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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: "LASCIA CHE CADA"
Genere: Drammatico, Soprannaturale
Rating: Per Tutte le età
Avviso: One Shot
Autore: amber94 galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 30/10/2009 18:38:10

Lacrime calde cominciarono a cadere [dagli occhi di mia madre], atterrando sul camice,sulle braccia,sul mio viso.[...]la prima pioggia della mia vita.
 
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- Capitolo 1° -

La pioggia è un tema presente in molti racconti, fanfiction, canzoni, romanzi.
Non posso dire altro, se non che ha affascinato ed ispirato anche me. Buona lettura.
L'autrice


Let it fall, let it fall, let it fall
Please don’t stop the rain
Let it fall, let it fall, let it fall
Please don’t stop the rain




Quando nacqui era un giorno di settembre e aveva minacciato brutto tempo tutta la mattinata.
Mia madre mi mise al mondo con un ultimo rantolo, un gemito soffocato, un sospiro di sollievo, tra le lenzuola non più immacolate di un ruvido ospedale di periferia.
Scivolai fuori nel mondo, strappata brutalmente dalla rassicurante certezza del suo ventre, per precipitare nell’ignoto, nel male, nel nuovo universo del dolore. Tra le mani dell’ostetrica.
E gridai.
I miei piccoli polmoni cominciarono a funzionare, l’aria mi attraversò come una dolorosa sferzata, e nonostante tutto era vita anche se dolorosa, e gli infermieri sorrisero.
Mia madre tese le mani per prendermi in braccio e mi strinse affannosamente al seno, incredula. Già lucidi, i suoi occhi ricominciarono a tremare, a muoversi- pozze grigie per effetto del cielo fuori. Lacrime calde cominciarono a caderne, atterrando sul camice, sulle braccia, sul mio viso.
La prima pioggia della mia vita.

Venire al mondo è sempre difficile, ma crescere.
A nove anni ero una bambina gracile e pallida. Mia madre non mi aveva mai tagliato i capelli, fin da quando avevo un anno d’età. Mi arrivavano alla schiena, lisci e fluidi come un ruscello inquinato. Erano scuri, castani, e banali, se non fosse stato per quella strana torbidezza che li rendeva in qualche modo belli, come si può trovare bello il letto di un fiume prosciugato, ancora umido di vita, nonostante i rifiuti sul fondo.
A nove anni per me era difficile giocare con gli altri bambini. Nata in un giorno pieno di nuvole, avevo in qualche modo assorbito la loro trasparenza nella pelle, e la loro fragilità nella salute. Asmatica, di salute delicata, per me gesti come correre e giocare rappresentavano uno sforzo immane, un traguardo da raggiungere con gli incoraggiamenti affettuosi di mia madre, ma che per me rimanevano là, irraggiungibili.
Lontani.
Quando avevo nove anni e la mia vita non era ancora stata decisa, ancora non capivo tante cose. Mia madre mi pettinava i capelli attenta a non usare spazzole di legno, perché a contatto con il ruscello torbido di questi marcivano piano piano, diventando ben presto inservibili.
Mi pettinava con delicati pettini di plastica e cantava, cantava con la sua voce melodiosa vicino alla finestra. Io sedevo con le mani in grembo e la ascoltavo, muovevo piano la testa.
Era bella, mia madre, quando alzava una mano e scioglieva il nodo dei capelli della sua testa, e quelli ricadevano sulle sue spalle, morbidi e lucidi, nascondendo la nuca bianca e morbida. Era bella anche quando mi carezzava e mi stringeva a sé, e mi cantava Oh my darling, oh my darling. Io sorridevo, avevo le labbra sottili e sempre screpolate, forse perché tutta la mia fluidità veniva attirata dalla mia chioma, prosciugandole. Alzavo una mia mano e le carezzavo il viso, le dicevo oh mamma, canta ancora. E lei mi accontentava, serena.
La ascoltavo, muovevo piano la testa.
Era bella, mia madre.

Quando compiei quindici anni, mia madre mi disse che se volevo potevo tagliarmi i capelli.
Da quando avevo un anno, ancora nessuna forbice li aveva violati; mi arrivavano quasi alle ginocchia, sempre fluidi, sempre torbidi.
Rifiutai.
Ero abbastanza grande da pettinarmi da sola, eppure ancora chiedevo a mia madre di prendere in mano il pettine di plastica e attraversare dolcemente i miei capelli.
Mi piaceva ancora ascoltarla cantare, riflettendomi alla finestra , guardando i miei occhi restituirmi lo sguardo.
Di solito erano di un colore indefinito, tra il grigio e l’azzurro. Erano l’esatto opposto dei miei capelli, limpidi e chiari, ma sfuggenti. Tutta la parte più linda di me si raccoglieva in loro, in quelle due piccole pozze chiamate iridi, di una chiarezza così allarmante che mia madre talvolta aveva temuto che sarei diventata cieca. Mi ha anche portata da un’oculista, che mi ha ferita con luci abbaglianti e chiesto se riuscissi a distinguere una a da una zeta, e io ho sopportato docile stringendo le labbra, ma non ho permesso che mi facesse stendere sul lettino di pelle nera per scrutare a fondo nei miei occhi.
Non gliel’avrei mai permesso.
Comunque questo bastò a tranquillizzare mia madre, nonostante ancora oggi la sorprenda talvolta a guardarmi attraverso il vetro, preoccupata. La vedo sospirare, talvolta sbaglia una nota- un si acuto al posto di un dolce la.
A quindici anni, non ho un amico.
La scuola è sempre stata per me un enorme labirinto, le chiacchere dei miei compagni grida perforanti, le lezioni da seguire inutili e noiose.
Per quanto dicesse di poter spiegare tutto, il mio professore non era riuscito a dirmi perché i miei occhi cambiavano con la pioggia.
Quando le prime gocce cominciavano a cadere, le avvertivo con un brivido quasi violento. Le sentivo scorrere sulla finestra, ma anche sulla mia pelle, e sul braccio dove mia madre aveva versato le sue lacrime quindici anni prima. La pioggia mi chiamava cantando, tendeva le sue braccia d’acqua verso di me.
Vieni, diceva.
E i miei occhi cambiavano.
Tutta la loro sfumatura, la loro chiarezza, la loro insipidità sparivano. Una vampata di vita li agitava, diventavano mulinelli furiosi, nuvole tempestose, acqua fragorosa.
Dello stesso colore della pioggia fuori.
Tutto il mio essere voleva correre fuori e bere la pioggia, berla fino a riempirsi e scoppiare, e sciogliermi come un fiocco di neve, diventare anch’io acqua che scorre, sporca, purifica, cade, sale, vive.
Ma avevo sempre resistito.
C’era mia madre con me, e me stessa. Mio padre non l’avevo mai conosciuto. Una volta mamma mi sussurrò che ero figlia del cielo, che non appartenevo a lui ne a nessun altro. Capii che lui mi aveva disconosciuta, che forse prendendomi in braccio e vedendo i miei occhi non aveva riconosciuto quelli di sua figlia.
Una sera, stavo quasi per cedere. C’era una tempesta tremenda fuori, le strade erano allagate, i miei occhi così dilatati che quasi faticavo a mettere a fuoco, la voce dell’acqua così forte da costringermi a tapparmi le orecchie. La finestra era aperta. Mi alzai a fatica, lottando contro il vento e le grida, alzai una mano per afferrare la maniglia e chiuderla fuori; ma la morsa dell’acqua era troppo forte. Come un cacciatore che ha capito di aver attirato nella trappola la sua preda, la pioggia mi afferrò brutalmente per il polso. Gridai, chiamando mia madre, dibattendomi, mentre l’acqua risaliva lungo il mio avambraccio. Guardai con orrore la pelle diventare trasparente, fondersi, diventare gocce che pian piano volavano fuori nella tempesta. Ma allora, come una furia, nella stanza entrò mia madre. Corse come forse non aveva mai corso in vita sua per strappare quella che riteneva sua figlia dalla morsa fatale della sua peggior rivale. Mi afferrò, strappandomi via dalla finestra, dal mio destino. Ricaddi indietro, battendo a terra, rovinando sul tappeto, mentre mia madre lottava per richiudere la finestra. L’acqua si ritirò, muggendo furiosa. Lei si voltò verso di me, con gli occhi lucidi e terrorizzati. Io abbassai lo sguardo.
Avevo capito che non sarei mai potuta sfuggire al mio fato.
Avevo undici anni.
Da allora, quando minaccia pioggia chiudiamo tutte le finestre a chiave. Ho comprato un paio di cuffie, anche se so benissimo che non basteranno mai a chiudere del tutto fuori le voci.
Era solo questione di tempo.

Era l’inverno dei miei sedici anni.
Si avvicinava Natale, e con esso la neve. Era ancora presto per me, tirare un sospiro di sollievo. Il richiamo dei fiocchi di neve era più tiepido, come congelato, trattenuto. Ma era sempre pioggia, e le nostre finestre rimanevano chiuse.
La scuola finalmente chiuse. Avevo parlato con mia madre, e l’avevo convinta a non farmici ritornare, a gennaio. Lei aveva smesso di tagliare il pane, aveva abbassato gli occhi.
Voglio stare con te, le avevo detto.
E lei aveva annuito. Anche se poi quel pomeriggio l’avevo vista piangere, sul suo vecchio letto matrimoniale, dove dormivamo insieme.
La sua salute peggiorava. I medici le avevano dato ancora poco da vivere; difficoltà respiratorie, raffreddori continui e sfiancanti, influenze.
La pioggia aveva avuto la sua vendetta, infine.
Io le stavo vicino. Le sue mani avevano smesso di impugnare il piccolo pettine di plastica, la sua gola era troppo infiammata per cantarmi le sue adorate canzoni. Ma sorrideva ancora, e mi stringeva al petto, carezzandomi la mano destra- da cinque anni più malsana e rugosa di quella sinistra, come invecchiata o marcita.
Ti voglio bene, mamma, le dicevo. E lei sospirava e mi diceva che sentiva che ogni giorno me ne andavo di più.
Scivoli via, ripeteva.
E io non potevo far nulla, perché sapevo che era vero.

Quel pomeriggio, dopo aver messo a dormire mia madre, uscii. Mi chiusi piano la porta alle spalle, guardando avanti a me.
Erano settimane che non uscivo di casa, e l’aria di dicembre era così pungente da farmi tossire.
Mi strinsi le braccia al petto, e cominciai a camminare. Passo dopo passo, cercai di ascoltare, chiudendo gli occhi.
Quando cominciai a sentire l’eco lontano di quelle voci per me tristemente conosciute, mi fermai di scatto, all’improvviso, e aprii gli occhi.
Davanti a me c’era un piccolo ruscello, incastrato nella terra, a pochi passi da un boschetto.
Fissai le increspature dell’acqua, con il cuore in gola.
La sera prima aveva piovuto. E stasera avrebbe piovuto ancora.
A quelle gocce rimaste lì, in attesa di essere riprese dalle loro sorelle, avevo un messaggio da lasciare.
Facciamo un patto, dissi.
L’acqua del fiumiciattolo che avevo trovato a mezzo chilometro da casa mia rimase immobile, senza vita. Voleva beffarsi di me, ma non ci sarebbe riuscito.
Mi accovacciai , posando la mia mano destra sull’erba, vicino alla riva. Sentivo il frinire delle cicale, il gracidare dei rospi entrarmi nelle orecchie.
Ti supplico, solo un po’. Lascia che stia ancora con me. Lascia andare mia madre, per un po’, e poi ti giuro che non sfuggirò più al mio destino. Ti verrò incontro.
Ti supplico, lasciala andare.
Il ruscelletto si mosse.
Sospirai.


Gli ultimi anni con mia madre furono forse i più belli della mia vita.
Guarita come per miracolo da tutti quegli insidiosi mali che prima la affliggevano, sembrò rinascere. Danzava per la casa, cantando di nuovo. Spolverava tutto, puliva tutto, sorrideva per tutto.
Le volevo bene.
Insisté ancora un po’ per convincermi a tornare a scuola, ma senza troppa convinzione. Stavamo così bene, io e lei, fuori sulla veranda a bere il the, a guardare il tramonto.
Con i risparmi di una vita di lavoro in casa di altri, ed il ricavato dalla vendita dei miei libri, potemmo partire per un viaggio. Alla fine, ci spostammo solo di poche decine di chilometri; ma era eccitante lo stesso per due persone come noi, costrette da anni a vivere quasi sempre chiuse in casa.
Mia madre non capiva come mai le mie paure fossero sparite all’improvviso. La pioggia non mi preoccupava più, ormai. Le sue voci avevano cambiato tono.
Viaggiavamo, senza una meta, senza uno scopo, per il puro gusto di viaggiare. Avevo la mano dentro quella di mia madre e ci bastava, vedevamo il sole sorgere, sentivamo l’aria, la vita.
Mia madre comperò un fornellino, così che potemmo anche fare il the e guardare insieme il sole tramontare.
Dormivamo in letti nuovi, con lenzuola sempre pulite ed asciutte.
Le uniche note di ansia c’erano di notte, quando pioveva. Io non riuscivo a fare altro che ascoltare, gli occhi spalancati, i capelli davanti come a proteggermi dal mondo.
Prima o poi, diceva la pioggia.
Prima o poi.



Mia madre morì un mese dopo.
Spirò di mattina, accanto a me, con una tazza di the in mano. È proprio una bella giornata, aveva detto, e mi aveva carezzato una guancia. Ti voglio bene, tesoro, sorrise.
Morì con un sorriso sulle labbra. La tazza quasi le cadde di mano, ma io la afferrai e la misi sul comodino, accanto a lei.
Venne sepolta vicino casa nostra, a due passi dai cespugli di rose che amava tanto curare. Sulla sua tomba depositai un mazzo dei suoi fiori.
Al funerale non c’era quasi nessuno. Chiusa in casa, dedicata la sua vita solo a me, non aveva conosciuto quasi nessuno. C’era una sua cliente, un nostro vicino di casa che guardava in continuazione l’orologio.
Ed io.
I riti funebri durarono poco. Il parroco mi fece le sue condoglianze, mi chiese distrattamente se avessi bisogno del suo conforto. Rifiutai con gentilezza, gli strinsi la mano.
Rimasi a guardare allontanarsi il saio scuro del prete, la giacca elegante del vicino, il vestito vaporoso della donna. Stetti in piedi quasi un minuto, finché le loro sagome non scomparirono all’orizzonte.
Poi, mi voltai.
Entrai in casa in punta di piedi, per non disturbare lo spirito di mia madre, che sentivo cantare nel soggiorno. Entrai in camera da letto, aprii il secondo cassetto del secondo comodino. E presi il piccolo pettine di plastica che le sue mani avevano tenuto tante volte.
Mi avvicinai alla finestra e cominciai a pettinarmi. In salotto mia madre cantava e io cominciai a cantare con lei, la stessa canzone. Non avevo mai cantato in vita mia, e mi sorpresi di trovare la mia voce sottile ma potente. Mia madre rise, sentii una folata di vento scompigliarmi i capelli.
Ne presi una ciocca, soprappensiero, aprendo il primo cassetto del primo comodino.
Le mie dita si strinsero delicatamente sulle forbici.

Quando uscii di casa, sentii il vento accarezzarmi la nuca scoperta. A passo leggero, mi avvicinai al luogo dove riposava il corpo della donna che più avevo amato nella mia vita e che più mi aveva amata, e vi deposi su la treccia dei miei capelli, accanto ai suoi adorati fiori.
Sorrisi.
Il vento si fece più forte, mentre alzai gli occhi al cielo. Le nuvole cominciavano ad ammassarsi, a formare un unico nucleo compatto.
I miei occhi cambiarono colore, diventarono mulinelli furiosi, nuvole tempestose, acqua fragorosa.
Pioveva.
L’acqua scendeva fitta, calando un velo grigio e azzurro sul mondo, ricadendomi sul viso, sui miei capelli per la prima volta violati.
Le grida mi invasero forti come non erano mai state, mi entrarono ed uscirono da un orecchio all’altro attraversandomi tutta, facendomi inarcare per la loro potenza. Allargai le braccia, come in procinto di spiccare il volo.
Vieni, vieni, gridava.
Chiusi gli occhi.
Vidi la mia vita, i miei compagni di scuola. Vidi la mia casa, mia madre. Vidi le sue mani, le sue labbra muoversi, i miei capelli, la mia scuola, i miei libri, la finestra, il tramonto.
Vidi come sarei stata tra qualche attimo, come sarei diventata pioggia.
Sorrisi di nuovo.
Rain, rain, mi chiamava la pioggia.
Eccomi, gridai dentro di me. Sono qui.
Sono qui.
Per favore, non fermarti.
E poi, tutto ad un tratto- morii.
Rinacqui nello stesso istante, elevandomi forte, non più gracile, asmatica, non più me. Vidi i miei vestiti, vuoti, a terra. Risi, e la mia voce era uno scroscio, era forza, bellezza, era vita e distruzione, era tutto.
Finalmente, ero me stessa.
Insieme alle mie sorelle, gocce ed acqua e pioggia, mi sentii libera.




Un raggio di sole ad illuminare l’erba,
Gocce d’acqua sui vestiti bagnati, resti di una vita vissuta.
Aveva smesso di piovere.



Please don't stop the rain © James Morrison.

 
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VOTO: (2 voti, 2 commenti)
 
COMMENTI:
Trovati 2 commenti
revy-chan - Voto: 31/10/09 11:11
Davvero bellissia!!! mi sono commossa...complimenti
D'accordo con il commento: 0, e Tu? / No   |   Segnala abuso Rispondi

meme-chan - Voto: 30/10/09 22:11
Se si potessero mettere sei stelle l'avrei fatto è una storia bellissima come poche...davvero è meravigliosa...
D'accordo con il commento: 0, e Tu? / No   |   Segnala abuso Rispondi

 
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