche se c’era ancora molto lavoro da fare, era soddisfatto di poter chiamare quella torre “il suo regno”, o come l’aveva più formalmente ribattezzata, “Techno Base”. Gran parte del suo lavoro era stato però concentrato nella costruzione e nel perfezionamento del robotizzatore, un suo piccolo omaggio alla memoria di un grand’uomo che non desiderava altro che aiutare la gente. Per molti anni aveva trascorso ore del suo tempo nella solitudine di quel luogo silenzioso, per cui fu una vera sorpresa per lui sentirsi chiamare alle spalle da una voce sconosciuta.
Quando si fu voltato, i suoi occhi registrarono attraverso le lenti degli occhialini l’immagine di un uomo di mezza età in divisa. Il suo volto severo era segnato dall’età, ma ciò non aveva intaccato la sua bellezza statuaria. Le sue due pupille, curiosamente di due colori diversi, esercitavano uno strano potere magnetico con il loro sguardo penetrante. Era impossibile confonderlo con altri, non solo perché Julian lo conosceva di fama, ma anche perché sulla sua divisa scura, pluridecorata da medaglie, si stagliava in bella vista il logo tanto odiato: GUN.
- Buonasera, dottor Robotnik! - lo salutò l’uomo, anche se nella sua voce non c’era neanche un briciolo di cordialità.
Di tutte le domande che in quel momento Julian avrebbe potuto porgli solo una riuscì a farsi strada nella sua mente e ad arrivare alla bocca arricciata in un segno di grande fastidio.
- Che cosa ci fai lei qui? -
- Potrei farle la stessa domanda! - rispose lui - Di solito gli scienziati non frequentano vecchie torri diroccate, anche se, da quello che posso vedere, non è più tanto diroccata! -
Ci fu un attimo di silenzio. I due si studiarono a fondo, tentando entrambi di capire le vere intenzioni dell’altro.
- Sa chi sono io? -
- Certo che lo so! - replicò Julian, sprezzante - Abraham Tower, comandante della GUN! Come potrei non conoscerla considerando che l’organizzazione per cui lei lavora è responsabile della morte di mio nonno! -
Il comandante non fece una piega. Era un uomo di principi abbastanza saldi da non farsi scoraggiare dalle accuse di altri.
- Non voglio tentare di convincerla che la GUN non ha nulla a che fare con la sparizione di Gerald Robotnik perché sarebbe una perdita di tempo! -
- La chiama sparizione? - sbottò il dottore - I suoi sporchi soldati lo hanno condannato a morte per fucilazione! -
- Non sono certo qui per parlare di questo! - ribatté il comandante - I miei uomini stanno seguendo i suoi movimenti sospetti da diverso tempo! Questo laboratorio è rimasto chiuso per cinquant’anni e sarei davvero curioso di sapere che cosa lei ci trova di tanto interessante! -
- Non sono affari suoi dove decido di trascorrere il mio tempo libero! -
- Di certo non sono affari miei, ma lo diventano del governo se si tratta di una struttura chiusa dagli agenti perché potenzialmente pericolosa! -
- Ma certo! - esclamò Julian, cominciando ad accalorarsi - Il governo ritiene pericolosa qualunque cosa che possa ostacolare le sue sporche speculazioni! E’ a causa del suo caro governo se mio nonno non è riuscito a realizzare i suoi sogni di aiutare la gente che tiranneggia dalla mattina alla sera! -
- Io non sono responsabile delle azioni del mio governo, ma ho il compito di far rispettare la legge... e quello che lei sta facendo qui è del tutto fuorilegge! -
- Quindi cosa ha intenzione di fare? Arrestarmi? - lo sfidò Julian, totalmente fuori di sé dalla rabbia.
- Avrei già dovuto farlo! E se non l’ho fatto è semplicemente perché io, più di chiunque altro, comprendo il suo dolore! -
Solo in quel frangente, Julian rimase senza parole, sicuro di non aver compreso a fondo quello che il comandante gli aveva detto. Tower ne approfittò per spiegare meglio le sue motivazioni.
- Gerald Robotnik è stato come un padre per me! Sono cresciuto con lui e con Maria, le uniche due persone che sono state in grado di non farmi sentire un orfano! La loro scomparsa è stata l’avvenimento più tragico di tutta la mia vita, ma non è dando la colpa alla GUN che io e lei riusciremo a superare il dolore! Non ho ordinato subito il suo arresto e sono venuto qui da solo a parlarle perché l’ultima cosa che desidero è far finire in catene un altro Robotnik! Io la rispetto come rispettavo suo nonno, ma ciò non vuol dire che me ne starò con le mani in mano e le lascerò infrangere la legge! Questo è il primo ed ultimo avvertimento che riceverà da me, dottor Robotnik! Abbandoni questa torre e dimentichi di esserci mai stato! Se i miei uomini la rivedranno ancora da queste parti, allora ordinerò il suo arresto e le posso assicurare che non sarà affatto una cosa piacevole! -
Abraham Tower non diede modo al suo interlocutore di concedergli anche una minima risposta. Dopo il suo monito perentorio, girò sui tacchi e si diresse a passo svelto verso l’uscita della sala, lasciandosi alle spalle uno sbigottito, ma non per questo meno furente, Julian Robotnik.

La storia sembrava avere il vizio di ripetersi. Esattamente come mio nonno prima di me, stavo per essere ostacolato e tiranneggiato dalla GUN, un branco di patetici soldatini che credeva di poter giocare con il genio della famiglia Robotnik e poi di buttarlo via quando non ce ne fosse stato più bisogno. Si sbagliavano. Si sbagliavano di grosso. Il Comandante si aspettava che avrei sgombrato dalla mia Techno Base entro ventiquattro ore, ma avevo intenzione di opporre una strenua resistenza alla sua insensata ostinazione. Purtroppo però, non avevo calcolato che quell’azione sovversiva avrebbe per sempre cambiato la mia vita.
Quella sera stessa, attivai il nuovo generatore elettrico che avevo installato nella torre perché distribuisse energia a tutto l’edificio. Mai avrei potuto calcolare che la rete della corrente avrebbe portato energia anche alla macchina che mio nonno aveva sigillato in un’area del palazzo. Ci fu un sovraccarico di tensione, la macchina si attivò con effetti del tutto imprevisti. Funzionava! Funzionava davvero! Mio nonno Gerald era riuscito a creare un dispositivo che metteva in comunicazione la Terra con le altre dimensioni del Macroverso. L’intera torre venne risucchiata nel portale che si era aperto a causa di quel sovraccarico… ed io con lei. Fu così che mi ritrovai di punto in bianco in un mondo del tutto nuovo e sconosciuto… eppure molto simile alla Terra. Mi ritrovai su Mobius.


Mobius era uno strano pianeta, popolato solo ed esclusivamente da animali parlanti. Le caratteristiche fisiche ed astronomiche erano attribuibili ad un pianeta simile alla Terra, peccato però che non ci fosse lo straccio di un essere umano a parte me. Era una situazione bizzarra, strana, nuova e colma di allettanti possibilità. Ero su un pianeta dominato da creature apparentemente meno intelligenti di me, con una torre piena zeppa di strumentazioni all’avanguardia, senza possibilità di tornare indietro… ma avevo davvero bisogno di farlo? Il dispositivo di mio nonno era andato completamente distrutto e non avevo la più pallida idea di come ripararlo, ma avrei davvero dovuto farlo? Dovevo riflettere… dovevo capire come potevo sfruttare questa situazione a mio vantaggio. Se sulla Terra il genio dei Robotnik era stato sminuito e trattato con sufficienza, forse su Mobius le cose sarebbero andate diversamente. Avevo bisogno prima di tutto di diverse cose: di aiutanti…

Il dottor Robotnik aveva messo a punto gli ultimi collegamenti ed era pronto ad azionare le batterie di Decoe e Bocoe. Era così che aveva deciso di chiamare i suoi due nuovi robot assistenti. Era sicuro che il loro aiuto sarebbe stato fondamentale nel destreggiarsi in quel nuovo mondo inesplorato. Azionò la leva che avrebbe dato energia ai loro due corpi metallici e attese con ansia un loro segno di vita.
- Mamma! - dissero in coro agitando le braccia come dei neonati.
Che qualcosa fosse andato storto? Anche negli anni a venire se lo sarebbe domandato, ma avrebbe solo concluso che, evidentemente, ogni assistente che aveva il malaugurato compito di costruire per qualche strano scherzo veniva fuori con un cervello di gallina… altro che intelligenza artificiale.

…avevo bisogno di materia prima per le mie creazioni e, fortunatamente, era una cosa che su Mobius non scarseggiava affatto. Tutto il pianeta era disseminato da strani anelli dorati fatti di un metallo pregiatissimo, molto malleabile e ideale per essere lavorato. Ce n’era in abbondanza ovunque e più veniva raccolto, più si generava spontaneamente. Era davvero incredibile. Però, più di qualunque altra cosa, avevo bisogno di studiare gli esseri che popolavano il pianeta. Volevo sapere esattamente di cosa erano capaci e in quanto si differenziavano da noi esseri umani.
Fu proprio così che conobbi quella che considero la piaga della mia vita… ma senza la quale non so come avrei fatto ad andare avanti fino ad ora.


- Vediamo se ho capito bene! Non devo fare altro che correre a più non posso davanti a me e questo aggeggio assorbirà l’energia dei Ring? -
La voce del riccio blu era incredibilmente irritante per il dottor Robotnik. Dal momento stesso in cui l’aveva incontrato aveva provato una punta di fastidio per i suoi modi di fare schietti e il suo tono di voce che nascondeva sempre un briciolo di sarcasmo e di canzonatura. Se non avesse avuto bisogno di lui per i suoi esperimenti sulla misteriosa energia che possedevano i Ring, non ci avrebbe pensato due volte a farlo girare al largo. Purtroppo, era l’unica creatura su Mobius che aveva conosciuto in grado di correre così rapidamente da infrangere la barriera del suono. La dinamo che aveva costruito per assorbire l’energia degli anelli doveva necessariamente funzionare ad una velocità che solo quel tale, Sonic, poteva raggiungere.
- Precisamente! - rispose lui, tentando di risultare sempre gentile e cordiale - Non avrei chiesto il tuo aiuto se non fosse assolutamente indispensabile! La scienza te ne sarà riconoscente quando avrò usato i risultati delle mie ricerche a beneficio di Mobius! -
- Ehi, chi sono io per non dare una zampa alla scienza? - replicò il riccio, scherzosamente.
- Ehm… già, come no! Puoi cominciare quando vuoi! -
Ancora prima che Robotnik ebbe chiuso la bocca, Sonic cominciò a correre dentro l’enorme ruota metallica che gli ricordava molto quelle per i criceti. Lo sferragliare delle catene e dei cingoli del dispositivo rimbombarono di colpo nell’ampia sala della Techno Base. Collegata alla ruota da un intrico di cavi elettrici, c’era una macchina più piccola dalla forma quadrata che incorporava una cupola all’interno della quale splendevano un paio di anelli dorati. La velocità che il riccio blu stava raggiungendo aveva dell’incredibile.
- Perfetto! Adesso puoi cominciare a rallentare! - disse Robotnik una volta che vide che gli indicatori di energia stavano assorbendo il loro picco massimo.
Il porcospino, però, non diede segno di averlo sentito e continuò a correre sempre più veloce con un sorriso divertito stampato in volto. I circuiti della ruota cominciarono a dare segni di cedimento. Dei piccoli sprazzi di scintille esplosero tra le lamiere.
- Sonic! Può bastare! Fermati! - ripeté ancora il dottore.
Nessun risultato. La rapidità con il quale il riccio si muoveva lo stava trasformando in un lampo sfocato di colore blu. Di lì a poco avrebbe infranto la barriera del suono.
- Dannazione! Ti decidi a fermarti, riccio della malora? - sbraitò Robotnik, ma ormai era troppo tardi.
L’accumulatore di energia esplose in una nube di fumo e scintille e la cupola che proteggeva i Ring andò in mille pezzi. I sostegni che piantavano a terra la ruota metallica cedettero e l’enorme massa ferrosa piombò sul pavimento con un tonfo pauroso. Sonic saltò in avanti un secondo prima del botto, carico di adrenalina per la sua prestazione di poco prima. Il suo corpo era circondato da un curioso alone dorato. Aveva appena sollevato in alto i pugni in segno di vittoria quando i due anelli vibrarono senza controllo e fluttuarono di colpo verso le mani del riccio, come attratti da una forza magnetica. Senza neanche rifletterci, Sonic li strinse nelle mani e ci fu un leggero bagliore luminoso che trasparì tra le sue dita. Si sentì improvvisamente carico di una potenza incredibile e, senza neanche rendersene conto, si ritrovò appallottolato su sé stesso. Fu come se nei suoi muscoli si fosse diffusa una carica elettrica potentissima. Saettò come un proiettile da una parte all’altra della sala, rimbalzando su ogni superficie che toccava e distruggendo di conseguenza qualunque cosa gli capitasse a tiro. Una volta che la carica si fu esaurita, ripiombò con i piedi a terra e festeggiò con una specie di buffo balletto. Il dottor Robotnik si sarebbe strappato i capelli, se ne avesse avuti, di fronte al disastro che quel piccolo demolitore aveva provocato.
- Whoa! Hai visto che roba, doc? Ora so come ci si sentono le palline da flipper! - esultò Sonic, molto più festoso di quanto si sentisse il dottore - Che cosa ne dici? Ha funzionato l’esperimento? -
- Direi proprio di no, considerando che sei stato tu ad assorbire l’energia degli anelli e non il mio accumulatore! - ringhiò Robotnik - Per colpa tua adesso dovrò ricominciare tutto daccapo! -
- Ehi, frena, bello! - replicò il riccio, indispettito - Sei stato tu a chiedere il mio aiuto! Se non ti andava bene il mio modo di fare avresti dovuto dirmi di fermarmi! -
- E’ proprio quello che ho fatto, sapientone! -
- Oh! - mormorò Sonic.
Per un attimo sembrò essere dispiaciuto, ma poi scoppiò in una fragorosa risata come se non fosse successo nulla, cosa che fece infuriare ancora di più il dottore.
- Credo di non averti sentito, doc! Scusa tanto! -
- Non… fa… niente! - rispose lui, tentando di mantenere la calma - Rimani qui! Vado a prendere le strumentazioni per il prossimo test! -
Julian Robotnik maledì il giorno in cui aveva incontrato una peste così disastrosa. Per quanto gli stesse sullo stomaco aveva bisogno di lui e, volente o nolente, avrebbe dovuto collaborarci. Si domandò se erano tutti così irritanti su quel pianeta dopo tutto e scoprì di non voler conoscere la risposta, altrimenti avrebbe pensato bene di lasciar perdere tutto quanto. Quando ritornò nel laboratorio, ad attenderlo c’era una spiacevole sorpresa.
- Eccolo! E’ lui! - esclamò Mighty the armadillo, puntandogli il dito contro.
- E’ lui che ci ha intrappolato! - gli fece eco Ray.
- Cosa? - si chiese il dottore - Ma che diavolo… -
- E questo come lo spieghi, doc? - disse Sonic, con uno sguardo collerico - Ho trovato questi due rinchiusi in una specie di gabbia! Mi hanno detto che li hai catturati contro la loro volontà! -
- Ma questo è ridicolo! - replicò Robotnik.
Effettivamente aveva prelevato quei due mobiani con la forza, ma cos’altro avrebbe dovuto fare? Loro si rifiutavano di collaborare e ne aveva bisogno per i suoi esperimenti. Per un bene superiore era sempre giustificato l’utilizzo di mezzi poco ortodossi. Tuttavia, a giudicare dall’aria infuriata del riccio blu non sembrava affatto disposto a sentire le sue ragioni e comunque l’idea di cercare un accordo con lui non solleticava per niente il dottore. Avrebbe potuto tentare di farli ragionare, ma qualcosa gli diceva che sarebbe stato fiato sprecato.
- Non avevo intenzione di fare del male a nessuno di voi! - spiegò l’uomo, anche se di malavoglia - Siete arrivati alle conclusioni sbagliate! -
- Sì, come no! In nome della scienza un corno! - sbottò Sonic.
- Nel mio mondo questo si chiama rapimento! - disse Mighty - E non lo accettiamo di buon grado! -
- Molto bene! - replicò Robotnik, dopo aver perso definitivamente la pazienza - Se non mi date modo di chiarire le cose dovrò usare la forza per farvi stare buoni! -
Si avvicinò ad un pannello di controllo e premette un pulsante. Una porta automatica si aprì nel bel mezzo del muro e una decina di robot dalla lamiera argentata ne venne fuori, marciando come un manipolo di soldati.
- Sono gli stessi che ci hanno preso! - disse Ray, allarmato.
- Allora vuoi il gioco pesante, doc? - intervenne Sonic, con un sorriso di sfida - Molto bene! Lascia che ti dimostri cosa ne penso dei tuoi esperimenti! E’ ora del rock ‘n’ roll! -

Sonic, Mighty e Ray fecero a pezzi i miei robot come se fossero stati pupazzetti, poi fuggirono dalla Techno Base senza darmi modo di spiegare loro le mie ragioni. A quei tempi le mie truppe non erano armate né pericolose… una cosa che sarebbe cambiata presto. Non potevo crederci. Era quella la ricompensa per i miei sforzi mirati ad aiutare quelle ingrate bestiole? Anche su Mobius, come sulla Terra, le persone pensavano solo ai loro interessi? Il genio dei Robotnik sarebbe stato calpestato su Mobius come sulla Terra avevano fatto con mio nonno? Parola d’onore di Julian Robotnik, tutto quello non sarebbe mai e poi mai successo.
Se davvero la società di Mobius era ipocrita come quella terrestre era ora che le cose cambiassero. Possedevo un genio fuori dal comune e disponevo dei mezzi necessari perché ci fosse una grande rivoluzione. Avevo il sacrosanto diritto di governare quegli stupidi animali per creare l’utopia perfetta. Non ero riuscito a farlo sulla Terra, ad aiutare la gente come mio nonno aveva voluto, ma adesso avrei aiutato le persone di un altro pianeta come io volevo. Nessuno avrebbe potuto intralciarmi. Avrei usato il robotizzatore di mio nonno per annullare ogni tipo di libero arbitrio. Avrei creato una società perfetta sulla base di metallo e circuiti, cosicché il genio dei Robotnik sarebbe stato finalmente temuto e rispettato. Al diavolo tutti gli esperimenti! Nessuno avrebbe mai più osato opporsi a me!
Purtroppo anche su quello c’era un margine di errore. Negli anni a venire avrei tentato in tutti i modi di robotizzare ogni essere vivente su quell’ingrato pianeta, ma sarei sempre stato ostacolato da lui… Sonic the hedgehog… il mio più grande nemico. Avrei cercato di creare un esercito dei miei Badniks, ma lui lo avrebbe sbaragliato. Avrei tentato di lanciare in orbita una stazione spaziale che avrebbe robotizzato in un solo colpo ogni creatura vivente, ma lui l’avrebbe distrutta. Avrei tentato di impossessarmi del potere dei Chaos Emeralds, ma lui mi avrebbe fermato. Era poco più di un gioco per lui, un modo per ingannare il tempo, il suo sport preferito… rompere le uova nel mio paniere. E più il tempo passava, più attorno a lui si radunava una cerchia di compari che lo aiutavano a sventare i miei piani volta dopo volta… volta dopo volta…
Anche prendere in ostaggio uno dei suoi amici servì solo a far precipitare le cose con conseguenze disastrose… o interessanti, a seconda dei punti di vista. Nel tentativo di mettermi i bastoni tra le ruote, come suo solito, Sonic danneggiò il macchinario che avevo progettato per assorbire l’energia dei sette Chaos Emeralds, scatenando inavvertitamente il fenomeno del Chaos Control. Fu così che mi ritrovai catapultato di nuovo sulla Terra, questa volta in compagnia dei miei odiati avversari. Anche se il campo di battaglia era improvvisamente cambiato, altrettanto non si poteva dire per la persistenza di Sonic e della sua combriccola. Pensavo che sarebbero rimasti disorientati dalla nuova imprevista situazione, ma sulla Terra ebbero modo di ambientarsi facilmente grazie ad una famiglia di ricconi che decise di ospitarli.
Continuai ad ordire le mie sinistre trame di conquista e di vendetta anche sul mio pianeta natale, ricorrendo persino ai segreti nascosti nel passato di Mobius e nel passato di mio nonno.
Fu proprio nei giorni in cui tentai di utilizzare la potenza di Chaos a mio vantaggio che Sonic decise di sferrare il suo ennesimo tiro mancino: privarmi della mia identità.


- Guarda, Tails! - esclamò Sonic, indicando il dispositivo volante che ben conosceva che stava spuntando in salita dal burrone - E’ un uovo gigante parlante! -
- Silenzio! - sbraitò l’uomo a bordo del veicolo - Io sono il dottor Robotnik! Il più grande genio del mondo! -
- Certo, come no… Eggman! - replicò il riccio, con un sorriso beffardo.

Nacque tutto come una delle sue tipiche prese in giro, ma col passare del tempo diventò qualcosa di molto più grande. Il vizio di chiamarmi “dottor Eggman” fu trasmesso da lui ai suoi amici, dai suoi amici a tutti i loro conoscenti, dai loro conoscenti a tutto il pianeta. Il famigerato genio del male, dottor Ivo Julian Robotnik fu costretto a diventare dottor Eggman. Se avessi continuato a chiamarmi con il mio vero nome, nessuno mi avrebbe più riconosciuto. Così, volente o nolente, fui costretto a riferirmi a me stesso come dottor Eggman. Sonic poteva privarmi del mio nome di battesimo, ma non del mio genio.
Più il tempo passava e più diventava una questione di principio impossessarmi di qualunque pianeta avessi tra le mani per realizzare il sogno di un’utopia robotica. Terra o Mobius non faceva differenza. Per troppo tempo i Robotnik erano stati maltrattati e calpestati e non sarebbe stato certo un porcospino blu a portare avanti questa triste tradizione di famiglia. Ho tentato e ritentato di imporre la mia legge in tutti i modi possibili: riesumando il grandioso progetto Shadow di mio nonno e i suoi studi sul Gizoid, oppure costruendo una gigantesca flotta aerea da battaglia, ma c’era sempre qualcosa che andava storta. Anche quando fui riportato su Mobius dalla macchina simile a quella che mi ci aveva portato, costruita stavolta da Chuck Thorndyke, le cose non migliorarono.


Potere.
Sin da bambino, mentre ammiravo l’incomparabile genialità di mio nonno Gerald.
Sin da quel momento ero consapevole che il potere era tutto. Mio nonno disponeva di una mente fuori dall’ordinario che gli conferiva il potere di fare praticamente tutto ciò che volesse.
Io ho ereditato questo suo dono ma, esattamente come era successo a lui, c’è stato da sempre qualcuno che ha tentato di opporsi al mio desiderio di metterlo in pratica. Questo, però, non ha alcuna importanza.
La vita mi pone sulla strada ogni giorno degli ostacoli, ma non saranno certo questi ad impedirmi di realizzare il mio sogno. Ho capito qual è il mio posto in questo universo. Ho capito il diritto che il mio intelletto superiore mi conferisce. Sonic the hedgehog o chi per lui può continuare per tutto il tempo che vuole la sua ridicola opposizione… ma lo so che alla fine uscirò trionfante io.
Io sono Eggman! E questo nessuno potrà mai cambiarlo!

 
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VOTO: (3 voti, 4 commenti)
 
COMMENTI:
Trovati 4 commenti
lollydoremi97 - Voto: 14/08/11 23:24
stupendo non vedo l'ora di leggere gli altri capitoli anche se parlava quasi sempre di eggman ma non importa comunque w sonic w amy i love SONICxAMY=SONAMY ;D :D ^-^ ^///^
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matricola - Voto: 22/02/11 15:47
mi è piaciuto moltissimo...non vedo l'ora di leggere gli altri capitoli!
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sonsierey 21/02/11 22:08
Ma è maraviglioso!!! Il rapporto tra il piccolo Julian e suo nonno è davvero commovente. Sono ansiosa di leggere le altre storie, bravo!
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shadow-hedgehog - Voto: 21/02/11 19:16
Bello il capitolo sul Doc! Ottima la pensata del dispositivo che lo porta su Mobius, peccato che così facendo hai dovuto tenere per buona la versione di Sonic X... ma va beh. Resta comunque una fantastica idea ^^
Fenomenali i nomi che il piccolo Julian appioppava alla madre. Oddio che cattiveria XD
Uhmmm... come al solito, è un commento stitico, lo so ma... non riesco a scrivere di più ç_ç Tanto so già che ti commenterò meglio via skype XD
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