da una serie originale:
"IL TRIONFO DEL TRIO PANZA"
una fanfiction di:

Generi:
Comico - Autobiografico - Introspettivo
Avvisi:
AU - One Shot
Rating:
Per Tutte le età

Anteprima:
Frutto della mia mente malata. non ho voglia di descriverlo >_>\'

Conclusa: Sì

Fanfiction pubblicata il 07/09/2008 03:22:57
 
ABC ABC ABC ABC




... boh.

C’è qualcosa di veramente dolce nell’avere degli amici. Nel sapere che, se starai male, loro ti saranno accanto a farti, a seconda della ricetta data dalla nonna di turno, brodo di pollo, brandy e acqua e zucchero o latte col miele. Nel decidere di punto in bianco di fare qualcosa insieme e improvvisarlo, traendo un piacere infantile nei disastri combinati. Nel trovare emozionante la preparazione di una torta e nella pulizia della cucina. Nel potersi svegliare e trovarseli accanto, ancora assopiti, ancora col volto rilassato e l’espressione da bambini, ancora vulnerabili. Credo che gli amici siano, forse, più importanti della famiglia. La famiglia capita e ci sarà sempre, qualunque cosa accada. Certo, fatta eccezione per lutti, omicidi, tradimenti o violenze di varia entità. Comunque, la famiglia generalmente resta sempre. E diventa una famiglia litigiosa oppure contenuta, a seconda di come i caratteri dei diversi membri riescano a smussarsi e ad adattarsi gli uni agli altri. Con gli amici invece è diverso. Li cerchi e, con fatica o per caso, li scovi. E dopo che li hai scovati e hai scoperto, con meraviglia e gioia, che sono ciò che sognavi – o ciò che avresti sognato, se avessi saputo della loro esistenza – desideri non staccartene più, averli sempre accanto. E la cosa ancora più meravigliosa è sapere che loro provano lo stesso.
Gli amici sono rari. Non sono quelli con cui esci ogni tanto o quelli che ti capita di incontrare o sentire. Sono quelli con cui non vorresti mai avere litigi, che vorresti ti seguissero sempre lungo la via, che desideri proteggere da qualunque male. Sono coloro per cui daresti la vita, il sangue, tutte le ossa che hai nel corpo. Sono tutto.
E so che forse sono io a vedere le cose in modo un po’ troppo roseo, però penso che sia così. E dico che lo penso perché di amici non ne ho mai avuti.
La mia casetta è al limitare del bosco. È ricavata dall’involucro di una zucca gigante e, ultimamente, sta cominciando a marcire. Il tetto si sfalda e, a volte, mi cade sulla testa, sporcandomi i capelli e facendomi puzzare. Non racconterò come sono arrivata qui, né perchè. Non so perché, ma sento che non è importante.
Da qui non passa mai nessuno. Ci siamo solo io, le mie fantasie e le canzoni che mi canto da sola. A volte parlo con chi non c’è ancora e mi sento meno sola, ma quando la gola arriva a farmi male attorno ho solo il silenzio e la tristezza cala senza che io possa fare nulla.
Ma ora ho deciso. Me ne andrò da qui, tanto la zuccasa sta marcendo e presto non esisterà più. Dirò addio a tutto ciò che è stato mio e non mi ha mai dato nulla e partirò. Oltrepasserò la foresta e troverò qualcosa, che siano gli amici che volevo o la morte.
‘Potresti trovare qualcosa di peggio’ mi dice Pu.
Pu è la prima amica che ho inventato. Credo che venga dal posticino più dolce che ho dentro, perché parlare con lei è come parlare con lo zucchero. A volte è fragile come vetro; forse è nata dalle lacrime che non riesco a piangere e che si sono congelate.
- Cosa c’è peggio della solitudine? – le chiedo, mettendo in una sacca di iuta una borraccia piena d’acqua e qualche forma di pane.
‘Delusioni, rancore, cattiveria. Forse ci sono altre zuccase, forse ci sono anche delle fungocase o delle carotecase in cui cercare rifugio’ mi fa notare Pu.
- Non so cosa ci sarà là, ma voglio andarci comunque. – sbuffo, un po’ seccata.
‘Ha ragione lei, Pu. Deve uscire da qui. Che senso ha vivere se nessuno sa che esisti?’ a parlare è stato Laz, con la voce calma che sa di saggezza che usa quando cerca di fare ragionare Pu.
‘Noi lo sappiamo’ gli fece notare Pu ‘Se Lei si fa male mentre è fuori…’
‘Noi non lo sappiamo e non lo sapremo finché non ci avrà trovati fuori’
- Non capisco nemmeno io perché – dico a Pu, sbuffando – Ma sento che devo andare.
Sento che Pu è triste, ma sento anche che capirà. Pu mi vuole bene, sento che me ne vuole così tanto che vorrebbe che andassi senza volerlo realmente. È un discorso contorto. Ma, se ci penso a fondo, mi accorgo che Pu sono io e che anche se lei mi vuole bene, in realtà non c’è nessuno a volermi bene. Ed è per questo che devo andare, prima di impazzire del tutto.
- Allora, si parte! – annuncio, mettendo piede fuori dalla zuccasa ed evitando per un soffio un pezzo di tetto, che si spiaccica a un metro da me.
‘Noi non veniamo’ mi dice Laz, con un sorriso triste.
‘Non possiamo’ aggiunge Pu, triste.
- Perché? No, come posso andare senza di voi? Sarei sola – protesto, non capendo perché mi sia tolta la piccola gioia di averli vicino. Sento che senza di loro sarei triste e piangerei e ne sentirei la mancanza. E anche se sono solo pezzetti di me, so che dicono la verità e che se lo dicono così, vuol dire che proprio non possono seguirmi.
‘Lo sarai per poco. Dovrai solo trovarci’ mi rassicura Laz.
- Come posso trovarvi qui fuori, se voi rimanete lì? – chiedo, sentendo che potrei piangere. Non mi piace piangere davanti a qualcuno che non sono io, anche se tecnicamente loro sono me. Ed è decisamente difficile fuggire dal proprio sguardo.
‘Lo capirai quando ci avrai trovati’ mi dice Pu, triste ‘Dai, cammina. Prima cominci a cercare, prima potrai trovarci’
- E come faccio a riconoscervi? Come siete fatti?
Loro sono pezzi di me. Non ho idea di come siano fatti. Sono fatti come la mia mano, come la mia gamba, come i miei capelli? Sono fili della mia voce che si muovono nell’aria o scintille di fuoco o calore di luna? E se fossero fili d’erba e li calpestassi? E se fossero acqua e io li bevessi?
‘Ci troverai e ci riconoscerai. È tempo di andare’ mi dice Laz.
- Mi mancherete.
‘Anche tu ci mancherai’
E mi allontano, dando le spalle ad un passato che non so come chiamare, sapendo che, finalmente, posso piangere senza farmi vedere da nessuno.

La foresta è grande. Gli alberi sono alti e nascondono il sole, è come se fosse sempre tarda sera. L’unico cambiamento arriva con la notte, quando i passerotti si trasformano in urlanti pipistrelli e le ombre si allungano e cercano di ghermire anziché riparare. La foresta di notte fa paura, ma canto finché non mi addormento e mi sveglio che esisto ancora. Camminare è faticoso e mi fa pensare. Almeno, è il silenzio che mi fa pensare. A volte cerco di imitare le voci di Laz e Pu, ma non è come se parlassi con loro, è semplicemente come se parlassi da sola. E non mi piace, né mi dà conforto. Cantare invece mi piace, perché non mi fa pensare al fatto che non c’è nessuno ad ascoltarmi e il cammino diventa meno faticoso, i muscoli non fanno più male e a tratti mi sembra di essere felice. Cammino costeggiando un fiume, per questo l’acqua non mi manca mai e posso anche fare tutti i bagni che voglio.
Questa mattina mi sono accorta di aver finito il pane e ho deciso di pescare un pesce. Mi sono tuffata in acqua e ho cercato di afferrarne uno con le mani. Scappavano tutti in un guizzo argentato che mi faceva sbuffare, per questo ho deciso di cambiare tattica. Mi sono seduta sulla sponda del fiume e dopo un po’ è comparso un pesce grande e dalla faccia imbranata. Mi piaceva la faccia imbranata che aveva, ma sapevo che avrei potuto prendere solo un pesce imbranato, perciò ho allungato le braccia e l’ho preso.
Lui ha gridato e ha cercato di divincolarsi, ma l’ho tenuto stretto anche se aveva la pelle scivolosa.
- Che fai, pazza? Rimettimi in acqua o morirò! Morirò!
- Non posso rimetterti in acqua, devo mangiarti o sarò io a morire – gli ho detto, combattuta.
- Ho moglie e uova, non posso morire – mi ha detto il pesce imbranato – Ti prego, lasciami vivere.
- Ho fame e devo trovare i miei amici – ho ribattuto – ti prego, lascia che ti mangi.
- Ti aiuterò a trovare gli amici che cerchi, se mi lascerai andare.
- Davvero?
- Te lo prometto, ma adesso lasciami andare o morirò!
Lo rimisi in acqua e lui guizzò via, veloce come un fulmine.
- Ehi! Dovevi aiutarmi! – protesto, picchiando l’acqua con una mano.
- Non lo sai che non ci si deve fidare degli sconosciuti? Hai cercato di uccidermi, non ti aiuterò!
E insultandomi con un gestaccio della coda, si allontana sdegnato.
Ho fame e ho le mani che puzzano di pesce. Ripenso a quando Pu mi ha detto di non andare, perché avrei trovato cose cattive e penso di aver capito cosa voleva dire. Mi sono fidata e sono stata tradita.
Però, in fondo so di aver fatto bene a lasciare andare quel pesce. Forse qualcuno ha ascoltato la promessa che mi ha fatto e deciderà di aiutarmi. Mi sciacquo le mani nell’acqua per lavare via l’odore di menzogna che ha lasciato il pesce imbranato e mi allontano, ascoltando il mio stomaco che brontola, augurandomi forse il buongiorno.
Questa volta il mio è un canto affamato. Ma canto comunque e questo mi dà forza. Mi chiedo come debba essere bello cantare con qualcuno che mi canta accanto. Magari qualcuno che stona. Se qualcuno stonasse, trattando male una canzone che si fida lasciandosi cantare, mi arrabbierei o mi divertirei? Voglio saperlo e continuo a cercare.
Poco a poco gli alberi cominciano a diminuire. Diventano sempre meno incombenti, più bassi e si distanziano sempre di più gli uni dagli altri. Il sentiero lungo il fiume non è più fatto di terra, ma di sassi quadrati che hanno tutti la stessa grandezza. Chi li avrà messi tutti così? È un gran lavoro per una sola persona. Magari sono in tanti e magari sono ancora qui… pensandolo, mi metto a correre e a chiamare e a cantare per la gioia, ma non risponde nessuno e capisco che qui non c’è nessuno.
La corsa mi ha stancata e mi devo sedere e lo faccio su questi sassi duri e ruvidi che non mi piacciono per niente. Dov’è la carezza della terra morbida, il solletico dell’erba sulla pelle, il dispetto di un sasso che punge premendo contro la carne? Nono, qui non va proprio. Sbuffo e di nuovo sento la fame. Stupido pesce imbranato e bugiardo! Se lo rivedo, gliela farò certamente pagare.
L’acqua scroscia e scorre, come se mi stesse chiamando. La raggiungo e la bevo, mi sciacquo, mi rinfresco. La corsa mi ha sfinita, ma presto ricomincerò a camminare, perché se mi arrendo per così poco allora non merito di trovare nulla.
- Allora, si riparte! – mi dico, alzando un braccio verso il cielo che finalmente riesco a vedere.
Continuo a camminare lungo questo sentiero brutto e irritantemente regolare e scopro che in alcuni punti l’erba è riuscita a rompere la continuità dei sassi e a spuntare, dispettosa e ribelle, in verdi ciuffi vitali. Sia chiaro, non ho nulla contro i sassi, ma questi in particolare mi stanno un po’ antipatici. Così inquadrati, così uguali tra loro. Nessuno che spunti un poco più in alto o che si nasconda. Non hanno personalità e mi fanno paura.
Camminando, scopro che la foresta finisce. Non credevo fosse possibile. È così incredibile che non riesco a stare in piedi e le gambe cedono e sbattono contro questi sassi crudeli, che mi fanno sanguinare. Ma il dolore non riesce a distrarmi.
C’è una distesa d’erba gigantesca, infinita, eppure ormai capisco che prima o poi avrà fine e lascerà spazio a qualcos’altro e mi viene da piangere e nemmeno so perché, eppure non riesco a fermarmi.
- Che hai da piangere? Ti sei fatta male? – mi chiede uno scoiattolo – Stai sanguinando.
- Non sono i graffi a fare male. È il cuore, la gola, la testa. Dentro, dentro. – gli spiego, tra le lacrime e la voce mi esce così strana che credo non riuscirei nemmeno a cantare in questo momento – Però è un dolore bello.
- Ah, sì, sì! Conosco quel dolore. Non preoccuparti, passerà presto e lascerà qualcosa di bello. – mi dice lo scoiattolo, annuendo con aria saputa.
- E che cosa sarà?
- Non posso spiegartelo. Ma sarà bello e basta.
- Va bene. – dico, annuendo.
Mi sforzo e mi alzo e comincio a camminare.
- Allora, non si saluta? – dice lo scoiattolo, scocciato.
- Oh, è vero! Si saluta quando si va via, vero? Allora ti saluto, scoiattolo!
- E io saluto te, ragazza con le ginocchia che sanguinano!
Mi allontano e mi asciugo le lacrime e poco a poco dentro fa meno male, finché non riesco a cantare di nuovo. L’erba mi arriva più in su delle caviglie e mi fa solletico. È più verde e più delicata di quella che c’era nella foresta. Mi fa sorridere, mi fa ridere, mi fa sperare e sentire felice. Ora ne sono sicura, troverò Pu e Laz e saremo felici. Che sia sottoforma di pesci imbranati, scoiattoli saggi o fili d’erba, so che quando li troverò saprò riconoscerli e riuscirò a non fare loro del male.
Cammino, cammino, finché il cielo diventa nero. Le stelle non le avevo mai viste brillare così tanto e sono così belle che le controllo una ad una, per controllare che Pu e Laz non siano lassù ad aspettarmi. Ma lassù non c’è traccia di Pu e Laz e, anche se è buio, continuo a camminare. Sono ancora impegnata a controllare il cielo, quando sbatto contro qualcosa di duro e freddo e cado all’indietro urlando.
Sbatto gli occhi e vedo un intricato ammasso di rami scuri che s’innalzano tutti verso lo stesso punto. O almeno, credevo fossero rami, ma poi scopro che questo strano coso freddo non è altro che una strana porta fatta di pali freddi. Non avevo mai visto nulla del genere e rimango ad osservarla per un po’, finché non vedo cosa c’è dietro. È una strana costruzione, gigantesca e spaventevole, ma capisco che è una casa, proprio come lo era la mia zuccasa. Ma questa casa è già morta da tanto, tanto tempo e mi chiedo se qualcuno riesca ad abitarci dentro.
Eppure capisco che non è vuota.
La porta di rami freddi è aperta e vi passo, lasciandola scricchiolare sinistramente.
Percorro il corto, regolare sentiero di sassi crudeli, fino ad arrivare alla porta della grande casa cattiva. È cattiva e lo so per certo, perché mi guarda con aria malevola dalle grandi finestre. Solo una è illuminata, anche se fiocamente e capisco che è lì che devo andare, che quella è l’unica stanza ancora viva della casa morta. Ma so anche che devo sbrigarmi ad andarci e salvarla, altrimenti finirà per marcire.
Spingo la porta che, pesante, si apre protestando cattiverie che mi rifiuto di ascoltare e mi ritrovo dentro il cadavere della casa.
È buia, fredda, così tanto che mi sento tremare come se fossi congelata. Ho paura. Ma so che qui c’è qualcosa d’importante e, anche se vorrei tanto correre lontano, non potrei mai farlo senza provare un dolore fortissimo dentro, un dolore che non si lascerebbe dietro qualcosa di bello, un dolore che m’impedirebbe per sempre di cantare e ridere e gioire dell’erba che mi fa il solletico.
Per farmi coraggio, comincio a cantare e comincio a girare per il cadavere.
Salgo scale e apro altre porte, visito stanze. È tutto immerso nel buio, tutto fatto di sassi freddi e regolari, tutto fatto di legno che ha smesso di vivere da tanto tempo. Perché tutto questo non marcisce, cadendo su sé stesso in chiazze umide e puzzolenti?
Canto, canto e spingo un’altra porta.
Questa si apre facilmente e sento che è calda. Non del calore di ciò che grida prima di morire, ma tiepida come qualcosa di vivo.
In questa stanza trovo qualcosa adagiato su quello che credo sia un giaciglio polveroso. Vi poso la mano. È un giaciglio duro, bianco, che non profuma di paglia o di erba, ma di lacrime e solitudine. Guardo la cosa che c’è sopra e trovo Pu.
È lei, ne sono sicura.
Ha due braccia e due gambe come me e una testa con tanti bellissimi capelli biondi. Vorrei svegliarla, ma so che è stanca perché ha pianto tanto e decido che è meglio lasciarla riposare. Mi sdraio accanto a lei e, con lo stomaco che gorgoglia per la fame e per la gioia, mi addormento.
Mi sveglio sentendomi avvolgere. Mi lascio avvolgere e avvolgo a mia volta, con le braccia, Pu. Ma non mi basta e l’avvolgo anche con le gambe e le metto la testa sulla spalla, perché voglio avvolgerla con tutto ciò che possiedo.
- Visto che ti ho trovata, Pu? – le dico, avvolgendola anche con la voce.
- Ti ho aspettata tanto, Deddola! – mi dice lei.
E mi cade una lacrima e capisco che Pu mi ha avvolta col mio stesso nome. E sono felice.
- Mi sono sentita sola a cercarti senza la tua voce!
- Anch’io sono stata sola, perché da quando sei partita non potevo più sentirti.
- Adesso dobbiamo andare, però.
- Abbiamo Laz da trovare. – dice Pu, annuendo e mostrandomi come sa sorridere bene – Che bello, potrò trovare qualcuno anch’io!
Io e Pu scendiamo dal letto e ci teniamo per mano. È la sensazione più bella del mondo, il tenersi per mano e sentire il sudore di una mano che non vuole lasciarti andare e scivola nella tua stretta.
Scendiamo nella casa che sembra un po’ meno morta e le celebriamo un bel funerale, mangiando pannocchie e dolci e biscotti. Scopro così che è bello mangiare con qualcuno accanto e mi viene da piangere, ma anziché piangere rido e Pu ride con me. Dopo aver fatto colazione, usciamo dalla casa morta e, non appena varchiamo la porta di rami freddi (Pu la chiama ‘cancello’), la porta crolla su sé stessa, in un sofferente sbuffo. Pu la guarda per un po’ e non oso dirle nulla. So per istinto che per lei ha significato qualcosa e, anche se ho fretta di trovare Laz, credo sia giusto che la saluti. Per un po’ la guarda e poi, quando mi sembra che stia per mettersi a piangere, lascia andare la mia mano per improvvisare un megafono e urlare, rivolta alle macerie:
- Alla fine me ne sono andata, vecchia ciabatta!
Non dico nulla. Gli Amici fanno cose strane. Camminiamo e ci teniamo per mano, saltellando e cantando insieme per la radura. Pu ha una bella voce e un difetto di pronuncia che mi fa sorridere. Ha una ‘erre’ che non è una ‘erre’ e a me piace, anche se lei se ne vergogna. Quando Pu si vergogna nasconde il viso dietro le mani e scuote la testa e a me viene da ridere ancora di più. Sento che con Pu sono felice, più di quando sentivo la pioggia sulla pelle, più di quando sentivo l’argilla del fiume sotto i piedi, più di quando faceva tanto freddo e il caldo del fuoco mi riscaldava.
- Secondo te com’è Laz? – le domando, addentando un biscotto trafugato prima di lasciare la casa morta.
- Secondo me è un grande orso col muso da gatto e le orecchie da coniglio.
- E se fosse un piccolo procione con la coda da lucertola e le orecchie da elefante?
- E se fosse una foglia con sopra scritto ‘Benvenute’?
- E se fosse un sasso a forma di albero?
Non sappiamo come sia fatto e continuiamo a cercare. Durante la notte fa più freddo e ci abbracciamo strette ed è bello perché è morbida e fa caldo e perché so che anch’io riscaldo lei.
- E se non dovessimo riconoscere Laz? – mi domanda lei, camminando su un tronco caduto e rischiando di cadere.
- Ci siamo riconosciute tra noi, riconosceremo anche lui – le rispondo, afferrandole un braccio per non farla cadere.
- E se invece di riconoscerlo passiamo avanti?
- Lo riconosceremo a prima vista.
- E se invece non lo vediamo nemmeno perché siamo distratte?
- So che lo troveremo, perché siamo partite.
Camminiamo felici, ballando e danzando e stringendoci le mani. Pu arriva più in alto di me e riesce a prendere la frutta che sta sugli alberi. Non le piace, ma la prende per me e io ne sono felice. Pu mi racconta della casa morta, che si stava putrefacendo da anni e mi spiega che era da tanto che cercava di fare morire dentro anche lei, senza riuscirci. Racconta di come è stato bello avere me e Laz che le parlavamo e volevamo bene, anche se inizialmente pensava fossimo una parte di lei che era impazzita e le teneva compagnia. Le dico che anch’io mi sentivo tanto sola, là dov’ero nella mia zuccasa e che se non ci fossero stati lei e Laz mi sarei tolta il respiro fino al buio tuffandomi nel fiume, perché il silenzio del nulla che risponde faceva troppo male. E tutt’e due diciamo, contente ‘Meno male che hai resistito!’ e ci diamo la mano e ridiamo e danziamo.
Il silenzio è lontano.
La notte dormiamo di nuovo abbracciate e contente. Il giorno dopo però ci svegliamo sudate e puzzolenti e decidiamo di gettarci nel fiume a lavare via l’odore cattivo e succede una cosa strana: non solo ci laviamo, ma cominciamo a divertirci tirandoci l’acqua e facendoci gli scherzi.
Usciamo dall’acqua e ricominciamo a cercare Laz, contente a bagnate.
- Sai cosa mi hanno raccontato che fanno le persone, quando si vogliono bene? – mi dice Pu, tenendomi la mano.
- Cosa fanno?
- È una cosa strana. Allora, si avvicinano la facce poco a poco, poco a poco e poi le labbra si toccano e fa un rumore strano, tipo ‘Pchù!’ e si chiama ‘Bacio’. – mi spiega, allegra.
- È una cosa strana… chissà a cosa serve! – commento io.
E allora ci avviciniamo nello stesso momento, le labbra s’incontrano e facciamo ‘Pchù!’ davvero!
Ridiamo e capiamo perché esiste il Bacio e lo facciamo ancora.
- Quando troviamo Laz facciamo fare ‘Pchù’ anche a lui – dice Pu, allegra.
- E se Laz non vuole fare Pchù con noi?
- Laz ci vuole bene e farà Pchù con noi.
- E se incontrandoci scopriamo che non ci vuole bene?
- Siamo partite. Ci vorrà bene.
La notte dormiamo abbracciate e augurandoci un buon sonno con un Pchù. Scopro così che il Pchù è come una magia per dormire bene e la notte è dolce e il vento ci accarezza e ci fa Pchù. Il Pchù è contagioso, perché mi sembra lo stiano facendo anche le foglie sui rami e i pipistrelli nel cielo e vedo persino una stella che si avvicina, in una corsa velocissima, ad un’altra, per farle fare Pchù.
Dormiamo e ci svegliamo riposate. Mangiamo gli ultimi biscotti e ricominciamo a camminare e a cantare.
Ad un certo punto arriviamo davanti a quello che Pu chiama ‘ponte’. È fatto di corda e legno marcio e scricchiola se ci metti il piede.
- Sembra pericoloso. – commenta Pu, osservandolo mentre si scuote al vento.
- Deve esserlo. – replico io.
- Eppure…
- Sì.
- Dobbiamo attraversarlo. – conclude lei.
Tenendoci per mano, impaurite, cominciamo ad attraversare il ponte. Scricchiola, si muove e vedo che Pu piange. Eppure, non si lamenta né dice di tornare indietro. Anche lei sente quanto è importante ciò che c’è oltre. Ci stringiamo le mani forte, così forte che la mia fa male e sento anche il dolore di quella di Pu. Eppure non allentiamo la presa.
- Ehi, ragazza stupida!
Guardo giù, sentendo la voce del pesce imbranato.
- Cosa vuoi, pesce bugiardo? – gli chiedo, ancora arrabbiata per come mi ha preso in giro quando non ero ancora Deddola.
- Volevo vivere e ti ho mentito – mi dice lui – Ma ti ripagherò salvandoti la vita.
- E come? – gli domando.
- L’ultima tavola del ponte è marcia e pericolante e se ci mettete il piede, si spezzerà sicuramente, facendovi cadere e annegare, perché qui la corrente è forte e assassina.
- Dici sul serio? – gli chiedo, memore della sua menzogna.
- Te lo giuro sui miei pesciolini, usciti dalle uova e che ho potuto vedere perché mi hai lasciato vivere.
- Va bene, allora! Ti ringrazio, pesce riconoscente.
Lui se ne va con un guizzo di coda e io e Pu continuiamo a percorrere il ponte. Saltiamo l’ultima tavola e arriviamo salve sull’altra sponda. Con un piede, do un colpetto alla tavola marcia, che immediatamente si sfracella nell’acqua e viene trascinata via. Sento Pu singultare dalla paura e sento che mi tremano le ginocchia.
Ma dobbiamo andare avanti. Ci prendiamo per mano e continuiamo a camminare, guidate dall’importanza di ciò che dobbiamo trovare. E camminiamo, camminiamo.
E troviamo un posto stranissimo, che nessuna delle due sapeva come chiamare. C’erano tante case fatte come quella di Pu, solo che non era solo una ad essere morta, ma lo erano tutte. Grigie, impolverate, con le finestre che pendevano come brandelli di pelle ferita o lacrime dalle ciglia. Camminavamo, ascoltando il suono lugubre del vento che fischiava, intimandoci di andarcene. Ma noi ci teniamo per mano e cantiamo per farci coraggio e continuiamo a camminare.
La polvere si alza e ci colpisce negli occhi, facendoli lacrimare, ma noi li asciughiamo e andiamo avanti. Allora la polvere ci fa seccare la bocca, impedendoci di cantare. Ma allora le nostre mani si stringono più forte per farci coraggio e andiamo avanti.
Ad un certo punto, sentiamo qualcosa che ci chiama e cerchiamo di raggiungerlo.
È una casa che non è morta, anzi, è viva e ci chiama.
È pulita e la porta è spalancata per noi. Ha un odore di vita ed entriamo, sicure di aver quasi trovato ciò che cerchiamo. Eppure, sentiamo che questa casa non è una casa normale. Ha un tavolo lungo dietro al quale stanno tantissime bottiglie trasparenti piene fino all’orlo di liquidi strani, tutti di colori diversi.
E accasciato sul bancone, con la testa capellutissima nascosta dalle braccia incrociate, troviamo il nostro Laz, addormentato.
- LAAAAAZ! – lo chiamiamo, urlando e lui alza di scatto la testa e ci chiama a sua volta, allargando le braccia che ci accolgono con calore.
- Ti abbiamo cercato tanto! – gli dice Pu – Mi sei mancato da quando sono uscita dalla casa morta.
- Sei mancato anche a me da quando sono partita dalla zuccasa.
- Anche voi mi siete mancate, da quando siete partite. – dice lui, stringendoci forte.
E scopriamo insieme che Laz è buffo e saggio come lo ricordavamo quando ancora non l’avevamo trovato e che non c’è nulla che possa essere più meraviglioso di un abbraccio a sei braccia. E scopro che è stupendo quando ci prendiamo tutti in giro e quando ci accarezziamo a vicenda e che a volte è bello essere piccoli, perché si viene abbracciati meglio.
Pu si siede su una gamba di Laz e io sull’altra. Scopriamo che io e Pu siamo più simili tra di noi di quanto lo siamo con Laz, perché lui è più grande e ha molti più peli e ha una voce diversa, che però esprime lo stesso affetto caldo.
- Cosa sono le bottiglie lì dietro? – domanda Pu.
- Quelli sono liquori. So che sono buoni, ma non li ho mai assaggiati perché volevo aspettarvi e brindare insieme.
- Cosa vuol dire brindare? – domando io.
- Vuol dire che versiamo i liquori in tre bicchieri e poi beviamo festeggiando qualcosa.
- Sembra una bella cosa. – commenta Pu e Laz si alza per prendere i bicchieri e i liquori.
Scopriamo che Laz sa far girare le bottiglie e che ne va così orgoglioso che si distrae e ne fa quasi cadere una. Scopriamo che è difficile fare dei brindisi azzeccati, perché proprio non riusciamo a trovarne uno che riesca a soddisfare tutti e tre. Scopriamo che, anche se ci vogliamo bene, siamo tutti diversi e che questo può portarci a ferirci a vicenda, ma che poi è facile abbracciarsi e consolarsi e questo si chiama ‘fare pace’. Scopriamo, alla fine, che i liquori hanno un sapore forte che può essere davvero fastidioso e fare tossire eppure fa tanto calore.
- Al trio Panza! – dico, alzandomi in piedi e alzando il bicchiere.
- Al trio Panza! – fanno eco i miei Amici.
E io sento di non essere mai stata così felice.
Quella sera dormiamo su quella specie di giaciglio che avevo visto anche nella casa morta di Pu e che scopro chiamarsi ‘Letto’. È bello dormire accoccolati, anche se fa caldo e sudiamo e finiremo per puzzare come è successo ieri con Ai. Scopriamo che esiste una variante divertente del Pchù che si chiama Prrrr e ce la facciamo a vicenda, scherzando fino a cadere addormentati l’uno sull’altro in un groviglio scomposto e singolarmente comodo.
Il mattino dopo ci alziamo e mangiamo tutti insieme. Scopriamo che Pu ai fornelli non se la cava per nulla e che io faccio casini. Scopriamo anche che Laz è paziente e che l’alcool ha effetti strani e fa barcollare e biascicare. Scopriamo che è bello quando qualcuno cucina per te e che è ancora più bello quando qualcuno mangia qualcosa di cattivo solo per farti piacere perché l’hai cucinato tu.
Quel mattino, scopriamo di non essere soli.
Da noi è arrivata Kana. Ci parla e ci tiene compagnia. Pensavamo di non averne più bisogno, eppure sentiamo tutti e tre di volerla vedere.
Sappiamo che fare.
‘Fate buon viaggio’ ci dice Kana.
- Non preoccuparti! Riusciremo a trovarti. – le dice Pu, convinta ed esultante.
- Certo. Io sono espertissima in queste cose, ormai. – aggiungo, orgogliosa.
- Spaccona. – mi dice Laz.
- Novellino. – replico.
E scopriamo cosa vuol dire essere permalosi.
‘Spero che ci rivedremo presto…’




FINE
 
 
 
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