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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Videogiochi
Dalla Serie: Kingdom Hearts
Titolo Fanfic: R E M E M B E R S
Genere: Drammatico, Introspettivo
Rating: Per Tutte le età
Avviso: One Shot, OOC
Autore: sorika89 galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 09/11/2009 19:36:59

Non poteva andare con lui, non poteva andare da Kairi, no. lei non era abbastanza viva da poter ancora sperare
 
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- Capitolo 1° -

R E M E M B E R


Non si era mai accorta di quanto fosse bella l’isola fino a quel momento, fino a quando il Sole non veniva tagliato in due dalla linea marcata dell’orizzonte e colorava l’acqua che lo lambiva di un arancione liquido, simile al colore acquoso delle tempere diluite, raggiungendo il massimo livello di bellezza quando i chiassosi ed invadenti abitanti non c’erano, rinchiusi nelle loro case a mandare avanti la recita chiamata vita.

Era in quei momenti che Naminè capiva che non avrebbe mai potuta odiarla, non realmente almeno. Era solo al tramonto che la sua scelta di tornare aveva un senso. E lei era così morbosamente attaccata alla logica che era stato un sollievo averlo capito.

Perché, in fondo, la Destiny Island era bella. Bella come un dipinto, bella come il primo fiore che sboccia in primavera, bella come un ricordo, bella come ogni cosa che c’è al mondo, anche se lei non ha mai saputo apprezzare niente più del dovuto. Amava la Destiny Island, l’aveva amata grazie ai ricordi di Sora, attraverso il cuore di Kairi. L’aveva amata dai racconti di Riku, dalle parole brucianti di Roxas. Anche dai suoi, di ricordi, ma erano così privi di valore, così sterili e morti che non potevano trasmettere niente oltre alla pena. E lei li lasciava lentamente andare alla deriva, perché tanto c’erano quelli degli altri a rimpiazzare i suoi.

Quando era ancora a World That Never Was non aveva mai sognato un posto così. Nei suoi sogni, dietro le sue palpebre chiuse c’era soltanto nero. I primi tempi aveva dato la colpa al buio opprimente di quel mondo alla deriva e alla sua memoria recisa- perché lei non aveva mai avuto un prima e qualcosa di macabro le suggeriva che non avrebbe avuto nemmeno un dopo- ma poi si era accorta che c’era qualcosa che non andava. Che nella sua mente c’era qualcosa che non andava. Come una nota distorta che rende cacofonica una sinfonia. Come una nuvola grigia che oscura il Sole. Qualcosa di strano, insomma. Ma era difficile capirlo da soli. Probabilmente, senza l’arrivo infausto di Roxas, non ci sarebbe mai arrivata.

Lo aveva odiato, all’inizio. Perché lui aveva tutto, e lei niente. Perché lui aveva visto i mondi, e lei no. Perché lui sapeva di che colore era il sangue, il cielo, i fiori e le nuvole, e lei no. Perché lui aveva provato la sensazione sublime di amare ed essere amato, e lei no. Perché lui riusciva a custodire i proprio ricordi come pietre preziose, conservandole con la stessa cura di un amante e lei invece li lasciava marcire in un angolo prima di buttarli via. Perché lui era Roxas e lei solo Naminè. Perché lui veniva da Sora, e lei solo dal pallido ricordo dell’amore per Kairi. Perché lui poteva provare, e lei solo ricordare. Perché lui sapeva odiare e lei fingeva di saper odiare. Perché lui era vero, e lei inconsistentemente finta.

Ma poi, quell’odio inconsistente che le aveva corroso l’animo si era magicamente trasformato in qualcosa di molto più struggente che gli Other chiamavano Amore. Lei non sapeva amare- non aveva un cuore per farlo- ma il sentimento che provava nei confronti di Roxas poteva essere chiamato solo in quel modo. Piuttosto riduttivo, avrebbe pensato, molto dopo. Perché quello che provava non poteva essere rappresentato da una sola parola, perché non amava soltanto. Roxas era l’incarnazione di quello che avrebbe voluto essere, di quello che doveva essere, perché anche lei era nata da Sora, e se non proprio da lui, almeno da Kairi, che aveva fatto parte del cuore di Sora per tantissimo tempo. Ma Roxas era una persona a sé, irraggiungibile come la vetta di una montagna, e per quanto Naminè si impegnasse per diventare come lui, per farsi guardare almeno, i risultati erano sempre scarsi. Roxas poteva essere definito cieco, per quanto indifferente era per le cose che lo circondavano.

E poi era così follemente impegnato a collezionare i ghigni aguzzi di Axel da non notare nient’altro. Parlava con lei, le dimostrava attenzioni, ma Naminè sapeva che non la vedeva mai abbastanza, che tutto quello che faceva o diceva non era mai realmente diretto a lei. E quando Axel si era presentato nella sua stanza come se fosse stato suo pieno diritto invadere i suoi spazi, aveva capito che le attenzioni di Roxas non potevano essere spartite. Non con lei, perlomeno. E di certo ad Axel non mancava la faccia tosta di ammetterlo spudoratamente. Perché Axel sapeva quanta influenza avesse su di lui, perché Axel sapeva quanto e come poter maneggiare il carattere di Roxas, perché Axel sapeva fino a dove spingersi, perché Axel non aveva paura. E lei ne aveva così tanta che a volte credeva di poter morire. E se Roxas aveva scelto lui invece di lei, la colpa non poteva darla a nessun altro che non fosse se stessa. E alla paura folle che aveva di vivere davvero.

Così lo aveva lasciato semplicemente andare, accontentandosi delle poche briciole che gli rimanevano indietro. Le raccoglieva e le stringeva nel palmo della mano, convinta che se fosse riuscita a tenerle tutte insieme Roxas avrebbe potuto finalmente notarla e capire che Axel era sbagliato e che lei lo aveva atteso tutto quel tempo perché era quella giusta. Ma le briciole scappavano attraverso gli anfratti delle dita e Naminè non ne riusciva a tenere insieme nemmeno quel tanto che bastava affinché gli occhi di Roxas la vedessero per davvero, almeno un secondo. Non ce la faceva perché le sue mani erano troppo piccole e le sue dita erano troppo affusolate. Probabilmente non poteva contenerle perché Roxas non doveva notarla. Doveva esserci solo Axel davanti ai suoi occhi, fino alla fine del tempo. E lei aveva accettato anche questo perché tanto Axel sarebbe durato in eterno come una fiamma.

Ma quando Axel era morto, accasciandosi al suolo come un fiore appassito, l’unica cosa che era riuscita a provare era stato sollievo.

Da quel giorno, da quando Roxas aveva cominciato a parlare di Sora come se fosse stato la cosa più importante del mondo, Naminè aveva capito che il suo costante vedere nero l’aveva resa cieca, e probabilmente anche sorda, perché Roxas la stava chiamando, la stava guardando, e lei non riusciva a notare nessuna delle due cose. Lui le diceva che dovevano tornare dai loro Other, le stava dicendo che voleva salvarla, e lei continuava solamente a sorridere al niente, dicendogli che andava tutto bene.

Quando vide Roxas impugnare i suoi due Keyblade e avviarsi verso il Varco, Naminè non era riuscita a fare nient’altro che salutarlo, porgendogli il disegno di una spiaggia e di due persone. Lui l’aveva stretto tra le dita fino a spiegazzarlo, e poi le aveva chiesto di seguirlo. Ma lei si era limitata a lasciargli un bacio sulla fronte e ad indietreggiare. Non poteva andare con lui, non poteva andare da Kairi, no. Lei non era abbastanza viva da poter ancora sperare.

Così si era lentamente lasciata andare, riducendosi all’ombra di se stessa, ad una brutta caricatura di quello che era stata, fino a quando The World That Never Was non si era ridotto ad un cumulo di grattacieli che giacevano gli uni sugli altri come cadaveri. Solo quando si era accorta che il cielo diventava ogni giorno più nero, Naminè aveva capito che il tempo era giunto. E l’unica cosa che aveva trovato saggia da fare era stata quella di lasciare ogni cosa lì, anche i ricordi, perché tanto non le sarebbero serviti.

Aveva viaggiato tantissimo, visitando tutti mondi che erano alla sua portata e poi se n’era andata verso la Destiny Island, perché era lì che doveva stare. Con Roxas, con Sora, con Kairi e con Riku. Con quei sentimenti che lei non aveva mai conosciuto, e che presto sarebbero stati suoi. E se non proprio suoi, abbastanza vicini per considerarli tali. Come se fosse stato possibile continuare a pensare a se stessa anche quando sarebbe stata dentro Kairi.

Quando la vide la prima volta, coperta da un vestitino rosa, la prima cosa che le venne in mente era che non le somigliava proprio. Come potevano essere la stessa persona se lei aveva i capelli rossi e gli occhi blu? Come poteva considerarla sua sorella se lei non le diceva nient’altro se non “Andrà tutto bene”? come poteva solo pensare di condividere la sua vita con lei? Come poteva uccidersi? Ma oramai l’aveva conosciuta, oramai si era buttata la zappa sui piedi da sola, quindi tanto valeva chiudere la faccenda.

Probabilmente, se Kairi non le avesse stretto le braccia, Naminè sarebbe fuggita. Ma Kairi l’aveva serrata a sé, quasi avesse paura di una sua fuga- che ci sarebbe stata, sicuramente- e non le aveva permesso nemmeno di rivolgere gli occhi verso Sora. L’aveva tenuta per sé fino all’ultimo, fino a quando non si era dissolta come un sbuffo di fumo, senza lasciarle la pallida speranza di intravedere Roxas. E lui di certo non aveva fatto molto per farsi trovare. Era rimasto rintanato in un angolino nel cuore di Sora a piagnucolare sullo sbaglio che avevano fatto. Perché, ora che entrambi avevano smesso di essere entità singole, si erano accorti di quanto brutta e angusta fosse la scelta che avevano fatto. Kairi poteva anche avere un corpo grazioso ma Naminè si sarebbe sempre sentita estranea, come un fungo tra delle rose. E Sora poteva anche essere esagitato e divertente quanto voleva, ma Roxas non lo trovava simpatico nemmeno un po’ e si sentiva soffocare. Se avessero saputo che avere un cuore avrebbe comportato tutti quei sintomi negativi, ne avrebbero fatto volentieri a meno. Tanto a cosa serviva? A niente, tranne forse a parlare di qualcosa che nemmeno li interessava.

Ma alla fine, nonostante Kairi l’avesse già dimenticata, Naminè aveva finito per amare anche quel posto. Non c’era niente di disgustoso sull’isola, tranne forse le persone che ci vivevano, e il mare, la spiaggia, i gabbiani e i pesci facevano tutti parti di qualcosa che Naminè trovava semplicemente stupendo. E per godersi la vista di tutte quelle cose messe insieme senza l’occhio indiscreto di persone che la odiavano, Naminè aveva imparato a dividersi dal corpo di Kairi. Riusciva a tornare se stessa per il breve lasso di tempo di un tramonto, prima di essere richiamata indietro da una voce spaventata. Ma quel tempo le bastava, perché le permetteva di non odiarsi, le permetteva di deporre le armi contro la sua scelta. Riusciva a sentirsi ancora se stessa. E questo valeva più di ogni altra cosa. Roxas non si era mai diviso da Sora, probabilmente perché troppo spaventato all’idea di morire davvero, e lei rimaneva sempre da sola, al tramonto. Ma andava bene anche così. Se Roxas si fosse avvicinato, inevitabilmente sarebbe tornato anche Axel, e lei non voleva. Axel era la concretizzazione di tutto quello che non era riuscita ad essere e non le andava di guardare negli occhi i propri sbagli. Quindi preferiva rimanere da sola, mentre l’abbacinante luce del sole morente le illuminava il viso.

Eppure avrebbe dovuto aspettarselo un giorno. Aveva sempre pensato che non ce l’avrebbe fatta, che il Prescelto non era abbastanza forte per lasciarsi andare, ma quando l’aveva visto venirgli incontro flemmatico ogni sua convinzione era crollata miseramente.

«Ciao, Naminè» le aveva detto, sedendole di fianco.
«Ciao» gli aveva risposto, senza distogliere lo sguardo dal mare.
«Avrei dovuto chiederti scusa tanto tempo fa, ma non ne ho avuto il coraggio».
«Per cosa?» come se non lo sapessi.
«Per averti costretta a venire qui».
«Ma io sono venuta per te, per non lasciarti solo».
Lui le rivolse un sorriso spento. Ancora non riusciva a vederla.
«Ma io non sono solo».
Ed è con una chiarezza struggente che Naminè si accorge della presenza di Axel, vicino a loro. Come avrebbe potuto morire e sparire dalla terra? Axel non era fatto per essere dimenticato. Axel era una fiamma che, anche se spenta, continuava a brillare nel cuore di chi l’aveva vista. E poco importava se Roxas il cuore non ce l’aveva. Loro non si erano mai dimenticati.
«Già, Axel. Dimenticavo».
«Naminè, io… mi dispiace».
«Comodo lasciarsi rubare il cuore e poi spergiurare che non è colpa tua».
Roxas aveva gli occhi più blu del solito, quando le rivolse uno sguardo rancoroso.
«Naminè, non puoi essere arrabbiata con me».
«E perche no?» gli aveva domandato, sorridendo.
«Non ti ho costretta io a seguirmi».
«No, vero. Ma c’è stato un periodo in cui volevi che lo facessi».
«Perché ero solo! Perché-».
«Axel non c’era più, lo so. È dura perdere il punto di riferimento».
Roxas si era alzato in piedi, mentre le ultime lingue di Sole si spegnevano lentamente. Naminè seguì il movimento con gli occhi, distratta.
«Naminè, farti soffrire era l’ultima cosa che volevo fare. Devi credermi».
«Sta di fatto che ci sei riuscito. Ma non è più importante. Ora siamo sulla stessa barca, tanto vale aiutarci a vicenda, non credi?».
Roxas l’aveva fissata dubbioso, non ancora convinto che le sue parole rispecchiassero ciò che voleva, ma aveva annuito, mentre lei sorrideva vittoriosa. Roxas non avrebbe mai dimenticato ciò che era e ciò che lo aveva reso se stesso, e Naminè non sarebbe mai riuscita ad entrare nella ristretta cerchia dei suoi amici più intimi. Ma ci avrebbe comunque provato, perché ora che era riuscita a ritagliarsi un pezzettino di spazio nel suo cuoricino, si sentiva capace di sperare. Non sarebbe arrivata allo stesso livello di Axel, ma almeno ad un gradino sotto sì, e questo le bastava per sopportare anche l’asfissiante presenza di Kairi e Sora.

E finchè il cielo sarebbe stato sempre blu e il Sole sempre rosso, allora lei avrebbe continuato a sperare e a vivere per farsi vedere davvero. Non le importava quanto ci avrebbe messo, quanto sudore avrebbe sprecato, quante delusioni avrebbe preso. Poter finalmente diventare importante per qualcuno era il suo più grande desiderio. E lei voleva esaudirlo.

A qualunque costo.








ps: mi fate sapere se è OOC oppure no? grazie mille!^^
 
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