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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Libri e Film (da libri)
Dalla Serie: Anita Blake
Titolo Fanfic: RIFLESSIONI
Genere: Sentimentale, Introspettivo
Rating: Per Tutte le età
Avviso: Spoiler
Autore: selene96 galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 21/03/2009 20:26:59

Il racconto contienre spoiler sul racconto Micah e sul primo capitolo di Danse Macabre.
 
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CAPITOLO 1
- Capitolo 1° -

“E quando avrai il bambino che farai, scoperai così anche davanti a lui?” Quelle parole pronunciate con freddo distacco sembrarono prendere vita e calare come un macigno su di noi. Lentamente mi mossi nell’abbraccio di Micah, il mio volto emerse da dietro la spalla di Nathaniel, lo sguardo calmo, freddo, privo di emozioni fisso su quella che fino a un secondo prima era la mia migliore amica. Lei, il mio spiraglio di normalità, l’unico appiglio che avevo per non perdermi del tutto, per convincermi che non ero davvero diventata un mostro spietato peggio dei mostri a cui davo la caccia. La nostra amicizia era la cosa più importante per me, la prova che ero capace, anche se per poche ore, di smettere i panni del Maresciallo Federale, risvegliante, cacciatore di vampiri, serva umana del Master di Sr. Louise, Lupa del branco di St. Louise, Nim – Raj, portatrice sana di quattro tipi di licantropia diversa, e tornare a indossare i cari, vecchi, abiti di Anita Blake, una ragazza testarda e determinata, ma pur sempre e solo una ragazza. Di scontri ne avevamo avuti parecchi e su molti aspetti della mia vita, ma mai, neanche quando per proteggermi fu costretta ad uccidere un uomo, la nostra amicizia era stata messa in discussione. Forse avrei dovuto soffermarmi di più sul suo sguardo, cercare di interpretare il mare di emozioni che si mescolavano in fondo ai suoi occhi, capire che quello non era stato altro che uno sfogo dettato dalla tensione accumulata e dalla frustrazione nel volere essere lei al posto mio, stretta tra due uomini E forse l’avrei fatto, avrei ascoltato le sue scuse e tentato di raccogliere i cocci della nostra amicizia, per poi con calma ricucirli insieme, se le braccia intorno alla mia vita non si fossero irrigidite, se la mano che mi stava accarezzando i capelli con lussuria repressa non si fosse bloccata a mezz’aria. E soprattutto se due degli uomini più importanti della mia vita non mi avessero sussurrato, con un tono irreale di paura, incredulità e forse gioia “Bambino?”. Quell’unica parola mi scosse dallo stupore iniziale, sentii il potere del leopardo crescere in me e chiedere prepotentemente di uscire: qualcosa stava minacciando il mio branco e io dovevo difenderlo a tutti i costi. Le parole di Ronnie cercavano di farsi strada nella mia testa, ma non volevo ascoltare più nulla. In silenzio, alzai la mano e le indicai la porta. Quello che vide o forse quello che non vide nei miei occhi, la convinse ad uscire senza aggiungere altro. Dopo che la porta fu richiusa, rimanemmo così, fermi in mezzo alla cucina, per non so quanto tempo. Il silenzio era assordante. Ero in mezzo ai due uomini, a pochi millimetri dai loro petti, eppure i nostri corpi riuscivano a non sfiorarsi, come se ci fosse stata una pellicola trasparente a dividerci. Non potevo reggere quella situazione ancora a lungo, così decisi di prendere l’iniziativa, intimamente spaventata per la tempesta che si sarebbe scatenata subito dopo. Alzai lentamente le braccia e poggiai il palmo della mano destra sulla guancia di Micah e quello della mano sinistra sulla guancia di Nathaniel. Entrambi rivolsero su di me la loro attenzione, lo sguardo vacuo, in attesa di una qualche spiegazione. “Ho un ritardo di 5 giorni… lo sapete, non mi capita mai… ero preoccupata e disorientata… io… non volevo avere segreti con voi… solo… avevo bisogno di un amica con cui sfogarmi… a quanto pare ho fatto la scelta sbagliata.” Con la voce tremante e un frasario poco articolato riuscii a dire la verità, nient’altro che la verità. Non c’erano piani misteriosi o chissà quali macchinazioni dietro quell’incontro mattiniero, solo il desiderio naturale e molto umano di volersi confidare con una donna, il voler trovare conforto in un volto amico, il poter parlare liberamente a qualcuno che sa come ti senti. Probabilmente se mia madre fosse stata ancora viva, mi sarei rifugiata tra le sue braccia: chi meglio di una madre può capire senza giudicare? “E’ umano.”mi sussurrò Micah con dolcezza, rafforzando la presa intorno alla mia vita. “Già, a quanto pare c’è ancora qualche speranza che non mi trasformi definitivamente in un mostro senza sentimenti.” Risposi, cercando di mettere nel tono della voce anche un pizzico di ironia, per spezzare la tensione del momento. Con delicatezza, mi liberai dall’abbraccio e mi andai a sedere sul divano, subito seguita dai ragazzi. Micah si sedette alla mia sinistra, passandomi un braccio dietro la spalla, mentre Nathaniel si accoccolò ai miei piedi, con il mento poggiato sulle mie ginocchia. Le vecchie abitudini sono dure a morire, soprattutto quando di solito ti salvano la vita, così, anche in quel frangente, mi avevano lasciato libero il braccio destro, in modo da poter sfoderare la pistola all’occorrenza. Calò di nuovo il silenzio, privo però della tensione precedente: semplicemente ognuno di noi si stava perdendo nei propri pensieri. “Vorrei poter condividere con te l’ansia dell’attesa. Vorrei sentire un grosso nodo allo stomaco e il cuore battere all’impazzata nella speranza di essere io il padre.” Mi voltai a incrociare lo sguardo di Micah e il mio cuore si incrinò sotto il peso della tristezza dettata dalla consapevolezza. Volevo dire qualcosa, qualunque cosa pur di dissipare un po’ quel velo che gli copriva gli occhi, ma non potevo né volevo correre il rischio di urtare i sentimenti di Nathaniel. Perché se Micah, essendo sterile, non rientrava nella rosa dei possibili padri, Nathaniel, dall’alto della fertilità dei suoi vent’anni, era in pool position. Chinai lo sguardo verso di lui, cercando di capire cosa gli stesse frullando in testa, ma il suo viso era una maschera impenetrabile. Non potevo sapere che dentro di lui si stava combattendo una furiosa battaglia. “Ho paura.” Sibilò alla fine. Gli rivolsi uno sguardo interrogativo, il più possibile caloroso, quasi a volerlo rassicurare. “Non c’è niente di cui aver paura – gli dissi, accarezzando i suoi capelli setosi – Ancora non sappiamo se sono veramente incinta. E poi, chiunque sia il padre, le cose non cambieranno, non possono cambiare. Saremo sempre noi, con gli zombi da risvegliare, la polizia da aiutare, i vampiri da ammazzare o con cui cenare, solo che dovremo stare un bel po’ più attenti del normale. Non dico che sarà semplice, ma riusciremo a superare anche questo.” Ma mentre le parole finivano di uscire dalle mie labbra, mi resi conto che stavo mentendo, più a me stessa che a loro. Il quadro che avevo appena descritto sarebbe andato bene se il padre fosse stato Nathaniel o uno dei miei tre vampiri, ma se invece il bimbo fosse stato di… Non riuscivo neanche a pronunciarne il nome, tanto l’alternativa mi spaventava. Richard, l’Ulfric, l’eterno boy scout… Se il padre era lui, il mondo, il mio mondo, mi sarebbe crollato addosso. Perché dovevo preferire uno spogliarellista ventenne a un maturo insegnante di liceo? O meglio, perché la possibilità che lui fosse il padre del bambino mi sconvolgeva a tal punto da desiderare che non fossimo mai andati a letto insieme quel mese? Perché lui avrebbe visto in quel figlio un’alternativa al suo essere mostro, la possibilità di voltare le spalle al branco e alla sua bestia per cominciare a vivere finalmente una vita normale. Sapevo che la sua idea di famiglia felice contemplava un lavoro normale, una casa in campagna e il passare la domenica mattina abbracciati in veranda a guardare i ragazzi giocare in guardino, senza polizia che ti trascina alle 3 del mattino a vedere cadaveri sanguinolenti o galline sgozzate per risvegliare i morti. E soprattutto non c’erano mostri in questo quadro perfetto, nessun lupanare in cui riunirsi le notti di luna piena, nessun licantropo da salvare o vampiro con cui parlare. Sarebbe stato capace di tutto, pur di realizzare il suo sogno, anche strapparmi il bambino e passare sul mio cadavere. Quale giudice avrebbe preferito me, una donna, le cui mani grondano perennemente sangue, a un integerrimo professore come genitore a cui affidare la cura di una creatura indifesa? Il pensiero di venir separata da mio figlio, mi fece gelare le vene. Mai, neanche quando ero piccola e tutte le mie amichette giocavano con le bambole, avevo desiderato avere un figlio, anzi pensavo di essere priva di quell’istinto materno che tante andavano sbandierando in giro. Adesso invece, era bastata la possibilità di star portando in grembo un’altra vita a trasformarmi in una leonessa pronta a tutto pur di difendere il proprio cucciolo. Sarei stata pronta anche a piantare una pallottola d’argento nel cuore di Richard se avesse provato a separarmi dal mio bimbo. Bimbo, bimbo… Ogni secondo che passava l’idea di diventare madre si andava concretizzando nella mia testa e questo non era per niente un buon segno. Guardai fuori dalla finestra, mancava ormai poco al tramonto. “Andiamo” dissi risoluta. Nathaniel balzò in piedi in un lampo e mi porse una mano che ignorai, mentre Micah mi fissava dal divano. “Dove vuoi andare?” chiese, senza molta convinzione. Sapeva benissimo cosa mi passava per la testa, mi conosceva meglio di chiunque altro, molto spesso meglio di me stessa. “Al Circo.” “Nathaniel, chiama Jason. Digli di trattenere Jc, Asher e Damian finché non arriviamo e di avvertire Richard. Che si facesse trovare lì dopo il tramonto. Io torno tra un secondo.” Lo guardai mentre usciva di corsa da casa, impressionata da quel suo modo di fare calmo e autoritario. Non ero abituata a prendere ordini, ero io quella che manteneva la calma in ogni situazione, che sapeva sempre cosa fare, anche se spesso prendeva le decisioni sbagliate.
 
Continua nel capitolo:


 
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