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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: BIANCO
Genere: Sentimentale, Romantico, Drammatico, Song-fic
Rating: Per Tutte le età
Autore: kuda76 galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 21/12/2009 00:36:30 (ultimo inserimento: 15/01/10)

La storia d'amore fra due giovani ragazzi...una studentessa di Firenze e un universitario di Roma, un amore e una battaglia contro il virus dell'HIV
 
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QUELL'AEREO PER LONDRA
- Capitolo 1° -

Capitolo 1- Quell’aereo per Londra

Alzai gli occhi dal mio biglietto per controllare il tabellone degli arrivi e delle partenze, che sovrastava l’aeroporto. Improvvisamente, una delle numerose scritte che lo occupava mutò in maniera radicale, trasformando l’annuncio della partenza di un aereo per Tokyo nella comunicazione dell’arrivo del volo diretto all’Heathrow Airport di Londra.
Mi passai distrattamente una mano fra i miei capelli neri e sospirai; non era raro che gli aerei arrivassero in ritardo, all’aeroporto di Firenze come in qualsiasi altra parte del mondo, ma non faticavo mai a nascondere quanto questo, talvolta, potesse darmi sinceramente fastidio.
Avvertii una mano che mi si posava sulla spalla e volsi la testa istintivamente. Le dita che mi stavano stringendo gentilmente appartenevano alla mia migliore amica, Sara.
“Tutto bene?” La sua voce mi giunse come da molto lontano.
Non sapevo spiegarmi perché, ma in quel momento ero del tutto assente. Come in un’altra dimensione. Annuii leggermente e mi sforzai di sorriderle, malgrado non avessi alcuna voglia di farlo: ero troppo di cattivo umore.
“Sei sicura?” insisté Sara, senza togliere la mano dalla mia spalla “Mi sembri piuttosto strana”.
Sospirai nuovamente e guardai l’ora con impazienza; erano quasi le dieci del mattino.
“Non preoccuparti cara, sto bene” risposi infine “È solo che non ho dormito molto bene, stanotte”.
Sara alzò un sopracciglio; mi conosceva decisamente troppo bene per bersi una balla del genere.
“Alessia, non raccontarmi storie” mi intimò con decisione “Tu hai un problema, non cercare di nascondermelo!”.
Ridacchiai sommessamente e scossi la testa. Volevo un gran bene a Sara; era la mia migliore amica fin dalla prima elementare, e da allora io e lei avevamo condiviso ogni singolo momento delle nostre vite, da quelli apparentemene più insignificanti a quelli fondamentali per entrambe. Era la mia più grande confidente e il mio punto di riferimento; mi bastava pensare al fatto che non avevo mai dimenticato i nostri patti di sangue fatti con le penne rosse o con gli smarties, che ci eravamo scambiate in seconda elementare nel cortile della scuola, o i pigiama party delle medie in cui barcollavamo per la sua camera da letto, brille unicamente di Coca-Cola.
Ciò non toglieva che il mio ‘passerotto biondo’, come mi piaceva chiamarla a volte per innervosirla, aveva una certa propensione per il melodrammatico.
Alzai gli occhi al cielo e ruppi il contatto fra me e lei, mentre ero concentrata nel sistemarmi meglio lo zaino sulle spalle.
“Te l’ho detto Sara, è tutto a posto. Se proprio vuoi saperlo, sono nervosa per il ritardo dell’aereo, ma niente di più” replicai distrattamente.
Sara si pose le mani sui fianchi, sbuffando.
“Sei impossibile, lo sai?” esclamò.
Risi e le scompigliai la frangia.
“E come potrei dimenticarmelo? Me lo ripeti almeno dieci volte al giorno!” le dissi sorridendo “A proposito, sai dov’è Bella?”.
“Mi ha chiamato poco fa: ha detto che c’era un traffico bestiale, per strada, e che avrebbe fatto un po’ di ritardo” affermò lei, guardandosi intorno ansiosamente “Speriamo che non sia uno dei suoi soliti ritardi mostruosi, o perderà l’aereo! E non credo che sia il modo migliore per cominciare questo viaggio…”.
“Forse, tanto varrebbe non iniziarlo nemmeno” mormorai a mezza bocca, ma non abbastanza piano per non farmi udire da Sara.
La mia migliore amica mi lanciò un’occhiataccia, a sopracciglia aggrottate.
“Che c’è?!” sbottai sulla difensiva “L’ho sempre detto che non era una buona idea!”.
“Accidenti Alessia, ma perché fai così? Dalla tua faccia, sembra che tu stia andando al patibolo! Nel caso tu non te ne fossi accorta, noi stiamo andando a Nottingham! A Nottingham, chiaro? Non capita tutti i giorni di fare una vacanza del genere senza genitori fra i piedi, e faremmo meglio a godercela, prima che inizi lo strazio degli esami di maturità del prossimo anno scolastico!”.
Distolsi lo sguardo e non le risposi. Effettivamente, Sara aveva ragione. Quel viaggio rappresentava una delle occasioni che mi si presentavano per stare lontana da casa, per avere il mio spazio e per divertirmi con le mie amiche senza freni inibitori, praticamente il sogno di qualunque adolescente…ma proprio perché ero tale, mi rendevo conto che il desiderio di fuggire da una famiglia soffocante e carica di attenzioni eccessive nei tuoi confronti, si presentava unicamente quando ne avevi una. E non era certo il mio caso.
Dal momento che ero figlia unica, e che mia madre era morta quando avevo solo quattro anni, avevo trascorso la mia infanzia e la mia intera adolescenza da sola con mio padre. Ma non potevo propriamente descriverla come un’esperienza divertente.
Mio padre era il proprietario di una grande e famosa azienda farmaceutica di Firenze, la ‘Serafini and Serafini’, che gestiva insieme a mio zio Paolo. Era un uomo d’affari piuttosto potente e influente, indossava sempre dei completi giacca e cravatta e fumava in continuazione. A forza di stare a contatto con lui, anch’io avevo finito per cominciare, quasi per attirare la sua attenzione rendendomi simile a lui. All’inizio, mi aveva fatto veramente schifo, ma penso che la prima volta sia così per tutti. Fumavo da quando avevo circa quattordici anni, e ormai ci avevo fatto l’abitudine; inoltre, non avevo alcuna intenzione di smettere, malgrado tutti i rimproveri di Sara e Bella. Ormai faceva parte di quello che ero, e non mi importava dei danni ai polmoni o cose del genere.
In ogni caso, mio padre non se n’era mai accorto, nonostante avessi cominciato a puzzare come una ciminiera e avessi spesso le dita sporche di nicotina gialla: sicuramente, anche all’epoca era troppo preoccupato dei profitti del suo ultimo farmaco per interessarsi a me e alla mia vita.
In tutti quegli anni in cui avevo vissuto con lui, si era preoccupato di mantenermi economicamente, mi aveva dato una casa, del cibo, dei vestiti, un’ istruzione che a suo giudizio era corretta e tutto il corredo necessario per potermi vantare in circolazione di essere sua figlia. Peccato non si fosse mai reso conto che di questo non mi importava niente.
Avrei semplicemente voluto un padre che mi rimboccasse le coperte prima di andare a dormire, che mi leggesse le favole, che mi preparasse gli spaghetti alla carbonara la domenica e che mi portasse al parco dopo la scuola; invece ho avuto un uomo d’affari che mi faceva recapitare un mazzo di fiori a scuola, tramite la sua segretaria, ogni compleanno.
Non dico che fosse un uomo meschino o cattivo: era semplicemente incapace di parlare di qualcos’altro che non fossero i suoi affari o la sua società. Dopo la morte di mia madre, si chiuse in un rigido silenzio, ergendo un muro fra lui e me, e non si rese mai conto di quanto io avessi bisogno di lui. Forse prima di allora era stato un uomo solare e allegro, ma io non potevo ricordarmelo: ero solo una bambina. Tutti dicevano che gli somigliavo molto, ma io sapevo che non era vero; forse avevo preso da lui i suoi occhi castani, o le fossette sulle guance, o magari il modo di camminare, ma non gli assomigliavo per niente. Lui era spento, freddo, senza vita. Io ero piena di vitalità, di progetti e di sogni, e sapevo che non gli avrei permesso, con la sua apatia, di metterli da parte in alcun modo. Volevo bene a mio padre, ma sapevo che aveva fallito. E per questo ce l’avevo con lui.
Per quanto riguardava, invece, il suo fratello gemello, Paolo, dopo diciassette anni non sapevo ancora con certezza che idea farmi di lui. Al contrario di ciò che era diventato mio padre, era una persona ridanciana e gioviale, che amava le feste e soprattutto il vino, e che si avviava già a celebrare il suo quarto matrimonio; con me era sempre stato gentile e affettuoso, ma talvolta riusciva anche a ispirarmi un senso di inspiegabile repulsione, che poteva forse essere legata alla scarsa considerazione che aveva per le donne e per quello che faceva con loro.
Comunque sia, non potevo dare a lui la colpa, se mio padre aveva deciso di spedirmi in un altro Paese per tre settimane; sapevo il motivo per cui aveva insistito così tanto per farmi accettare la sua proposta di visitare l’Inghilterra, tramite il viaggio che la scuola ci offriva ogni anno, previo pagamento. Aveva semplicemente bisogno di una casa libera, vuota e tutta per lui, in modo da poter lavorare meglio. Tutto questo era piuttosto bizzarro, visto che trascorreva tutto il suo tempo in ufficio, e quando era costretto a venire a casa si rintanava nel suo studio privato, ma ormai sapevo che mio padre aveva delle piccole manie, come la convinzione che si sarebbe sempre concentrato meglio, se io non ero a casa, e così non feci domande.
“Ti divertirai, vedrai” mi aveva detto papà, con il suo solito tono incolore e il suo sorriso spento “Passerai tre settimane con molti ragazzi della tua età, e farai molte nuove amicizie. In più, hai un’ottima occasione per imparare meglio l’inglese; dopo quest’estate, avrai la maturità, e dovrai concentrarti prettamente sul programma scolastico. Sarà un’occasione per allargare i tuoi orizzonti”.
Era ironico che mio padre parlasse di orizzonti, quando non ne aveva mai visto uno in vita sua, salvo quello che andava dallo schermo del suo computer alla parte opposta del suo studio, ma non mi importava.
Fortunatamente, Bella e Sara avevano ricevuto l’autorizzazione per partecipare alla vacanza studio, e avremo avuto l’occasione di trascorrere quel periodo estivo tutte insieme. Altrimenti, la noia sarebbe stata totale.
L’arrivo di Bella mi distolse dai miei pensieri.
“Finalmente!” sbottò Sara, mettendosi le mani sui fianchi “Si può sapere che cosa stavi facendo? L’aereo è appena atterrato, partiamo fra meno di venti minuti, e devi ancora portare i bagagli al check-in!”.
Bella si piegò in due per riprendere fiato, i lunghi capelli castani che le cadevano davanti al volto. Aveva il fiato corto, e il fatto di aver trascinato il suo trolley per tutto il percorso dal parcheggio dell’aeroporto alla sala d’attesa dove il nostro gruppo si trovava, non sembrava aver migliorato la situazione.
Quando rialzò la testa, ci lanciò un’occhiata colpevole e fece un sorrisetto di circostanza.
“Ehm…diciamo che abbiamo avuto qualche piccolo problema con la partenza da casa, stamattina…” ammise lentamente.
La fissamo entrambe con aria stranita. Succedeva molto frequentemente che Isabella arrivasse in ritardo, sia perché era una persona estremamente distratta e disordinata, sia perché pareva aver preso queste doti dai suoi pazzi genitori. Ma quella era una giornata che richiedeva la massima puntualità.
“Dove sono i tuoi?” le chiesi, senza potermi trattenere dallo spolverarle istintivamente la giacca dimessa che indossava.
“Stanno parlando con la prof” rispose Bella, accennando col capo verso un punto imprecisato alle sue spalle. Sporsi la testa per vedere meglio; la ‘regina di Lochness’, ossia quell’essere vivente non ancora classificato che poi ci fungeva anche da insegnante d’inglese, stava parlando coi genitori di Bella. Non era difficile capire il perché tutti i presenti nell’aeroporto li fissassero a bocca aperta, mentre passavano. I signori Angiolieri erano senza dubbio i personaggi più bizzarri e strambi di Firenze, almeno secondo le concezioni della ‘buona e snob’ società fiorentina.
Quel giorno, Artemisia Angiolieri, la madre di Bella, indossava un variopinto vestito, provvisto di un motivo floreale, e un cappello di paglia decorato con tulipani e con…carciofi. Credo che ciò fosse dovuto al fatto che, da tempi remoti, tutti i suoi antenati ritenevano che quella pianta fosse in grado di tenere lontane molte malattie.
Giuseppe Angiolieri, invece, portava un paio di pantaloni rosso fuoco e una maglietta a maniche corte viola scuro; i suoi sandali da frate attiravano molti sguardi di disapprovazione, ma lui pareva non farci caso. La sua filosofia di vita gli permetteva di condurre un’esistenza tranquilla e priva del peso del giudizio altrui, semplicemente perché si era abituato a non far caso a quello che la gente diceva. Lui e sua moglie gestivano un ristorante di cucina indiana, ed entrambi praticavano yoga. Molti li consideravano semplicemente come degli svitati, ma tutte noi li adoravamo, e spesso e volentieri mi ero ritrovata a invidiare Bella per la sua fortuna; per la famiglia amorevole e attenta in cui era nata.
Bella si affrettò a legarsi i lunghi capelli, che detestava portare sciolti, in un’alta coda di cavallo.
“E voi due? I vostri ‘vecchi’ hanno già tagliato la corda?” ci chiese con fare scherzoso.
Io e Sara annuimmo.
“Da più di mezz’ora, ormai” aggiunse Sara. Le sue mani affusolate corsero a controllare, per l’ennesima volta, che la cerniera della sua borsa fosse chiusa a dovere.
Già, infatti. I suoi genitori se n’erano andati dopo trenta minuti di raccomandazioni, abbracci, divieti e auguri, mentre il mio era rimasto così a lungo solamente perché il taxi che aveva chiamato era in un mostruoso ritardo; in fondo, la sua macchina era ancora dal meccanico.
Poco prima di andarsene, papà aveva stretto la mano della professoressa e mi aveva fatto una carezza sulla fronte, senza guardarmi; poi si era avviato verso l’uscita dell’aeroporto, estraendo il cellulare dalla tasca della sua giacca e rispondendo con riflessi felini.
D’un tratto, anche Isabella sembrò notare il mio malumore; i suoi occhi neri parvero, per un istante, trapassarmi da parte a parte.
“Che ti succede, Ale? Mi sembri strana”.
Aprii bocca per replicare, ma Sara non me ne diede il tempo.
“Lascia perdere Bella, ci ho già provato. Oggi non è proprio aria” affermò, con l’aria di chi la sapeva lunga.
Decisi che probabilmente aveva ragione, ed estrassi dalla tasca un pacchetto di sigarette. Istantaneamente, le mie amiche iniziarono a lanciarmi delle occhiate taglienti.
“Non ricominciate!” esclamai. Mi accesi una sigaretta con indifferenza.
“Potresti almeno evitare di farlo nei luoghi pubblici!”. Sara indicò impaziente un cartello di divieto nelle vicinanze. Mi guardai intorno, notando che vicino a noi c’erano un sacco di signore eleganti, di uomini d’affari e di giovani della nostra età: quasi tutti loro tenevano stretta fra due dita una cicca accesa. Avendo seguito il mio sguardo, Sara si accorse di non avere molti punti a suo favore, con quell’argomentazione.
“D’accordo! Allora, pensa al fatto che stai facendo del male ai tuoi polmoni! E anche a quelli di qualcun altro! Mai sentito parlare di fumo passivo? Vuoi che io e Bella ci becchiamo un bel tumore?”.
Risi e gettai la sigaretta a terra.
“Non pensate che questo basti a tenermi lontano dalle sigarette per tutta la vacanza! È solo che devo sopportarvi per tutto il volo, visto che saremo vicine di posto sull’aereo!” dissi. Calpestai il mozzicone per spegnerlo e presi le mie amiche sottobraccio “E comunque, dovete stare tranquille, sono stata chiara? Tranquille! Non ho intenzione di rovinare il nostro soggiorno in Inghilterra con il mio malumore! Vedrete, il nostro viaggio all’estero sarà indimenticabile!”.
“Oh, lo spero per te!” ridacchiò Bella.
“Già, perché dopo questa promessa ti sei ufficialmente impegnata a renderlo tale, e se per caso qualcosa dovesse andare storto, sappi che daremo la colpa a te!” rincarò la dose Sara.
“Ah, ma fatemi il piacere!!”.
Senza cancellare la nostra allegria, a un cenno della regina di Lochness prendemmo i nostri bagagli e ci avviammo verso ‘il tubo volante’, (appellativo con cui il padre di Bella definiva frequentemente gli aerei); Bella e Sara chiacchierarono per tutto il tragitto di cibo inglese, di musei inglesi, di discoteche inglesi e di ragazzi inglesi, ma ascoltai la loro conversazione solo in parte.
Per esperienza, sapevo che il cibo e i musei inglesi erano pietosi, che detestavo ogni sorta di discoteca e che i ragazzi protagonisti di una vacanza studio non avevano molto altro in mente, a parte i locali, l’alcool e il sesso gratuito.
E poi, avevo già un fidanzato.
Io e Gabriele stavamo insieme da più di tre mesi, e le cose fra noi andavano bene. Lui era intelligente e sensibile, e nei giorni precedenti la mia partenza mi aveva inondato di telefonate, sms ed e-mail. Avevamo trascorso il giorno precedente insieme, e mi ero divertita un sacco, con lui.
Aveva la capacità di farmi ridere e di riempirmi di complimenti, doti che apprezzavo molto. Ma nonostante questo, non ero sicura di sentirmi davvero felice.
Comunque, non mi ne importava molto neppure di questo: preferivo continuare a uscire con Gabriele, piuttosto che rintanarmi in casa il sabato sera o farmi abbordare dal primo ubriaco che trovavo per la strada. Volevo bene a quel ragazzo, e mi bastava.
Avevo lui, avevo le mie migliori amiche, e in quel modo riuscivo a colmare il vuoto che mio padre aveva lentamente creato intorno a me, per degli anni interi.
Mentre salivo su quell’aereo, cercai di pensare che forse papà aveva ragione: forse stare lontana per un po’ mi avrebbe fatto bene, dopotutto. Non avevo nessun motivo in particolare per restare, a parte Gabriele, e si sarebbe trattato solo di tre settimane. Al mio ritorno, io e mio padre avremmo ripreso a ignorarci come un tempo, e la mia vita avrebbe ripreso il suo normale corso.
O almeno, così credevo.

Il volo atterrò all’aeroporto di Heathrow con quindici minuti di ritardo, e noi ne impiegammo almeno dieci per svegliare Isabelle, che si era addormentata cinque minuti dopo la nostra partenza.
Quando scendemmo finalmente dall’aereo, ci rendemmo conto che la confusione di un aeroporto londinese andava molto al di là di quello che ci eravamo immaginate. Innanzitutto, era molto più grande di ciò a cui eravamo abituate; la folla al suo interno spaziava attraverso quasi tutte le nazionalità e i continenti del pianeta, e la moltitudine di negozi che ne facevano parte non faceva altro che attirare molte più persone di quanto già non facessero gli aerei in arrivo e in partenza.
Io, Sara e Isabella ci avviammo insieme al resto del nostro gruppo verso il check-in; sorpassammo un gruppo di signore anziane che chiacchieravano fitto fitto in francese, una combriccola di turisti spagnoli e qualche giapponese che scattava furiosamente fotografie a destra e a manca.
Dopo aver trascinato via Isabella dal negozio di dischi e Sara dalla profumeria, riuscimmo finalmente a recuperare i nostri trolley e uscimmo dall’aeroporto a gruppi di tre, secondo le indicazioni della prof.
L’autobos che ci aspettava di fronte all’uscita era blu e a soli due piani; pensai che era contro ogni tradizione anglosassone, ma poi capii che era il mezzo di trasporto che ci avrebbe portati a Nottingham, non un pullman turistico della capitale.
Caricammo nuovamente i bagagli e ripartimmo alla volta del college dove avremmo alloggiato.
Nel bel mezzo del viaggio, avvertii che Bella si stava sollevando leggermente dal suo sedile dietro il mio e quello di Sara, e che si stava sporgendo sopra di noi, le braccia che andavano a circondare le nostre teste.
“Ragazze, questo tragitto in bus è una noia pazzesca!” esclamò. Aveva gli auricolari infissi in profondità nelle orecchie, ma pareva che il suo I-Pod fosse spento, dato che ci sentiva perfettamente.
Sara alzò gli occhi dalla sua rivista e le rivolse un sorrisetto furbo.
“Qual è il problema, Angiolieri? Il suo vicino di posto non è di suo gradimento?” le chiese ironicamente.
Non potei trattenermi dal ridacchiare a mia volta. La povera Bella era capitata a sedere sull’autobus di fianco all’individuo più ottuso e privo di cervello di tutto il nostro liceo.
Si trattava del capitano della squadra di calcio della nostra classe, e spesso ci ritrovavamo a paragonarlo a quei campioni di football dei film americani.
Marco Alessandri era alto, popolare, ricco e anche piuttosto carino, ma i suoi tratti perfetti e il suo sorriso smagliante scomparivano non appena apriva bocca; molti dubitavano che fosse in grado di fare due più due, e fare conversazione con lui era entusiasmante quanto giocare a poker con una vecchia teiera. Ci aveva provato con tutte noi almeno una volta, fin dalla prima superiore, ma chissà per quale astrusa ragione, gli era andata buca in ogni occasione.
In quel momento, il nostro bel soggetto se la stava dormendo della grossa, ma il suo sonno non era privo di una rumorosa e irritante colonna sonora.
Bella alzò gli occhi al cielo e sbuffò pesantemente.
“Non so voi, ma ne ho già piene le scatole! Quando arriviamo?”.
Detti un’occhiata all’orologio.
“Sono appena le quattro. Prima delle sei, non se ne parla neanche”.
Isabella si accasciò contro lo schienale del suo sedile, esasperata.
“Non ci posso credere, ancora due ore di questo mortorio! Ehi Sara, ce l’hai ancora quella rivista con quel test sullo zodiaco?”.
Sara le passò la rivista senza rispondere, intenta com’era a rispondere all’ennesimo messaggio di sua madre.
“Da quando ha imparato a scrivere sms, non mi lascia in pace un secondo! Detesto Lorenzo per averle spiegato come si fa!” sbottò, i corti capelli biondi che parevano quasi ritti sulla sua testa.
Lorenzo era il cugino di Sara, e aveva rappresentato, nel mio immaginario, il grande amore della mia vita fino a poco tempo prima. Non era difficile capire perché: Lorenzo era decisamente il mio tipo. Alto, bruno, riccioluto, provvisto di un bel paio di occhi chiari e di una gran propensione per lo sport; peccato che per lui fossi solo una sorta di sorella minore.
Ma in fondo, mi ero fatta una ragione anche di questo. Certo, scoprire che usciva da parecchio tempo con un’altra ragazza e che il fatto che io e lui potessimo stare insieme non gli aveva mai neppure attraversato l’anticamera del cervello non mi avevano fatto stare bene, anzi…ma l’avevo superata. Soprattutto dopo un quarto d’ora che Sara aveva speso per urlare quanto quasi tutti i suoi parenti fossero degli idioti genetici.
“Perché non spegni quel dannato telefono?” le chiesi, scostando la tenda dal finestrino.
Sara sospirò. “Perché i miei chiamarebbero su quello della prof, e credo che sarebbe peggio”.
Sorrisi lievemente e non dissi niente; avevo appena scoperto che il paesaggio inglese non era poi così male, e che la campagna piovosa e malinconica era magnifica da contemplare. Specialmente quando avevi a disposizione il giusto sottofondo.
Accesi il mio lettore mp3 e mi immersi in una bellissima canzone di un gruppo chiamato Staind, intitolata ‘So Far Away’.
“And now that we’re here, it’s so far away, all the struggle we thought was in vain, and all of mistakes one life contained, they all finally start to go away, and now that we’re here, it’s so far away, and I feel like I can face the day, I can forgive and I’m not ashamed to be the person that I’m today…”.
Chiusi gli occhi e pensai che quella canzone aveva proprio ragione: ti senti come se potessi affrontare la giornata, puoi perdonare e non ti vergogni per niente della persona che sei diventato…è così che ti devi comportare. Tu sei tu…e nessuno può cambiarti. Nessuno. O quasi…

Arrivammo a destinazione verso le sei e trenta. Tutti noi ci alzammo dai nostri posti e prendemmo i nostri bagagli a mano dalle reticelle sovrastanti; eravamo stanchi e anche un po’ affamati, e speravamo di essere arrivati in tempo per la cena, considerato che gli inglesi cenavano più o meno all’ora in cui molti di noi non avevano ancora digerito il pranzo dell’una e un quarto.
Scesi dall’autobus prima di Sara ed Isabella, e lanciai un’occhiata all’edificio che mi si stagliava di fronte. Si trattava di una nuovissima struttura in mattoni rossi, la cui facciata era decorata da elaborati rampicanti di edera; di fronte ad esso, si stagliavano le bandiere del Regno Unito e dell’Europa, oltre che un paio di fontane di marmo e un folto gruppo di aiuole variopinte.
La scritta ‘Hood College’, realizzata in lettere d’oro, splendeva di fronte a noi come se la scuola stesse tentando di rivolgerci un sorriso; a me parve solo una smorfia.
Scossi la testa e cercai di liberarmi dal mio solito pessimismo: dovevo pensare solo a divertirmi. In fondo, era solo una vacanza; che poteva succedere?
Isabella saltò giù dal nostro mezzo di trasporto e prese una grossa boccata d’aria.
“Wow, finalmente! Non ne potevo più di Alessandri e del suo russare insopportabile! Ok Ale, noi prendiamo le valige, vieni?”.
Annuii e decisi di seguirla verso il portabagagli aperto, dove Sara era già intenta a recuperare la sua roba. Un istante dopo, un grosso pullman rosso si fermò proprio a due centimetri dal nostro, facendo alzare numerose proteste; il nostro stesso autista gli lanciò una potente sonata di clacson, ma il suo collega parve non farci molto caso, perché non accennò a spostare l’autobus.
Entro pochi secondi, le portiere di esso si spalancarono, e una folla di ragazzi e ragazze, tutti più o meno della nostra età, si fiondarono in strada accompagnati da un gran caos.
Avvenne allora…non feci neanche in tempo ad accorgermene quando un giovane, di almeno diciott’anni, si aggrappò a una delle sbarre di ferro presenti sul pullman e iniziò a spenzolarsi, per metà dentro e per metà fuori dal mezzo di trasporto. La spinta che gli arrivò addosso decretò il termine del suo passatempo.
Il ragazzo cadde fuori dal pullman e mi piombò addosso, facendomi cadere sopra un consistente numero di valige e spedendomi dritta dritta sul marciapiede del college.
In meno di un minuto, mi ritrovai bloccata al suolo da un robusto torace e da un paio di lunghe gambe snelle; avvertii qualche ciocca di capelli biondi solleticarmi il viso, e un paio di occhi verdi che mi fissavano con un’espressione che non seppi mai decifrare. Era caduto in avanti, e le sue mani erano finite vicino alle mie spalle; capii dopo un paio di secondi che nella caduta le nostre gambe erano praticamente aggrovigliate, ma per un po’ sembrai incapace di districarmi da quella situazione. Il ragazzo continuò a guardarmi come se fossi caduta dal cielo: aveva un viso pallido e uno sguardo furbo che mi ricordava quello di Bella, ma per il resto non somigliava a nessuna persona che avessi mai incontrato. Era diverso. Era strano. Era incredibilmente stupido, ecco cos’era! Mi era appena piombato addosso rischiando di spaccarmi un paio di costole, per l’amor del cielo! Che razza di idiota poteva mai essere?
“Ma si può sapere che cavolo fai?!?” gli urlai in faccia, spingendolo da parte. Lui si rialzò a sedere appoggiandosi ai gomiti, e mi sorrise sfacciatamente.
“Non sembri una con il sangue freddo, eh?” mi disse con aria sfrontata.
Perfetto, faceva pure lo spiritoso! Ci mancava solo che pretendesse anche le mie scuse!
Un gruppetto di studenti che erano appena scesi dal suo autobus venne nella nostra direzione; uno di loro aiutò ‘l’idiota’, come ormai l’avevo già ribattezzato, ad alzarsi, mentre Sara e Isabella facevano lo stesso con me.
“Ehi!!” sbottai nuovamente, notando che aveva ripreso a ridere e a scherzare con i suoi amici come se niente fosse “Che cosa diavolo ti è saltato in testa?! Mi hai fatto prendere un accidente!”.
Lui mi fissò senza cancellare il suo sorrisetto imbecille.
“Beh, mi pare che tu sia tutta intera, giusto?”.
“Non è questo il punto! Sei proprio un idiota!!” gli dissi, massaggiandomi il gomito graffiato.
Un tipo del suo gruppo si passò una mano dietro il collo con aria colpevole.
“Scusalo, è un povero scemo” ammise.
Il mio ‘aggressore’ gli tirò una bottarella sul braccio.
“Scemo sarai tu, Volpe!” ribatté. Si passò una mano fra i capelli biondi, che gli arrivavano a circa metà del collo. Ecco un altro motivo per odiarlo: per quale stramaledetta ragione un maschio doveva portare i capelli così lunghi?! Era assolutamente privo di senso!
“In ogni caso” Il suo amico si fece avanti verso di noi, seguito da lui e dagli altri due membri del loro gruppetto “Io sono Giacomo. Giacomo Volpe. E loro sono Pierre, Luca e Andrea”. Nel fare l’ultimo nome, accennò al biondo che mi era venuto addosso.
Bella e Sara strinsero la mano a tutti loro, ma accolsero quella di Andrea con un po’ più di freddezza.
“Io sono Bella” disse la suddetta, sorridendo “E loro sono Sara e Alessia”.
“Alessia, eh?” Voltai lo sguardo, furente, verso quella voce che già detestavo “Un nome tempestoso, non ti pare?”.
Sbuffai, disgustata.
“Come se me lo fossi scelto da sola…” borbottai.
Prima che potessi rendermene conto, lui aveva preso la mia mano e la stava stringendo.
“Bene, ora possiamo presentarci. Andrea Lombardi”.
Mi liberai alla svelta dalla sua presa.
“Mi pareva di aver già fatto la tua conoscenza, anche troppo bene. Ad ogni modo, sono Alessia Serafini. E ti comunico che meriteresti che ti spaccassi la faccia, caro il mio bellimbusto”.
Pierre, Luca e Giacomo scoppiarono a ridere.
“Però Andrea, sembra che tu sia caduto addosso proprio alla ragazza sbagliata, eh?” ridacchiò Pierre. Dopo che gli ebbi lanciato l’ennesima occhiata furiosa, si affrettò a correggersi “Devi scusarlo, Alessia. Dev’essere l’euforia del nostro arrivo. È la nostra prima volta in Inghilterra; è così anche per voi, ragazze?”.
Sara e Bella annuirono.
“Sì, siamo in vacanza con la scuola. Veniamo da Firenze” rispose Sara.
“Aah, capisco. Bei tempi, quelli del liceo…” sospirò Luca “Ma grazie al cielo, per noi ormai sono passati”. La folata di vento che passò sulle nostre spalle sembrò non scompigliare neanche per un secondo i suoi capelli pieni di gel.
“Siete in ferie post maturità?” domandò Bella, con il suo solito tono zelante e adescante.
“Precisamente!” rispose Andrea “Appena conclusa, grazie al cielo!”.
“Con quale indirizzo?” proseguì Isabella.
“Classico” rispose Giacomo.
Mi trattenni dallo sbottare in uno sospiro esasperato; adesso capivo il motivo di tutta quella spocchia. Non avevo una grande esperienza sui ragazzi del Liceo Classico, ma la loro fama era quella di essere solamente dei figli di papà con la puzza sotto il naso, che si prendevano il disturbo di frequentare una scuola superiore soltanto perché serviva loro un diploma per fare qualcosa nella vita, ma che in realtà avevano già un posto di lavoro assicurato fin da quando erano degli embrioni.
La capacità di trattare tutti dall’alto in basso faceva parte incondizionatamente del loro sistema di vita; era un po’ come respirare o mangiare per noi. Qualcosa di irrinunciabile, insomma.
“E voi?” incalzò Luca.
“Scientifico” affermò Sara “Mi dispiace, ma pare proprio che siamo su due fronti diversi”.
Tutti loro risero sommessamente, e presto Sara e Isabella si unirono, ma io non avevo una gran voglia di perdere ancora tempo con quegli imbecilli.
“Andiamo, l’assegnazione camere” borbottai, prendendole sottobraccio e iniziando a trascinarle via.
“Beh ragazze, felici di avervi conosciute! Speriamo di rivedervi presto, in questi giorni!” ci gridò dietro Pierre.
“Certo! A presto!” rispose Bella, salutandoli con la mano.
“Ciao!” aggiunse Sara.
“Ciao, Alessia!”.
Non mi voltai quando udii la voce di Andrea che faceva il mio nome; non avevo alcuna intenzione di dare confidenza a quello stupido, e se lui pensava che bastasse così poco per attirare la mia attenzione, aveva fatto male i suoi calcoli.
“Sono simpatici, no?” domandò Isabella, quando ormai fummo fuori dalla portata d’orecchio dei ragazzi.
“Non direi proprio!” sbottai, ancora arrabbiata “Quell’Andrea è veramente un idiota!”.
Sara alzò gli occhi al cielo.
“Andiamo Alessia, non te la sarai presa sul serio!”.
Mi misi le mani sui fianchi con irritazione.
“Tu che cosa ne pensi? Mi avrà incrinato tre costole! E ha pure rischiato di rompermi l’orologio!” protestai veementemente.
“Non essere così melodrammatica!” mi rimproverò Isabella, controllandosi il trucco tramite un piccolo specchietto “Ti ha chiesto scusa, no?”.
“Davvero? Dovevo avere un grosso tappo di cerume nell’orecchio, perché non mi pare di averlo sentito!”.
“Se fossi in te, non farei tutta questa scena. Guarda che l’abbiamo già capito che ti piace!” Sara mi strizzò l’occhio con malizia.
Dopo quello che aveva detto, ebbi una forte tentazione di rimanere a bocca aperta.
“Stai scherzando, mi auguro?! È solamente un cretino! Non uscirei con lui neanche se fosse l’ultimo ragazzo sulla faccia della Terra!” giurai solennemente.
“Certo, dicono tutti così. Ma chi disprezza compra, cara mia!” mi rimbeccò Bella.
Feci per darle una gomitata, ma in quel momento mi fulminò un’idea improvvisa.
Mi tolsi dal collo la sciarpa che indossavo da quella mattina; era una sciarpa bianconera che mi aveva regalato mio nonno per il mio ottavo compleanno. Il padre di mia madre non aveva mai avuto molti interessi in vita sua, ma uno di questi era il calcio, e aveva finito per appassionarcisi tanto che aveva addirittura eletto una squadra come sua prediletta. Caso voleva che quella squadra fosse stata la Juventus. Devo dire che non mi interessavo di calcio, non me ne importava proprio niente. Non guardavo nessuna partita, non tenevo per alcun giocatore e non capivo nulla né di regole, né di falli, né di arbitri, portieri o attaccanti che fossero, ma quella sciarpa era l’unico ricordo che avevo di mio nonno, ed era diventata mia abitudine indossarla sempre, anche d’estate. Da allora, era diventata sporca e sbrindellata, ma la consideravo ancora come uno dei miei migliori capi d’abbigliamento.
“Facciamo così, care le mie sapientone: se mai dovessi innamorarmi di quel ragazzo, cosa che sono certa che non avverrà mai, la mia sciarpa della Juventus andrà a voi due!”.
Tutt’e due mi fissarono come se all’improvviso mi fossero spuntate due antenne verdi sulla fronte.
“Sei così sicura di vincere?” mi chiese Sara, sorridente.
“Più che sicura!” affermai. Presi le loro mani destre e sigillai il patto “Siamo d’accordo, allora? Scommessa effettuata!”.
Mi avviai verso l’entrata del college, voltandomi indietro solo una volta.
“E vedrete che ne uscirò vincitrice!” gridai loro.
Scuotendo la testa, Bella e Sara mi seguirono in direzione dell’edificio in mattoncini rossi, dove avremmo alloggiato per tutta la nostra vacanza.

 
Continua nel capitolo:


 
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