torna al menù Fanfic
torna indietro

MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: "E GUARDO IL MARE"
Genere: Drammatico
Rating: Per Tutte le età
Avviso: One Shot
Autore: amber94 galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 10/02/2010 16:26:54

Una ragazza, in riva al mare, con un maglione vecchio e rosa e Converse rosse. Una lettera. Un male incurabile. [...]Caro Ghigo.
 
Condividi su FacebookCondividi per Email
Salva nei Preferiti
   
//
- Capitolo 1° -

N/A: fanfiction pubblicata anche su EFP, sotto il nick Jerry. A scanso di accuse.

E guardo il mare



Onde.
L’acqua si infrangeva sugli scogli, con forza. Era un miscuglio di blu scuro e bianco sporco, c’era tanta spuma, e la marea era alta: le onde si arrampicavano rabbiosamente, si accavallavano una sull’altra, in una sorta di gara senza senso per la conquista di un tratto di rena asciutto. Lei le guardava, assorta, tormentando un filo sfuggito alla lana del maglione pesante. Così lo rovini, le sembrava di sentire la voce di sua madre, da qualche parte, ma in quel momento non le importava, era solo un vecchio maglione di un rosa stinto e lei lo aveva sempre odiato.
Cominciò a costruire montagnelle di sabbia muovendo il piede destro, i minuscoli granelli le entravano nelle Converse rosse, dandole fastidio. Il suo linguaggio del corpo tradiva agitazione, guardava davanti a se’, malinconica ed insoddisfatta.
Com’era arrabbiato il suo mare, com’era triste; sembrava quasi a lutto, di un lutto velato da un rancore.
Era agitato, il suo mare, agitato e nervoso come lei, che in più aveva anche paura. Era corsa là in cerca di un calmante, magari di acque placide e tranquille che riuscissero ad infonderle un po’ di coraggio, di serenità; e invece, davanti agli occhi non aveva altro che la trasposizione del suo stesso stato d’animo. Le sembrava quasi di stare davanti ad uno specchio, e la cosa la irritava, poiché negli ultimi giorni gli specchi aveva cercato accuratamente di evitarli e non era giusto, accidenti, che si sentisse così a disagio, non nel posto dove aveva corso da bambina e passato tutte le estati più felici della sua vita, il posto dove a nove anni aveva creduto di vedere una sirena e dove aveva dato il suo primo bacio. Del resto, chi era lei per comandare qualcosa di simile? Sapeva che logicamente era impossibile trovare un mare calmo il quindici Febbraio, in pieno inverno, ma si sentiva in qualche modo delusa, tradita. Si passò una mano sul volto, frustrata. Soffiava una brezza leggera che le solleticava la nuca, facendola rabbrividire.
Prenderai freddo. Eccola, di nuovo la voce di sua madre. La scacciò con uno scatto del viso, perché un altro dei motivi per cui era lì, era proprio per dimenticare sua madre; così come suo padre, i suoi zii, perfino i suoi amici. Tutto.
Ed eccola là, sola in riva al mare, con il maglione rosa che faceva a pugni con il rosso delle scarpe e i jeans ormai irrimediabilmente rovinati. Doveva fare pena.
Tirò su con il naso, ma rimase con gli occhi asciutti. Non era quello il momento di piangere. Si era ripromessa di non farlo, di essere forte. Era lì anche per questo: per infondersi forza. Afferrò qualcosa alla sua destra, una sorta di taccuino con una matita infilata per tenere il segno ad una pagina bianca. La mordicchiò, incrociando le gambe, fissando le righe ancora vuote.
Una lettera. A chi? A suo padre, sua madre? A Stefania, Lucia, le sue migliori amiche? Alla sua professoressa d’italiano, la sua preferita?
Scosse la testa, indecisa. Fece scorrere lo sguardo sulla rena che la circondava, prendendo tempo, scrutando ogni linea, ogni ramo. Chissà se c’erano siringhe da qualche parte, in fondo era inverno, la spiaggia era abbandonata. Avrebbe potuto prendersi l’AIDS? Ma il timore non la sfiorava nemmeno, quel pensiero riposava ozioso nella sua mente, innocuo.
Chi?
Si bloccò di scatto, folgorata da un lampo, un frammento, un nome. Strinse la matita con nuova forza, cominciando a scrivere. Ogni lettera veniva fuori con fatica, aveva le dita contratte e le nocche bianche per lo sforzo.

Caro Ghigo.

Lo fissò, poco convinta. Cancellò tutto con la gommina che si trovava in fondo alla matita, perché caro non era un aggettivo adatto a Ghigo. Al massimo maledetto, bastardo. Amato. Sbuffò, nel pensare a quest’ultimo aggettivo. Rimase combattuta per qualche secondo, incerta, già bloccata a nemmeno due parole dall’inizio. Alla fine, optò per un semplice “Ghigo”.

Ghigo,
non so nemmeno perché ti sto scrivendo questa lettera, proprio a te, che pensavo di essere riuscita a cancellare una volta per tutte. Ci avevo messo tanta cura, avevo smantellato il tuo ricordo con una certa abilità, direi, senza tralasciare nulla, nessun dettaglio, nessuna parola, eppure rieccoti qua, proprio quando non ci dovresti essere. Del resto, è sempre stata una tua abilità, capitare al momento sbagliato nel posto sbagliato. Soprattutto il posto.
Ecco, già ti vedo ridere. Smettila di sogghignare, razza di bastardo che non sei altro. Non sono più un’illusa, sai? Anche se so che non mi credi, se te lo dico.
E forse hai ragione, Ghigo, perché dopo tutto io vivevo ancora sulle nuvole, come dicevi tu. Solo che all’improvviso si è fatta una voragine, e io sono caduta giù. Le ali non ce le avevo, sai, ero così sicura sulla mia nuvola che non mi ero disturbata a prepararle.
È per questo che sono qui.


Alzò lo sguardo, gli occhi opachi, persi nei ricordi. Il mare continuava a ruggire davanti a lei, cominciava a gonfiarsi, sotto effetto della marea; ben presto si sarebbe mangiato la spiaggia, i sassi, i rami, le siringhe e anche lei, se non si fosse spostata. Ma non se ne accorgeva; pensava alla prima volta che aveva visto Ghigo.
Lei aveva tredici anni e lui diciassette. Era sera; se ne stava appoggiata ad uno dei muretti che costeggiavano il lungomare, con indosso ancora il costume e un pareo leggero con un fantasia a fiori; lui le era apparso accanto all’improvviso, come un angelo o un fantasma, tanto che lei si era addirittura spaventata, lo aveva fissato con due occhi che dovevano farla sembrare la brutta copia di Bambi.
“Sigaretta?” aveva biascicato lui, senza nemmeno guardarla in viso. Lei era rimasta a bocca aperta, anche perché sapeva di dimostrare sì e no dodici anni, fatto di cui si era crucciata spesso e anche parecchio. E adesso arrivava là quella specie di centauro, infagottato in un giubbino di pelle, in pieno agosto, con un’aria da sono-bello-stronzo-e-maledetto e le offriva una sigaretta.
“N… non fumo” aveva sussurrato, fissandosi le mani poggiate sul muretto, imbarazzata. Un attimo dopo aveva alzato lo sguardo, timorosa, emozionata, ma lui era già sparito.

Già allora avrei dovuto capire che eri nato per deludere. Mi avevano fatto paura i tuoi occhi, Ghigo, perché erano azzurri e intanto la cenere avrebbe avuto più vita. Quando te lo dicevo, tu mi ridevi in faccia, dicevi che non sapevo fare altro che dire cazzate. Ma io rimanevo seria, Ghigo. E tu a volte andavi in bestia, per questo.
Ho continuato ad incontrarti tutte le estati. Da quella volta della sigaretta, mi limitavo a guardarti da lontano, chiedendomi se ti ricordavi di me. Sospiravo, ero così idiota. Pensavo che tu potessi essere come una sorta di angelo maledetto, e io la tua salvatrice, quella che ti avrebbe potuto insegnare ad amare, a migliorare.
Già sapevo che ti drogavi, Ghigo. Ma ero già accecata, persa, determinata a trovare in te una luce che non c’era.
Io ti divertivo, perché ero un’illusa. Me lo dicesti chiaro e tondo. Non abbiamo parlato molte volte, Ghigo, probabilmente le nostre conversazioni non saranno state più di una decina. Ma mi sembrava di conoscerti da una vita, di aver capito chi fossi, cosa volessi.
Illusa. Avevi proprio ragione, Ghigo.


Stranamente, non stava piangendo. Solitamente, il pensiero di lui bastava a farle venire gli occhi lucidi; ma ora perfino quel tempo le sembrava lontano.
Erano quasi dieci mesi che non lo vedeva. Un tempo così lungo. L’ultimo giorno della sua ultima estate felice, mentre lei era sola a quello stesso muretto dove le aveva offerto quella Camel, lui era arrivato all’improvviso, con il suo giubbotto di pelle a nascondere i buchi sulle braccia, l’espressione spenta. Per la prima volta della sua vita, l’aveva salutata.
“Ciao”.
E lei, per tutta risposta, lo aveva baciato.

Quando partii, nemmeno due giorni dopo, per arrivare a casa, ero ancora sotto shock. Era come l’infrangersi di qualcosa, delle mie certezze, di tutto. Quell’anno mi ero quasi rassegnata, ero pronta a lasciarti. Mi avevi ignorata un’estate intera, senza pietà, ma poi ti presentasti là da perfetto stronzo quale eri, per salutarmi.
Non fu un inizio, lo sapevo già. Era una fine. Perché quello era davvero l’ultimo giorno d’estate, e non ce ne sarebbero stati più.
Sembravi così indifferente, quando mi dicesti addio. Avevi lo stesso tono di sempre, lo stesso con cui mi avevi salutato. Io no.
Io avevo la voce rotta e per quello mi odiai. Ero sicura che ti saresti di nuovo messo a ridere, a canzonarmi. Ma non lo facesti, Ghigo, rimanesti serio e io ancora oggi ho paura a domandarmi il perché.
Un attimo prima che tu ti voltassi e mi lasciassi sola, di nuovo, a me parve per la prima volta di poter scorgere qualcosa nei tuoi occhi. Fu un attimo, una scintilla, pensai per un momento che fosse quella luce che avevo cercato per tanto tempo, stupidamente; stavo quasi per chiamarti, accorata; ma poi sparisti, e io realizzai che era stato solo uno scherzo giocatomi dall’ultimo barlume di illusione che avevo conservato.
Ti avevo perso senza averti mai trovato veramente.

Ormai l’acqua stava per bagnare le punte delle sue Converse. Stava stringendo la matita con tanta forza che temeva quella o la sua mano si sarebbero spezzate, eppure non riusciva ad allentare la presa. Dovette staccare le dita piano, sforzandosi di riprendere del tutto il controllo su se stessa e sul suo corpo, teso come una corda, irrigidito dal vento e dallo sforzo di mantenere gli occhi asciutti. Si alzò a fatica, quasi inciampò, aveva le gambe indolenzite per essere stata ferma tanto tempo; si portò lontano dall’acqua, rimanendo con lo sguardo fisso sul mare. Quando si risedette, aveva lo sguardo deciso, ma le mani le tremavano.
Era venuta fin lì per trovare la forza, si era ridotta a passare in rassegna le proprie debolezze. Ma la parte più difficile doveva ancora venire, e in quel momento lei si riscoprì ad avere paura, una sensazione di vuoto allo stomaco. Aveva la nausea e respirava troppo in fretta, ma era decisa, e riprese in mano quella matita. La gomma sulla punta si era quasi consumata, il foglio era pieno di cancellature e in un paio di punti la carta era perfino forata.

Ti starai domandando come mai sono venuta ancora una volta a rimescolare ricordi che fanno solo male, ma mi spiace deluderti, perché non lo so nemmeno io. Forse è puro masochismo, o forse non sono mai veramente cambiata.
Quest’anno, verso novembre, mentre facevo gli esercizi con la trave a scuola, sono caduta. Il ginocchio ha semplicemente ceduto, tutto d’un tratto; mi faceva male, un male cane, ma l’infermiera non è riuscita a trovare nulla, nemmeno un ematoma, un graffio, qualcosa. Mi ha dato una pomata per gli strappi muscolari, che ha smesso di fare effetto in una settimana.
Sono caduta la lezione dopo, e quella dopo ancora. Quando i miei mi hanno portata dal medico, lui ha semplicemente scosso la testa. Disse che non c’era niente da preoccuparsi, ma davvero niente –e lo ha ripetuto più volte davanti ai miei- però, giusto per sicurezza, era meglio che mi facessi qualche esame.

Si bloccò, chiuse gli occhi per un attimo prima di continuare.

Ho un cancro, Ghigo. Nella gamba sinistra, più o meno dov’è il ginocchio. Una massa informe e opaca, che è saltata fuori alla terza lastra.
Non mi sembrava nemmeno vero. E non lo sembrava nemmeno ai miei. Mia madre ha cacciato fuori un urlo che ha fatto voltare mezzo ospedale. Ha sempre avuto i nervi fragili, la mamma, quello forte è papà. Però nemmeno lui si è mosso, in quel momento, fissava un punto nel pavimento, incredulo. Sono andata io, le ho preso il braccio e le ho detto che non era niente, sarebbe andato tutto bene.
Che cazzata, Ghigo.
Non lo so, se è curabile. Il medico ci dice di essere ottimisti, che la chemioterapia spesso porta a risultati inimmaginabili, alla guarigione. Io penso a tutti quei film sul cancro, dove la maggior parte dei protagonisti muore. Quando il medico parla, io mi limito a stare in silenzio.
Il primo ciclo di chemioterapia comincia lunedì. Domani. Ho chiesto ai miei di venire qui, nel week end, perché speravo di riuscire a trovare l’energia necessaria per me, e anche per loro. Non hanno osato negarmelo, non lo ammetterebbero mai, ma so che pensano a quanti desideri mi restano ancora da esprimere. E ci penso anche io, Ghigo. Spesso.
Ti ho scritto una lettera che saranno sì e no quindici pagine di taccuino, come minimo. Sarebbe anche uno sforzo inutile, visto che tu odi leggere. Ma ne avevo bisogno.
Ho davanti a me il ricordo della tua faccia, Ghigo, dei tuoi occhi. Non voglio che i miei si spengano. Non verrò qui, quest’estate, ma so che sentirò sulla pelle ogni giorno, fino alla fine.
Ho davanti a me il ricordo dei tuoi occhi e la certezza che saprò essere forte, Ghigo, anche grazie a te. Ti sembro melodrammatica, lo so, ma ti sbagli. Ormai, so quali sono i miei errori, e le mie debolezze; e sono infinitamente maggiori delle mie certezze.
Oggi ho voluto fermarmi qui, fissare un ricordo, prima che i capelli mi cadano per via della chemio, prima che i medici comincino a trafficare con tutti quei macchinari, prima di cominciare a combattere. Lascio la parte migliore di me qui, vicino l’acqua, perché voglio tornare a prendermela, quando e se guarirò.
Domani sarò lontana, avrò gli occhi fissi sulle lastre, sulle radiografie, sulle analisi.
Ma oggi sono ancora qui. E guardo il mare.

Con affetto,
Giulia



Il vento era più forte di prima. E forse era un bene, perché le asciugava le lacrime che alla fine erano cadute, nonostante tutto. Avevano bagnato l’ultimo foglio, sbavando lievemente l’inchiostro, ma non molto, per fortuna. Giulia si alzò lentamente, ma stavolta senza esitazioni. Si tolse la sabbia dai jeans con la mano sinistra, si sistemò il taccuino in tasca, con la matita a tenere il segno. Nella mano destra, diciassette fogli di taccuino, piegati in quattro. Li fissò, e quando una lacrima cominciò a scendere dagli occhi arrossati non tentò di fermarla.
Era una lacrima liberatoria, una lacrima coraggiosa, e ne poteva andare fiera. Sorrise, rimpiangendo di non avere nemmeno un Kleenex. Si avvicinò al mare-non dovette camminare molto, ormai c’era l’alta marea- e lì si fermò. Gettò un’ultima, lunga occhiata intorno a sé, abbracciando più spazio possibile, dedicando qualche secondo in più a quei foglietti che aveva messo in una sorta di busta creata con un origami improvvisato, imparato forse alle elementari. Il vento soffiava forte, e quando lo lasciò andare ghermì immediatamente quel sacchetto leggero, facendolo rimanere in aria per attimi infiniti, prima di depositarlo nell’abbraccio del mare.
Giulia sorrise di nuovo, si voltò e cominciò a camminare.

 
  » Segnala questa fanfic se non rispetta il regolamento del sito
 


VOTO: (0 voti, 0 commenti)
 
COMMENTI:
NON CI SONO ANCORA COMMENTI, SCRIVI IL PRIMO! ^__-
 
SCRIVI IL TUO COMMENTO:

Utente:
Password:
Registrati -Password dimenticata?
Solo su questo capitolo Generale sulla Fanfic
Commento:
Il tuo voto: