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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Persone famose e TV
Dalla Serie: Jonas Brothers
Titolo Fanfic: NO MORE SAD SONGS
Genere: Introspettivo
Rating: Per Tutte le età
Avviso: One Shot
Autore: yachiru galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 06/01/2009 21:08:53

La sua preoccupazione prima di collassare a terra fu quella di spaccarsi il naso sul marciapiede: ripensandoci dopo, avrebbe preferito un naso rotto.
 
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A LITTLE BIT LONGER
- Capitolo 1° -

Ecco, durante le vaanze natalizie sono tornata ad essere quella che una ne fa e cento ne pensa: insomma, due one-shot nell'arco di una settimana? sto veramente impazzendo! XD
Ma, per non smentire la mia fama di donna tendenzialmente depressa, sono venuta fuori con questa shot: insomma, veramente era da un po' che mi ronzava in testa l'idea di scrivere una cosa simile, ed eccola qua.
E pensare che all'inizio doveva essere una slash, ed invece si è trasformata in una sorta di monologo di Nicholas: beh, sfogherò la mia vena di fangirl repressa un'altra volta. u_u




A Bay Shore faceva freddo, fottutamente freddo: questa, accompagnata da una lunga serie di improperi, era l'unica cosa a cui Nick riusciva a pensare appena sceso dal van che li aveva portati all'hotel. E, a lui, il freddo non piaceva affatto: anzi, se già da qualche giorno aveva i nervi a fior di pelle, il gelo pungente che il vento si ostinava a soffiargli in faccia lo rendeva soltanto ancora più suscettibile. Erano una band pressoché sconosciuta, e quello era il loro primo vero tour: avrebbe dovuto essere eccitato all'inverosimile, cercare di sfondare nel panorama musicale era il loro sogno, ed invece aveva solo una gran voglia di tornarsene a casa, di gettarsi sul letto e di dormire, dormire e dormire. Probabilmente la causa del suo nervosismo era lo stesso tour, ma cosa avrebbe dovuto fare, correre a piangere da Joe e Kevin che voleva tornare da mamma e papà? Certo, se avesse cercato una ragione per venire preso in giro a vita, quello era il modo più efficace; avrebbe dovuto chiamare a casa? I suoi genitori non avrebbero esitato un secondo, si sarebbero fiondati in macchina, legando Frankie nel seggiolino o lasciandolo dai vicini di casa, e sarebbero corsi fino a lì per riportarlo indietro: e poi? Con che faccia avrebbe dovuto guardare i fratelli, dopo che per la sua insensata crisi isterica aveva rovinato tutto? No, anche quel discorso era completamente fuori discussione. L'unica opzione rimasta, e quella più sensata ai suoi occhi, era quella di fare l'indifferente e sopportare: sarebbero tornati nel New Jersey una settimana dopo, e avrebbe potuto passare cinque giorni con i suoi, a quel punto tanto valeva aspettare.
« Vado in bagno, » dichiarò appena furono entrati nella hall, gettando la sua borsa a terra e cercando in giro un qualche cartello che gli indicasse i bagni.
« Di nuovo? » chiese Joe perplesso, guardandolo strano, « Ci sei andato mezz'ora fa quando ci siamo fermati. »
« E ci vado anche adesso, » borbottò lui, addocchiando quella che sembrava la via giusta ed allontanandosi in fretta dagli altri due.
Joe si girò istintivamente verso Kevin, lo sguardo interrogativo, e l'altro lo liquidò con un'alzata di spalle, scrollando la testa.

Non c'era stato verso di far risollevare l'umore a Nick, nonostante i tentativi incessanti dei fratelli maggiori: era arrivato al Boulton Center con il broncio, aveva fatto il soundcheck con il broncio, aveva suonato al concerto con il broncio e, sorpresa delle sorprese, era tornato in hotel con il broncio. Il tutto corredato da innumerevoli pause per andare al bagno, conseguenza della decina di bottigliette d'acqua che si era scolato durante la serata: se questo è il prezzo da pagare per suonare in un teatro con a malapena trecento posti, si ritrovò a pensare Nick con una risata sarcastica mentre, appena entrato in camera, si affrettava a raggiungere il bagno, mi conviene tornare a scuola. Il ragazzo si fermò davanti allo specchio, appoggiando una mano sul piano del lavandino e spostando con l'altra i ricci che gli cadevano disordinati sulla fronte: era pallido, bianco come uno straccio, e, dallo sguardo vitreo che rivolgeva al pezzo di vetro, sembrava che non mangiasse da settimane, quando in realtà, appena quattro ore prima, aveva fatto man bassa al buffet del ristorante e, sotto gli occhi attoniti dei due Jonas più grandi, aveva mangiato per un reggimento intero. Passandosi nervosamente la mano tra i capelli, si decise ad uscire dal bagno, trovando ad aspettarlo, seduto sul letto, Joe: evidentemente, lui e Kevin avevano tirato a sorte su chi dei due dovesse dividere la camera con il più piccolo e, come sempre in quel genere di cose, era stato il fratello di mezzo a perdere miseramente.
« Stai bene? » domandò preoccupato il più grande, alzandosi in piedi di scatto quando era uscito dal bagno.
« Sì, » bofonchiò lui, roteando gli occhi: che domanda idiota, era ovvio che non stesse bene.
« Sei sicuro? » ripeté insicuro Joe, facendogli intendere con lo sguardo che non gli credeva.
« Ho tredici anni , non cinque, » replicò Nick sbuffando, passandogli di fianco e buttandosi sul letto già sfatto senza nemmeno preoccuparsi di cambiarsi, « Sto bene. »
Il discorso, almeno per il momento, era finito lì, perché Nick si era voltato bruscamente, dando la schiena al fratello, e si era intrufolato sotto le coperte, tirandosele su fino al naso: il sonno non ci aveva messo nulla ad arrivare, era letteralmente stremato, ma la tranquillità era fuori portata anche nel mondo dei sogni. Passò ore a rigirarsi nel dormiveglia, non riuscendo a calmarsi nemmeno per un istante, tra i continui giramenti di testa che lo costringevano ad alzarsi in silenzio fino al bagno, gran parte delle volte non accendendo nemmeno la luce per non svegliare l'altro: precauzione inutile, perché Joe, ad ogni suo minimo movimento, si girava per controllarlo, senza che lui se ne accorgesse, intontito com'era. Quando finalmente riuscì ad addormentarsi seriamente, tutto quello che sentì nel sonno fu solo un gran caldo e, ad un certo punto, qualcuno che gli rimboccava le coperte con un sospiro.

Svegliarsi, quella mattina, si rivelò essere un'impresa ardua: gli sembrava di aver dormito sì e no una decina di minuti, e probabilmente non era molto lontano dalla verità, e quando Joe lo scosse per riportarlo nel mondo dei vivi, gli avrebbe volentieri lanciato una scarpa sulla testa. Invece, si alzò senza fiatare, afferrò qualche vestito a casaccio dalla valigia e si affrettò a cambiarsi: avevano un'intervista il pomeriggio, e Kevin aveva insistito per andare a fare un giro in centro al mattino; dire di no a Kevin sarebbe stato come comprare un biglietto di sola andata per il New Jersey, nei cinque giorni precedenti era già stato abbastanza indisponente, e dare buca avrebbe contribuito soltanto ad aumentare la preoccupazione dei due nei suoi confronti. Mentre scendevano nella hall, Joe provò più volte ad attaccare bottone con il ragazzo, ma tutto quello che ricevette in risposta alle sue domande furono più che altro monosillabi e, nonostante la testardaggine, capì ben presto che non sarebbe riuscito a cavare un ragno dal buco e rinunciò all'impresa: Kevin, d'altra parte, quando li aveva visti si era scambiato un'occhiata con il fratello di mezzo, che aveva scosso la testa, e si era limitato a salutarli senza fare domande.
Arrivati in centro, Kevin riuscì a non smentirsi e, con l'aria di chi viveva a Bay Shore da quando aveva imparato a camminare, fece attraversare agli altri due mezza città, per ritrovarsi alla fine sulla Montauk Highway, di fronte ad un piccolo bar, sulla vetrina del quale era appiccicato l'inconfondibile adesivo rotondo verde che indicava uno Starbucks: tre frappuccini al caramello e cinque muffin dopo, tre dei quali erano stati ordinati senza tanti complimenti da Nick, il maggiore si sentì abbastanza soddisfatto per poter fare una giro della città a modo.
Tra negozi di strumenti musicali e qualche monumento occasionale, la mattinata passò abbastanza velocemente e il più piccolo dei tre, eccezion fatta per il mal di testa cronico che non sembrava aver intenzione di lasciarlo stare, sembrava essere tornato all'improvviso gentile come suo solito: aveva addirittura ripreso colore, notò quando si specchiò passando davanti ad una vetrina, ma forse quello era da attribuire al fatto che si sentiva andare a fuoco, nonostante il tempo fosse pessimo. Per arrivare allo studio dove avrebbero dovuto avere l'intervista, Kevin fermò un taxi, dato che, apparentemente, il suo senso dell'orientamento funzionava solo nel caso in cui la destinazione d'arrivo fosse uno Starbucks e, se entrambi i fratelli minori si sentirono sollevati all'idea di evitarsi un'altra scarpinata, Nick dovette immediatamente ricredersi quando prese posto sul sedile posteriore, incastrato alla bell'e meglio tra Joe e Kevin: da fermo, il mal di testa lo importunava più fastidioso che mai, e dentro a quell'auto faceva caldo, un caldo insopportabile.
Ringraziò mentalmente il cielo quando arrivarono al capolinea, ma forse lo fece troppo in fretta: quando, dopo che Joe era sceso, aveva messo anche lui i piedi per terra, c'erano voluti pochi secondi perché la testa gli girasse talmente forte da fare invidia ad una centrifuga, facendogli perdere l'equilibrio e lasciandogli la mente completamente vuota. Non riuscì a pensare a nulla mentre collassava a terra, e l'unico motivo per cui non sbatté la testa sul marciapiede fu che Joe l'aveva prontamente afferrato per un braccio, evitandogli che si spaccasse il naso: ripensandoci più tardi, avrebbe preferito un naso rotto.

L'unico suono che le sue orecchie riuscivano a registrare era un brusio in sottofondo, troppo lontano perché capisse anche solo vagamente il senso dei suoni, accompagnato da un bip bip incessante che sembrava andasse in sicrono con il suo stesso respiro: si pentì immediatamente di aver aperto gli occhi, perché davanti a lui era tutto così assurdamente bianco ed irreale, e la luce sul soffitto rendeva tutto ancora più bianco e luminoso al punto da fargli tornare il mal di testa, e quando li serrò di nuovo, si ritrovò a pensare che non aveva la benché minima idea di dove fosse.
« Sei sveglio? » chiese una voce stranamente ovattata a fondo del letto, che probabilmente aveva sentito il cinguettio metallico di quella che probabilmente era una macchinetta cambiare ritmo.
« Sì, » mugolò lui, riaprendo gli occhi, questa volta con più cautela, mentre scorgeva, seduto su una sedia ai piedi del letto, le braccia conserte sul materasso e la testa bassa, suo fratello, « Joe? »
« Siamo al Southside, » gli spiegò il maggiore, lo sguardo ancora fisso sul lenzuolo, la fronte poggiata sull'avambraccio, « Sei svenuto, avevi quasi quaranta di febbre: sono due giorni che dormi. »
« Ah, » boccheggiò Nick, mettendosi a sedere sul letto e sentendo un prurito al braccio sinistro: alzò istintivamente la mano destra per grattarsi, ma quando lo sguardo gli cadde sul braccio, scoprì che la colpa era dell'ago che aveva infilato nell'avambraccio. Ritrasse immediatamente la mano, impallidendo di colpo: odiava gli aghi, e ne aveva uno maledettamente incastrato nel braccio. Perfetto, « Credo di sentirmi male. »
« Cosa? » Joe scattò in piedi, rivelando, dietro ad un ciuffo di capelli che erano soliti stare ritti in testa e che ora, invece, gli cadevano scompigliati sulla fronte, uno sguardo stravolto e stracolmo di preoccupazione, contornato da due occhiaie quasi violacee che facevano domandare se non fosse lui quello a stare male, e prontamente si avvicinò al letto del fratello per poggiargli una mano sulla fronte, rimanendo impietrito dal contatto con la pelle del più piccolo, « Nick, sei bollente... Cosa faccio? I dottori, vado a chiamare il dottore. »
« Ma sei pazzo? » strilò il più piccolo, che aveva rabbrividito quando il fratello l'aveva toccato e gli aveva afferrato in fretta la mano per spostarla, mentre l'altro continuava a balbettare frasi sconnesse, preso dal panico, « Joe, sei tu che sei gelido: che hai fatto? »
« Niente, » mentì lui, strattonando la mano per sfuggire alla presa del fratello.
« Joe– »
« Nick, cazzo, sei tu che stai male, » tagliò corto, isterico, « Chi se ne frega di cosa ho fatto. »
« Io, » rispose scocciato Nick, fissandolo per ottenere una risposta, « Sei uno stramaledetto ghiacciolo con le gambe. »
« Sono uscito, d'accordo? » borbottò l'altro, cacciandosi le mani nelle tasche dei pantaloni, « Avevo bisogno di una boccata d'aria. »
« Una boccata d'aria che è durata quanto? » domandò il più piccolo, inarcando un sopracciglio.
« Un'ora, » ammise Joe con un'alzata di spalle, bofonchiando la risposta per non dargli troppo peso.
« Sei stato là fuori un'ora? » gridò con voce acuta Nick, « Fa un freddo cane, potevi morire assiderato! »
« Nicholas, non mi sembra il caso di farla tanto grave, il problema adesso è che t– »
« Joe, mamma e papà stanno arrivando, » ci pensò Kevin ad interrompere il dibattito, spalancando la porta mentre si rivolgeva al fratello di mezzo, addocchiando poi Nick seduto sul letto, finalmente cosciente, « Nick, sei sveglio? »
« Sì, » annuì il diretto interessato, sbuffando, « Kev, non posso tornare a casa? Sto bene. »
« Non credo, papà sta parlando con i dottori, e l'ultima volta che hai detto così sei svenuto, » il fratello maggiore scosse la testa, tornando poi a rivolgersi a Joe, « Joe, sono due giorni che non esci di qui, vieni fuori. »
« Neanche per sogno, » ribatté testardo lui.
« Joseph, » lo richiamò Kevin, usando il nome intero per fargli capire che avrebbe veramente dovuto uscire, « Mamma e papà vogliono parlare con Nicholas. »
Il fratello di mezzo sbuffò e, riluttante, seguì il fratello che usciva dalla stanza, dopo aver lanciato un'ennesima occhiata a Nick prima di chiudere la porta.

Era passato non più di un quarto d'ora da quando i genitori, insieme ad un paio di medici, erano entrati nella stanza, e a Joe sembrava fossero trascorsi due giorni: non riusciva a stare fermo, e, sotto lo sguardo silenzioso di Kevin, seduto su una sedia in una sala d'aspetto in fondo al corridoio, le gambe accavallate e un piede che ticchettava nervoso sul pavimento, aveva già fatto almeno un centinaio buono di metri, percorrendo avanti ed indietro la fila di sedie appoggiata al muro, continuando a ripetere che ci mettevano troppo tempo ad uscire da quella camera.
« Joe, » lo richiamò alla realtà Kevin, approfittando del fatto che gli stesse passando per l'ennesima volta davanti con la sua camminata concitata che lo faceva soltanto innervosire ancora più di quanto già non fosse per afferrarlo bruscamente per un braccio e farlo sedere a forza sulla sedia accanto alla sua, « Smettila, mi fai andare fuori di testa. »
« Da quanto sono dentro? » chiese a disagio il fratello di mezzo, strisciando i piedi sul pavimento e facendo cigolare le suole delle scarpe sulle piastrelle in una nenia ancora più insopportabile, « Sono ore che non escono. »
« Dodici minuti, » puntualizzò l'altro, che non aveva perso nemmeno di vista nemmeno per un secondo l'orologio che scandiva i secondi appeso alla parete opposta, « Sono dentro da dodici minuti e ventisette secondi, e se continui così, ti spaccherò la testa nell'arco dei prossimi tre minuti. »
« Non ce la faccio, » Joe si alzò di nuovo in piedi, mancando per un pelo il braccio di Kevin che si era di nuovo mosso per farlo stare seduto, e tornò a vagare senza una meta lungo la saletta, « Cosa devono dirgli, cazzo. »
« Andrà tutto bene, » si sforzò di cercare rassicurante, ma la voce stessa lo tradiva.
« No, no, no, » ripeté esasperato lui, aumentando il passo, infilando le mani nelle tasche del giubbotto, « Ha tredici anni, cazzo, è troppo piccolo per portarlo a fare un tour, dovevamo dire di no. »
« Lo sai benissimo che no– » Kevin si era fermato, perché Joe aveva girato la testa di scatto verso la camera del fratello ed aveva smesso di ascoltarlo. A quel punto, anche lui si era alzato, e davanti gli si era parata la visione della madre, pallida, che sembrava si stesse sforzando di non piangere, affiancata dal padre, lo sguardo serio che li squadrava entrambi.
« Joseph, Paul, » li chiamò l'uomo, facendo un cenno con la testa rivolto alla stanza, « Nicholas vuole parlarvi. »
Entrambi si affrettarono lungo il corridoio, il cuore che batteva a mille, ma, appena entrarono, capirono tutti e due che le cose non andavano affatto bene: seduto sul letto, Nick giocherellava con il lenzuolo, stropicciandolo agli angoli, lo sguardo basso. Nick non teneva mai lo sguardo basso: Nick era un bambino, doveva restare alzato fino alle due di mattina con i fratelli per vedere i film horror che la madre gli aveva categoricamente proibito, mettersi a ridere quando Joe si metteva due matite nel naso e andava in giro ancheggiando e dichiarando di essere un tricheco, aspettare il suo turno per farsi la doccia e poi andare a lamentarsi dai genitori che gli altri due avevano finito l'acqua calda, fare l'offeso perché Kevin gli diceva che era troppo piccolo per salire in motorino con lui e mettergli il broncio per ricevere in regalo un pacchetto di caramelle, non tenere lo sguardo basso su un fottutissimo letto d'ospedale con una flebo attaccata al braccio.
« Non voglio, » sbottò il piccolo, alzando il viso e rivelando due occhi rossi, gonfi: cercava con tutto se stesso di non piangere, ma le parole che gli erano uscite di bocca tremavano come foglie, e sarebbe stata questione di secondi prima che scoppiasse in lacrime. Gli altri due si guardarono negli occhi, un tonfo al cuore all'unisono per entrambi, e, mentre si avvicinavano al letto di Nick, l'angoscia li stava facendo ammattire.
« Non voglio, » ripeté a voce più alta, nella speranza che, aumentando il tono, sparisse l'insicurezza, « Non voglio avere quest'affare, voglio poter mangiare le caramelle! »
« Cosa? » domandò Kevin titubante.
« Ho il diabequalcosa, » piagnucolò Nick, i lacrimoni che gli si formavano ai bordi degli occhi e minacciavano di cadere da un momento all'altro, « Non posso più mangiare le caramelle e devo farmi le punture: io odio le punture! »
La notizia colpì Joe e Kevin come un pugno nello stomaco: come poteva avere il diabete? Aveva tredici anni, non sapeva nemmeno cosa volesse dire. Maledizione, la sua preoccupazione più grande era quella di non poter più mangiare le caramelle.
« No, non ce la faccio, » borbottò Joe scrollando la testa, prima di fare dietrofront e uscire quasi di corsa dalla stanza, sbattendo la porta.
Nel frattempo, Nick aveva cominciato a piangere a dirotto, e Kevin si era seduto di fianco a lui sul bordo del letto, circondandogli con un braccio le spalle e abbracciandolo, mentre continuava a ripetergli che sarebbe andato tutto bene.

Tra le idee che gli si continuavano ad affollare in testa, l'ago nel braccio che, sebbene non desse fastidio, lo inquietava in maniera non poco indifferente e la notizia ancora da digerire, Nick poté scordarsi di prendere sonno anche quella notte: era rimasto da solo, perché i dottori avevano cacciato via sia Kevin che i suoi genitori dopo la mezzanotte, e l'avevano lasciato lì, ad arrovellarsi su che diavolo gli sarebbe successo, probabilmente per un bel po' di tempo, dato che i corridoi dell'ospedale erano immersi nel silenzio più totale, e, da quello, poteva dedurre che era quasi certamente notte inoltrata. Ad un certo punto, sentì un rumore, dei passi che si avvicinavano, forse di una qualche infermiera, e riuscì a scorgere un'ombra indefinita che si fermava di fronte alla porta della sua camera: la porta si aprì lenta, con un cigolio, e tutto quello che riuscì ad identificare attraverso la luce soffusa dei corridoi fu una persona alta, che scivolava dentro la stanza cercando di non fare rumore. Quando gli balenò in mente l'ipotesi che quella non era un'infermiera, fece per strillare, ma la figura, alla vista delle sue intenzioni, gli si gettò quasi addosso, tappandogli prontamente la bocca con la mano prima che svegliasse l'intero ospedale.
« Nicky, » gli disse con un sussurro, « Nicky, sono io. »
Nick mugolò qualcosa di indefinito, le parole che si perdevano sulla mano dell'altro, rendendogli impossibile capire cosa stesse dicendo.
« Tolgo la mano, non urlare, » lo avvertì, mentre il più piccolo faceva cenno di sì con la testa, e lui, sedendosi al bordo del letto, lo liberava.
« Joe? » domandò Nick, perplesso, quando riuscì finalmente a parlare, « Tu non puoi stare qui a quest'ora. »
« Lo so, ma il pericolo è il mio mestiere, » rispose con una risata Joe, arruffandogli i capelli, « Mi sentivo in colpa per oggi, » aggiunse, tornando serio, « Non volevo, cioè, insomma, non era mia... insomma, scusa. »
« Joe, non è il caso di– »
« No, ascoltami, » lo interruppe il maggiore, « Scusami, ho avuto paura: quando sei svenuto ho avuto paura di non vederti più riaprire gli occhi, non hai la minima idea di cosa mi sia passato per la testa in quel momento. »
« Joey, » mormorò Nick, di nuovo sul punto di piangere, « Tu e Kev continuerete a trattarmi come sempre? »
« Qualunque cosa succeda, » gli assicurò Joe, tirandolo a sè con un braccio, « Per noi sei sempre il nostro Nicky. »
Nick si appoggiò alla spalla del fratello, fissando il soffitto e sentendo le lacrime pungergli gli occhi e scivolare sulle guance: parlarono, parlarono un sacco quella notte, e Joe era lì, ad ascoltarlo, a cercare sempre di strappargli un sorriso quando la voce gli tremava troppo e a riuscire ad ottenere in risposta soltanto un singhiozzo, a dirgli che non sarebbe cambiato nulla. Il piccolo si addormentò tranquillamente, il sorriso sulle labbra, la testa ancora appoggiata al fratello: si sentiva al sicuro, perché sapeva di non essere da solo, e che non lo sarebbe mai stato realmente.
Quando Joe fu sicuro che l'altro dormisse, lo spostò piano, facendogli scivolare la testa sul cuscino e provvedendo a rimboccargli le coperte.
« 'notte Nicky, » gli bisbigliò, schioccandogli un bacio sulla fronte. Con cautela, si allontanò dal letto e, uscito dalla stanza, socchiuse la porta.

Due anni, erano passati due anni dalla prima volta che era finito in ospedale per colpa del diabete, ed ora, invece, ci andava regolarmente due volte al mese, nemmeno curandosi più dell'infermiera che si premurava di informarlo che stava per infilargli il maledettissimo ago nel braccio per il prelievo: erano passati due anni, e non erano più una band sconosciuta, erano diventati famosi, tremendamente famosi, e la notizia del suo diabete, in qualche modo, era saltata fuori, ed ora era di dominio pubblico. Aveva perso il conto di quante volte era stato male durante un concerto per colpa della glicemia, ma adesso incastrare iniezioni, interviste, concerti e visite all'ospedale era un gioco da ragazzi: era diventata una routine, anche se era inevitabile che continuasse a pensare che avrebbe pagato oro per potersi risparmiare tutto quello, e ancora gli veniva da ridere ricordandosi perfettamente che, la prima volta che era svenuto, la sua preoccupazione più grande prima di perdere completamente i sensi era stata quella di spaccarsi la testa sul marciapiede contro il quale stava per schiantarsi.
« Nick, » lo chiamò Joe, entrando nel camerino, « I ragazzi vogliono fare una partita a basket, andiamo a fargli vedere come si gioca sul serio? »
« Arrivo, » borbottò Nick, chiudendo il quaderno sul quale stava scarabocchiando, colto alla sprovvista: da quando erano in Canada per girare Camp Rock, a volte si dimenticava che c'era talmente tanta gente che scorrazzava sul set da potersi scordare la privacy.
« Cos'è? » chiese il maggiore, seguendo con la coda dell'occhio un foglio scappato dal blocnotes di Nick e finito a terra, chinandosi a terra per raccoglierlo e dargli un'occhiata.
« Una canzone, » rispose in fretta l'altro, dandosi mentalmente dell'idiota per averla fatta finire a terra: non aveva seriamente intenzione di farla vedere ai fratelli, era stata più che altro una cosa scritta di getto per sfogarsi.
« Nicky, » Joe alzò gli occhi dal foglio, guardandolo.
« Cosa? » chiese lui, dubbioso, « Fa schifo? »
« No, non è quello, » scosse subito la testa il maggiore, prima di andare a poggiare il foglio sul blocnnotes e tirare in piedi Nick dalla sedia, spingendolo fuori dal camerino, « Questa te la concedo, ma poi basta con le canzoni tristi, » lo ammonì con un sorriso, e Nick gongolò tra sé e sé, intuendo che era il modo del fratello per dirgli che gli piaceva.
« Parola di lupetto, » dichiarò il minore con una risata, poggiandosi la mano sinistra sul cuore e alzando l'altra.
Non aveva avuto tutti i torti, un po' più a lungo e sarebbe stato bene: Joe era lì, e niente sarebbe potuto andare storto.
 
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VOTO: (1 voto, 1 commento)
 
COMMENTI:
Trovato 1 commento
chibilucre - Voto: 07/01/09 18:55
ke carini! la scoperta di nick del suo diabete era diversa, ma anke qst versione nn è male! lo ammetto: è MEGLIO!
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