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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: LA MEZZA
Genere: Romantico, Fantasy
Rating: Per Tutte le età
Autore: -ste-chan- galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 11/08/2008 14:28:43

questa e' la mia prima fanfic...enjoy
 
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RITORNO A CASA
- Capitolo 1° -

Pioveva. Non che mi fossi aspettata altro da questa cittadina…Qui piove sempre. Il Sole si vede soltanto in rare occasioni oppure su poster e cartoline. Sembra quasi che non esistano le stagioni, tanto il tempo è sempre lo stesso. Probabilmente mi aspettavo che dopo tre anni passati lontano di casa qualcosa fosse cambiato, ma non è stato così. Qui è tutto spento, grigio, come le nuvole che coprono perennemente il cielo. Le case, piccole e grigie, si adattano perfettamente all’atmosfera spenta di questo paesino sperduto. Lesna mi aveva sempre messo tristezza. Forse per i suoi colori spenti, forse per la pioggia, o forse per alcuni ricordi dolorosi legati alla mia infanzia che mi trafiggevano ancora come pugnali. Soltanto il pensiero del ritorno in questa misera cittadina mi aveva rovinato gli ultimi mesi nella soleggiata Italia, torturandomi giorno e notte. La fatidica data della partenza era stata costantemente in agguato, facendo capolino nella mia mente più e più volte, terrorizzandomi. Gli ultimi giorni erano stati i più duri: avevo detto definitivamente addio al sole e ai pantaloncini corti, pronta per maglioni di lana, impermeabili e ombrelli. Peccato che il mio l’avessi lasciato in Italia. Ero quasi sicura che fosse sul mio letto, vicino alla finestra.
Guardai l’orologio e sorrisi: era in ritardo, come al solito. Mi strinsi l’impermeabile attorno alla vita nel vano tentativo di scaldarmi un po’ e di proteggermi dall’umidità che si attaccava alla pelle. Ero consapevole del fatto che non si sarebbe fermata di fronte al mio impermeabile. Chiusi gli occhi e alzai la testa senza aprirli: la pioggia mi cadeva sul viso e mi appiccicava i capelli alla fronte, l’umidità penetrava nella carne fino a raggiungere le ossa. Sentivo la mancanza del sole caldo abbagliante dell’Italia, del lieve vento che ti scivolava sul corpo e ti avvolgeva dolcemente. Mi lasciai sfuggire un sospiro al pensiero che sarebbe passato ancora ben un mese prima della mia partenza. Scossi ridendo la testa ancora rivolta al cielo. Ero arrivata da soli venti minuti e già volevo andarmene, che record. Riaprii lentamente gli occhi e guardai in alto: le nuvole erano spesse e informi, ma lasciavano scoperto un brandello di cielo scuro dal quale si vedeva brillare debolmente la luna. La pioggia cadeva su di me come una cascata d’aghi dorati, scivolandomi lungo le guance come delle lacrime e provocandomi un brivido. Il silenzio irreale della via era rotto solo dal mio respiro e dal suono delicato e costante delle gocce che cadevano danzanti nelle pozzanghere. Ero sola sul marciapiede dissestato, sotto il fascio di un alto e grigio lampione.
« Jen! » il mio nome urlato dall’altro lato della strada mi fece sobbalzare. Sbattei le palpebre e tentai di guardare di là dall’acqua che continuava a cadere violenta. Una figura nera e indistinta si sbracciava, venendo a passo svelto verso di me. Le mie labbra si tesero in un sorriso e scesi velocemente dal marciapiede, avvicinandomi a grandi passi alla voce.
« Bentornata Jen! » Caterina apparve di fronte a me con un grosso ombrello nero e un gran sorriso sulle labbra.
La salutai con un sorriso timido, ma lei lasciò andare l’ombrello e mi abbracciò energicamente.
« Aiuto…Cate…non…respiro! » ansimai, cercando di fuggire dalle sue braccia stritolatrici. Lei rise e sciolse l’abbraccio, molto simile ad una presa da wrestling. Mi massaggiai il collo e feci due respiri profondi mentre lei raccoglieva l’ombrello da terra sghignazzando. Cate è fatta così, estroversa e sempre allegra. Lei, insieme ad una parte della mia famiglia, era l’unica cosa buona in questo posto che mi aveva convinta a tornare.
Mi ricomposi svelta, aggiustandomi i capelli dietro l’orecchio e sistemando l’impermeabile, poi presi Cate a braccetto e ci avviammo insieme sotto la pioggia. Lei mi guidava a passo svelto e sicuro verso il fondo della via e io la seguii quasi trascinandomi, con gli stivali così zuppi che facevano continuamente un rumore simile ad uno squittio. Sorrideva, come mi aspettavo. La osservai e non riuscii a trattenere lo stupore: era esattamente come tre anni prima, solo un po’ più alta e continuava ad assomigliarmi per lineamenti come una goccia d’acqua. Gli occhi, piccoli e profondi, s’incastravano a meraviglia su quel viso abbronzato e snello. Il naso era dritto, le labbra avevano mantenuto la loro curva morbida, gli zigomi erano nascosti dalla chioma folta e bruna. Anche il suo sguardo era lo stesso, sempre acceso da un entusiasmo senza origine, che illuminava gli occhi nocciola come un raggio di sole. Lei mi guardò un po’ imbarazzata dietro alle lunghe ciglia, forse a causa del mio sguardo fisso, poi scoppiò in una risata acuta e cristallina, simile ad un trillo di campane.
« Come hai fatto a dimenticarti l’ombrello? Lo sai che qui il tempo è sempre piovoso! Guardati, sembri un gatto bagnato! » Caterina mi teneva abbracciata a lei sotto l’ombrello, cercando di ripararmi dalla pioggia e scaldarmi.
Io le risposi con una linguaccia, poi scoppiai a ridere insieme a lei. La sua risata era uno dei ricordi legati alla mia infanzia a Lesna, e mi stupii quando capii quanto mi era mancata. Da piccolina Cate era sempre stata una grandissima amica prima che una sorella e, passando moltissimo tempo insieme (ridendo), la mia mente aveva ancora un ricordo molto vivido di quel suono magnifico. Fui sollevata nello scoprire che i tre anni in Italia non l’avevano cancellato.
« Non sei cambiata per nulla Cate, come ritardi e come aspetto, e io che pensavo chissà cosa » ridacchiai. Lei mi guardò divertita e poi rise di nuovo, stando al gioco.
« Neanche tu. Sembri sempre la stessa, anche come memoria » e indicò il suo ombrello alzando al cielo i suoi occhi divertiti con una smorfia ironica sulle labbra. Cate mi aveva sempre preso in giro per la facilità con cui dimenticavo qualunque cosa, importante o inutile che fosse. Aveva sempre paragonato la mia memoria ad un colino.
« Scusa, sono proprio una scema, ma avevo fretta di essere di nuovo qui » mormorai fissando la pioggia che scivolava dall’ombrello. Caterina s’illuminò in un sorriso tanto abbagliante da stordirmi e mi abbracciò così forte da mozzarmi il respiro.
La sua reazione scatenò il mio senso di colpa. Che bugia penosa. Io odiavo Lesna. Avevo scordato l’ombrello solo perché mentre facevo le valigie pensavo a come sfuggire al ritorno in questa misera città. Scossi la testa e sospirai: ormai ero qui e non potevo tornare indietro, quindi addio ai sensi di colpa.
Cate mi accompagnò abbracciata a sé fino alla sua macchina, una Musa beige, parcheggiata vicino al marciapiede. Purtroppo la portiera del passeggero era subito di fronte ad un’enorme pozzanghera e per salire mi bagnai tutte le scarpe.
Dentro l’abitacolo la temperatura era più alta, così tolsi la giacca, appoggiandola sul sedile posteriore. Mentre la sistemavo l’occhio mi cadde fuori dal finestrino e m’irrigidii.
Un’ombra era dietro di noi, immobile e incappucciata. L’unica cosa che notai furono gli occhi grigi, penetranti e furiosi, che mi bloccarono al sedile. Il suo sguardo era magnetico e, anche se terrorizzata, non riuscivo a staccarmene. Piccoli brividi mi percorsero le braccia, le gambe e la schiena, mentre il cuore pulsava ad un ritmo frenetico. Mi accorsi di trattenere il respiro quando sentii male alle costole e cercai di prendere una boccata d’ossigeno, ma i polmoni erano fuori uso. Chiusi gli occhi, ma li riaprii un istante dopo, stranamente avida di rincontrare quegli occhi freddi e rabbiosi.
Caterina aprì la portiera e si abbandonò seduta sul sedile con gli occhi chiusi. Sospirò, poi si voltò verso di me, ancora rigida e voltata all’indietro. Probabilmente credeva che la mia rigidità fosse colpa dell’aria gelida che entrava dalla portiera e così si affrettò a chiuderla, ma io non mi mossi.
« Che fai? » chiese ridendo ma con un filo d’apprensione e mi diede una pacca sulla spalla. Un altro brivido mi salì lungo la schiena, poi mi voltai. L’ombra era svanita appena prima che lei aprisse bocca.
Mi arrabattavo per trovare una giustificazione al mio comportamento e optai per la scusa del freddo.
« Scusa, lo sai che sono parecchio sensibile alle correnti improvvise… » sussurrai abbassando gli occhi. Detestavo doverle mentire, ma ero appena tornata e non volevo già turbarla con storie di spiriti e affini, quindi presi tra le mani una ciocca di capelli e l’arrotolai intorno al dito, sperando che il discorso morisse lì.
Cate si allacciò la cintura, mi sorrise comprensiva e mise in moto. Il motore si animò silenziosamente sotto il cofano brillante. Scese dal marciapiede e imboccò l’autostrada, schivando abilmente un cane. Era brava nella guida, nonostante avesse appena preso la patente.
« Allora sorellina, come stai? » mi chiese sorridente, mentre alzava il riscaldamento e accendeva la radio, abbassando il volume e riducendolo ad un suono di sottofondo. Pensai ironica che avevamo la stessa età, ma lei era convinta per chissà quale strana ragione che io ero più piccola.
Guardai la pioggia battere sul parabrezza e i tergicristalli muoversi frenetico. La pioggia m’intristiva.
« Bene » mentii, tentando d’essere convincente. Ero ancora un po’ scossa dallo sconosciuto che mi aveva fissato poco prima con i suoi occhi di ghiaccio. Rabbrividii. « E tu? » aggiunsi svelta girandomi verso di lei.
Lei sorrideva, ciondolando la testa al ritmo di una vecchissima canzone e battendo con le dita il tempo sul volante. Non capivo come facesse ad essere così allegra anche in un posto del genere.
« Benissimo! Non vedevo l’ora che tu tornassi. È stata una sorpresa, quando ci hai chiamato dall’Italia per dirci che saresti venuta a passare un po’ di tempo con noi: mamma è al settimo cielo » il suo sguardo era così entusiasta che non potei fare a meno di sorridere. Poi un pensiero mi balenò nella mente e la mia espressione s’irrigidì.
« C’è anche papà a casa? » chiesi piano, lo sguardo fisso sulle macchine che ci passavano a fianco.
Il suo sguardo s’incupì e le mani strinsero il volante. « No, ha detto che non vuole stare sotto il tuo stesso tetto ». Tirai un sospiro di sollievo e vidi Cate aggrottare lievemente la fronte.
« Sii comprensiva, ti prego » mi supplicò dolce lei, mentre imboccava l’uscita dell’autostrada.
« Non gli è ancora passata, eh? » domandai cauta. Appoggiai il gomito sul bracciolo e abbandonai la testa sul dorso della mano, osservando le gocce di pioggia che scivolavano dal parabrezza al finestrino laterale.
« No. Sai com’è: testardo e orgoglioso. Penso non cambierà mai idea » scosse sconfortata la testa.
« Va bene così, in fondo nemmeno io cambierò idea » puntualizzai secca sotto lo sguardo di rimprovero di Cate.
Ripensai a mio padre: fin dall’età di sette anni mi trattava in maniera molto diversa da Caterina e Laurie.
Da piccola mi ero sempre chiesta se la causa di ciò fosse il fatto che ero diversissima dalle mie due gemelle, ma a nove anni finalmente capii. Il problema era la mia capacità di vedere strani esseri che nessuno vedeva e quella mia strana voglia che avevo sul retro del collo, dietro l’orecchio, che testimoniava che ero una Mezza.
Mio padre non aveva mai saputo accettare il mio “dono”, né quello che ero, così aveva sempre tentato di allontanarmi da lui e dalla mia famiglia, ma senza riuscirci. Le mie sorelle erano affascinate dal fatto che fossi una Mezza e non condividevano il suo parere, così lui se n’era andato, lasciando mia madre con tre figlie piccole da crescere.
Laurie, Caterina ed io fummo obbligate a crescere in fretta, perché mia madre non aveva abbastanza tempo né soldi per giocattoli e sogni infantili. Forse fu anche per questo che già a quindici anni decisi di andarmene. Volevo che Caterina e Laurie potessero avere di più e se io me ne fossi andata, papà sarebbe tornato, riempiendole d’attenzioni.
Con l’aiuto di mia zia Suri riuscii a rintracciare la Mezza europea, la francese Madleine, e insieme andammo in Italia, verso la scuola delle Mezze.
« Come sta la zia Suri? » chiesi risvegliandomi dai miei pensieri.
Cate mi guardò con uno sguardo strano, come se mi sfuggisse qualcosa di ovvio, ma non perse il sorriso. « Non lo sai? Si è sposata quattro mesi fa…Adesso vive con Lucas nella casa di fianco alla nostra ».
Sbattei gli occhi, stupita. Possibile che io mi fossi persa una cosa così importante? Lei rise della mia espressione allibita, anche se sembrava leggermente sorpresa che non lo sapessi.
« C’è anche lei a casa che ti attende, insieme a Laurie e alla mamma » cinguettò felice facendomi l’occhiolino.
« C’è anche Laurie? ». Non sapevo se essere sbigottita o lusingata.
Come me, la mia bellissima gemella era stanca della pioggia, e così si era trasferita alle Hawaii due anni prima, nella casa di una mia lontana cugina. Era addirittura incredibile che avesse percorso tutta quella strada per venire a trovarmi.
Cate sorrise e annuì, divertita dal mio disorientamento. « Anche lei non stava più nella pelle. Appena ha saputo che saresti tornata si è precipitata qui col primo volo che è riuscita a prendere » spiegò.
Dopo il primo istante di sorpresa ridacchiai a bassa voce. Non mi aspettavo questo da Laurie, forse in mia assenza aveva deciso di maturare un po’. Dai ricordi che avevo di Laurie la sua immagine impressa nella mia memoria era quella di una bambina spontanea, che non aveva fretta di crescere.
« Eccoci arrivate! » la voce di Cate mi distrasse dai miei pensieri.
Dal finestrino bagnato intravidi la casa della mia infanzia. I muri avevano lo stesso colore di sempre, un pesca spento, e dalle finestre illuminate si scorgevano le ombre nere di figure muoversi agitate. Scesi cauta dalla macchina e rabbrividii per il repentino cambio di temperatura, infilando le mani gelate nelle lunghe maniche del maglione. Serrai le labbra istintivamente e mi avvicinai con passo incerto al baule per prendere la mia unica valigia. Cate nel frattempo spense la macchina e prese dal mio sedile l’impermeabile, poi mi raggiunse. Nel tentativo di sollevare il mio bagaglio per poco non caddi a terra. L’espressione di Cate passò in una frazione di secondo dallo stupore all’incredulità, poi si abbandonò ad una fragorosa risata e prese la valigia. Le lanciai un’occhiataccia, mentre lei s’incamminava dondolando per il peso della mia borsa.
Seguii Cate lungo il viottolo reso scivoloso dall’acqua, badando bene a non commettere passi falsi e raggiunsi l’ingresso dopo un tempo che sembrava eterno. Mi aggrappai al corrimano e salii i pochi scalini che portavano alla porta. Cate si spostò sorridendo e lasciò che la superassi, lanciandomi uno sguardo divertito.
« È arrivata! » all’interno la voce della mamma sovrastava i gridolini delle altre.
Stavo per bussare, quando la porta si aprì e sulla soglia comparve la zia Suri, sempre sorridente e bellissima, con gli occhi scuri accesi dall’entusiasmo. Appena mi vide mi buttò le braccia al collo in un abbraccio più stretto di quello di Cate.
« Jenna! Bentornata a casa… Mi sei mancata moltissimo… » mormorò con la voce piena di gioia e aumentò la stretta.
« Zia…soffoco! » la mia voce era così flebile che non la sentivo nemmeno io.
Zia Suri sciolse l’abbraccio, ma tenne le mie mani ben salde nelle sue, con le dita intrecciate. Mi avvicinai a lei.
« Anche tu mi sei mancata zia. Congratulazioni in ritardo per il tuo matrimonio » le sussurrai all’orecchio. Lei rise e io le schioccai un sonoro bacio sulla guancia.
Non feci a tempo a riprendere fiato che mia sorella Laurie si buttò piangendo contro il mio petto. Era identica a Cate, ma per me loro due erano come il sole e la luna, nel senso letterale del termine. Cate era il sole, illuminava con la sua allegria chiunque entrasse nel suo raggio gravitazionale, mentre Laurie era la luna, magari con meno luce e più fredda, ma quei raggi erano bellissimi, proprio come quelli di una luna in una notte senza nuvole. Stare con Laurie non voleva dire mostrarsi entusiasta per qualunque cosa, anzi, la sua compagnia portava sempre tranquillità.
L’abbracciai piano, accarezzandole i capelli per calmare i singhiozzi che la scuotevano. Lei affondò di più la testa nello spazio della clavicola e si calmò un poco.
« Sei così triste di rivedermi? Non pensavo di starti così antipatica… » mormorai al suo orecchio, alzandole con un dito freddo il viso. Lei mi guardò con gli occhi ancora lucidi, poi sorrise timida e scosse il capo.
« Mi sei mancata da morire Jen! ». La sua voce era flebile, ma restava bellissima, limpida come il ghiaccio.
L’abbracciai di nuovo e le accarezzai sorridendo i capelli bruni. Adoravo le mie sorelle. Senza di loro non sarei stata la stessa. Loro mi avevano sempre accettato per quello che ero e non mi avevano mai negato nulla.
Strinsi più forte Laurie e affondai il viso nei suoi capelli ricci e folti, poi la allontanai dolcemente e le diedi un bacio sulla guancia morbida. Lei si spostò per far passare mia madre, asciugandosi le lacrime con la manica.
La mamma era una donna bellissima, sulla cinquantina, con un carattere forte e deciso. I suoi occhi castano scuro fermi e pieni d’esperienza mi fissavano, sembrava sorridessero. Mi venne incontro piano, sorridente, e aprì le braccia.
Quanto mi mancavano i suoi abbracci. Mi rannicchiai contro il suo petto, avvolta dalle sue braccia calde.
« Bentornata. Sono felicissima che tu sia tornata; mi sei mancata molto » mi soffiò all’orecchio.
« Anche io sono felice d’essere qui…grazie a tutte… » sussurrai contro la sua spalla. Lei mi diede un buffetto sui capelli e si allontanò piano.
« Cos’è quest’atmosfera triste? È appena tornata e già la deprimete così? » Cate era appena entrata, e aveva i capelli pieni di goccioline d’acqua. « Scusatemi, ho dovuto avvertire Lucas che la zia Suri farà un po’ tardi… ».
Ho sempre pensato che Cate avesse il dono naturale di sdrammatizzare qualsiasi cosa.
« Oh, è vero! Bisogna festeggiare no? Tutti in salotto allora! » Laurie mi prese per mano e guidò il gruppo nella piccola stanza sulla destra.
Tutto era esattamente come lo ricordavo e questo mi faceva sentire veramente a casa. La stanza era ampia, rosa, con i divani bianco crema contro le pareti e il tavolino di cristallo. Passai un dito sulla vetrinetta di legno che conteneva le murrine e gli oggetti in vetro, assalita dai ricordi. Quando sentii Cate e Laurie ridacchiare mi risvegliai e mi affrettai ad accoccolarmi sul divano bianco con loro. La zia Suri era sparita, probabilmente era andata in cucina, perché sentii il cigolio inconfondibile della porta del frigorifero. La mamma avvicinò al tavolino di cristallo due sedie.
« Come sei cresciuta Jenna, sei diventata bellissima » disse guardandomi bene e accomodandosi sulla vecchia sedia di legno.
Arrossii e abbassai gli occhi, imbarazzata. I complimenti mi mettevano sempre a disagio. Naturalmente Cate se ne accorse e mi diede una gomitata.
« È pur sempre sorella mia, per forza è bellissima! » esclamò ridendo e cingendomi le spalle con un braccio. Laurie si unì alla risata, ridendo così forte da far tremare il divano.
« Quanto sei stupida » la rimproverò bonariamente la mamma « Piuttosto, non mi sembra vero che tu sia qui…è troppo bello » aggiunse entusiasta. Questa volta sorrisi.
« Davvero resti solo tre mesi? » Laurie sembrava affranta. La strinsi più forte e anuii.
« Peccato, solo tre mesi… » mugugnò triste.
« Come SOLO? Abbiamo BEN TRE mesi per farle saltare i nervi, non sei entusiasta? E nel frattempo possiamo trovare un modo di dirottare l’aereo di ritorno, così sarà costretta a rimanere di più! » ridacchiò Cate.
Laurie ed io scoppiammo di nuovo a ridere.
Dalla cucina uscì la zia Suri con una grande torta al cioccolato, la mia preferita.
« E questa per chi è? » chiesi indicandola e leccandomi i baffi. Subito iniziarono le risatine.
« È per te naturalmente. Pensavi che non ti avessimo preparato niente come accoglienza? » la zia fece una smorfia fingendo di essere offesa.
« Grazie mille…sono commossa » ammisi, poi guardai Laurie con aria di sfida. « Chi la taglia? » aggiunsi ironica.
Sapevo già che Laurie sarebbe stata volontaria. Durante tutti i nostri compleanni mi aveva sempre supplicata di concederle il taglio della torta. Pensai divertita se al mio matrimonio avrebbe avanzato una pretesa simile. Se fossi arrivata viva al matrimonio, ovviamente, il che non era da dare per scontato.
Cate bloccò la mano di Laurie che si allungava sul coltello. « Tu no, saresti capace di mozzarti un dito. Dà qua » e con fare solenne impugnò il coltello e lo affondò nella torta. Come ad un compleanno partirono gli applausi.
La prima fetta era mia, in quanto festeggiata, la seconda se l’era accaparrata tra le risate Laurie dopo una battaglia con Cate a carta, forbice e sasso. Dopo due bis ciascuno la tortiera era già vuota.
« Ragazze, propongo di brindare » disse la zia Suri.
« Sì, concordo. A Jenna! » gridò Laurie, e toccò il mio bicchiere con il suo.
Dopo il brindisi la mamma, la zia e le mi gemelle mi subissarono di domande sui miei tre anni passati senza dare notizie: la scuola, le mie compagne, l’Italia. Io rispondevo con sincerità a tutte le domande, tranne ad una.
« Allora, visto che il tempo era così bello ti è dispiacito tornare? » aveva chiesto la mamma indicando la finestra bagnata di fronte a noi con un gesto distratto e fingendosi indfferente, ma nella sua espressione leggevo un filo di tristezza e frustrazione. Mi strinsi nelle spalle e scossi la testa.
« Lo sapete che sono sempre stata masochista no? » dissi scherzando. Le mie sorelle scoppiarono a ridere e la mamma fece un sorriso accecante, poi il giro di domande ripartì.
Quando gli occhi ci si stavano chiudendo dalla stanchezza la zia Suri si alzò.
« Mi piacerebbe restare, ma si è fatto tardi e non voglio che Lucas mi dia per dispersa » spiegò facendomi l’occhiolino.
Mi alzai e l’accompagnai in anticamera, dove s’infilò il cappotto.
« Grazie zia, è stata una serata magnifica. Mi sono divertita tanto » le dissi sorridendo.
Lei mi abbracciò. « È stato bellissimo rivederti. Sono io che ti ringrazio, sono molto felice ».
Sorrise, mi diede un bacio e uscì svelta dalla porta. Rimasi ferma in anticamera, poi l’aria fredda della porta che si chiudeva mi risvegliò. Ritornai a passo svelto in salotto e mi appoggiai allo stipite della porta.
« Ragazze è tardi, tutte a dormire! » dissi e mi avvicinai al tavolo per prendere i bicchieri e i piattini.
Laurie e Cate protestarono, la mamma sorrise e mi diede una mano a sparecchiare.
« Su, a dormire. Jenna sarà stanca dopo il viaggio e noi l’abbiamo tenuta sveglia fino a tardi. Laurie, porta la valigia di tua sorella in camera e tu Cate, sposta la macchina in garage: inizia a grandinare ».
Mi ero quasi dimenticata che eravamo a Lesna. Aiutai la mamma ad asciugare i piatti e poi sgattaiolai al piano superiore, tentando di non fare troppo rumore. Davanti alla porta di legno mi bloccai. Era da tre anni che non vedevo camera mia.
Girai piano la maniglia fredda e schiacciai l’interruttore, illuminando la grande stanza bianca. Tutto era come lo ricordavo: i letti, le due scrivanie di legno, il computer, le tende, l’armadio. Mi avvicinai lentamente al mio letto, quello di fianco alla grande finestra che dava sul giardino. C’era ancora il mio cuscino preferito, imbottito col riso e tutti i miei peluche. Mi ci abbandonai sopra supina e respirai lentamente. Anche il soffitto era lo stesso, riconobbi le venature familiari delle travi di legno.
Laurie entrò in camera con la mia valigia e la appoggiò di fianco al computer, poi si avvicinò al letto e si sedette al mio fianco accavallando elegantemente le gambe e poggiandosi su una sola mano.
« Non è cambiato nulla, hai visto? » sussurrò accarezzandomi i capelli biondi con quella libera.
Io annuii e chiusi gli occhi. Laurie era quella che aveva sofferto di più per la mia partenza, anche perché era sempre stata una ragazza infantile ed io ero come una sorella maggiore per lei. Per lei era stato come perdere una figura di riferimento.
Mi misi a sedere sul letto di fronte a lei, portando le ginocchia al petto.
« Laurie, sei felice che io sia qui? » le chiesi seria. Lei sembrava sbigottita e mi guardò con un’espressione strana.
« E me lo chiedi anche? Certo che sono felice! » biasicò confusa dalla mia faccia seria.
Scossi la testa. Non aveva capito la mia domanda.
« Intendo, ti va bene il fatto che io tornando qui abbia fatto andare via papà? ». I miei occhi erano fermi sul suo viso, pronti a cogliere la sua reazione, di qualunque genere fosse.
Lei mi guardò con i suoi occhi profondi, li chiuse e sospirò. Rimase immobile per qualche istante sul bordo del letto e mi fece pensare di averla turbata.
« Scusa Laurie, lascia stare…».
Lei mi bloccò mettendomi un dito sulle labbra, riaprì gli occhi e sulla bocca comparve un sorriso sincero.
« Direi che lo scambio è stato molto vantaggioso » mormorò infine.
La abbracciai tanto forte da quasi soffocarla.
« Grazie Laurie…quando sono arrivata ero sicura che mi avreste odiata per questo ». Lei mi accarezzò piano la testa.
« Non pensarlo neanche. Tu sei nostra sorella ed è giusto che tu sia tornata. Se lui non vuole stare con te tanto peggio per lui, non sa cosa si perde ». La lasciai andare e le diedi un bacio sulla guancia.
« Ti voglio bene Laurie, grazie » dissi, mentre Cate entrava in camera.
« Mi sono persa qualcosa? Guardate che se c’è un abbraccio collettivo ci sono pure io! » ridacchiò Cate buttandosi sul letto e rovesciando Laurie gambe all’aria. Io e lei scoppiammo a ridere.
Dal piando di sotto la mamma bofonchiò qualcosa di simile ad un “andate a dormire invece di fare tanto baccano”.
« Okay sorelline, tutte e due a dormire! Mamma potrebbe impazzire se non le obbediamo » sbuffò Cate.
Laurie e Cate corsero simultaneamente in bagno, mentre io cercai disperatamente nella valigia il beauty-case e il pigiama. Quando in Italia avevo preparato la valigia mi era sembrato assurdo portare un pigiama pesante, ma la mia scelta si era rivelata la più corretta.
« Ma dove cavolo l’ho messo? » sbuffai sparpagliando l’intero contenuto della valigia sul tappeto morbido.
« Emergenza! Cos’hai dimenticato? » ridacchiò Cate entrando in camera e notando la valigia mezza vuota con tutto il suo contenuto rovesciato vicino alle mie ginocchia.
Spostai i capelli indietro con un gesto nervoso. « Non trovo il pigiama » ammisi a malincuore. Cate avrebbe passato tutta la sera a prendermi in giro se non lo avessi trovato immediatamente, così ricominciai a rovistare tra le mie cose con aria esasperata.
« Jenna, che fai? » domandò Laurie stupita uscendo dal bagno con lo spazzolino in mano.
« La nostra smemorata non trova il pigiama…forse l’ha dimenticato, come l’ombrello » Cate scoppiò a ridere.
Non volevo ribattere, così la ignorai e continuai a cercare frenetica.
« Ero così sicura di averlo preso…ma non capisco…dove potrei averlo messo? ».
Laurie mi bloccò la mano e si abbassò verso di me stringendo il pigiama.
« È questo? » mi chiese fissandomi negli occhi e trattenendo a stento le risate. Io annuii sbigottita.
« Ma dove…? » la guardai con gli occhi spalancati.
Lei scoppiò in una risata cristallina. « Era in cima alla pigna e l’ho scambiato per il mio. Scusa » e mi mostrò un pigiama identico al mio, poi corse in bagno velocemente per riporre lo spazzolino e tornò in camera, mentre Cate si sedette sul letto.
« Ti devo fare la treccia? » le chiese appena la vide entrare. Laurie annuì e Cate si mise all’opera iniziando a intrecciarle i lunghi capelli, mentre le raccontava degli ultimi pettegolezzi di Lesna. Laurie, come me, era appena arrivata e non sapeva molte cose. Soffocai le risate: sembravano due comare che si ritrovavano a spettegolare.
Io afferrai velocemente il beauty e uscii in corridoio per raggiungere in bagno. Feci scivolare lentamente la mano sul corrimano liscio e freddo ed ebbi un brivido.
« Ah Jen, sei tu » disse la mamma sbucando dalla porta della sua camera. « Le altre due sono già a dormire? ».
Anuii sorridendo. Lei allora mi diede la buonanotte e richiuse felice la porta: probabilmente era sollevata di non dover costringere la sue due figlie diciottenni e testarde ad andare a dormire. Sorrisi immaginandomi la scena.
In bagno posai il beauty e il pigiama sulla piccola mensa bianca sotto lo specchio e aprii l’acqua calda della doccia. Fermai in un moschettone i capelli per non farli cadere sulla schiena e scivolai nella doccia. Rabbrividii al contatto col calore e solo allora mi accorsi di quanto freddo facesse. L’acqua calda mi rilassò e lavò via l’umidità di Lesna dalla mia pelle. Dopo una decina di minuti mi decisi ad uscire e spensi malvolentieri l’acqua. Afferrai dal bordo della doccia l’asciugamano che Laurie mi aveva previdentemente preparato e mi ci avvolsi stretta, quasi per non lasciar scappare il calore della doccia.
Sciolsi il moschettone e i capelli mi caddero liberi sulle spalle, facendomi il solletico al collo.
Mi guardai allo specchio e rividi nella mia immagine quella delle mie due gemelle. Non ero cambiata molto da tre anni prima: il viso era ancora minuto e pallido, coronato dalla liscia chioma bionda di sempre, solo un po’ più lunga, gli occhi leggermente infossati e a mandorla non avevano perso quel loro strano colore ocra acceso e brillavano sotto le lunghe ciglia. La fronte alta era liscia e pallida, coperta in alcuni punti da ciuffi biondi che cadevano scomposti in avanti. Guardando il mio riflesso mi ricordai che quando ero piccola tutti i miei conoscenti dicevano che ero bellissima, nonostante già allora il colore dei miei occhi risultasse strano a qualcuno. Crescendo, il mio colorito pallido e i miei occhi dorati avevano intimorito gran parte dei miei amici, che iniziarono ad allontanarsi da me. Mi chiusi in me stessa, scivolando nel mutismo per un breve periodo di tempo, prima di partire per l’Italia. Quel ricordo ormai non mi causava più dolore, come invece accadeva in precedenza. Avevo imparato a stare sulle mie, convivendo con le mie stranezze da creatura mistica e ignorando – a volte a fatica – chi non riusciva ad accettarle.
Mentre mi pettinavo i capelli provai a ricordare come fosse la mia vita prima di scoprire che ero una Mezza, ma mi accorsi con sorpresa che non ne avevo alcun ricordo. O meglio, non ricordavo la quotidianità. Forse avevo allontanato da me quei ricordi prima che tornassero a farmi male.
Riposi turbata la spazzola nel beauty e infilai il pigiama, lavai i denti e corsi veloce verso la mia stanza, rallentando solo di fronte alla porta della camera della mamma. Mentre giravo la maniglia tesi un orecchio per sentire se l’avevo svegliata, ma dopo poco la sentii russare in modo leggero. Con il sorriso sulle labbra aprii la porta della mia camera, attenta a non farla cigolare, e avanzai cauta verso il letto, tentando di non far rumore e svegliare così Cate e Laurie, che si erano già addormentate. La Luna, seminascosta da una coperta uniforme di nubi, illuminava il pavimento indicandomi dove mettere i piedi.
Quando raggiunsi finalmente il letto mi avvolsi nelle lenzuola calde tirandomele fin sopra le spalle, poi mi voltai su un fianco e sbirciai il tempo fuori dalla finestra: grandinava. Chiusi gli occhi e cominciai a concentrarmi, ma sapevo già che con tutti i pensieri che avevo in testa non sarei riuscita a compiere la Scissione. Sbuffai e mi voltai irrequieta e irritata dall’altra parte: anche quella notte come sempre succedeva a Lesna, non avrei dormito.
Per noi Mezze è impossibile dormire. Il nostro sonno è come un coma molto breve, che rilassa solo il corpo, ma permette alla mente di restare vigile. In Italia non mi era mai successo di essere così tesa da non riuscire a Scindere la mia parte umana da quella spirito. Occorrevano concentrazione e mente sgombra, e ora non avevo nessuna delle due.
A Lesna non ero mai riuscita a dormire, anche perché non avevo ancora imparato come Scindere l’anima dal corpo. Eppure non avevo mai provato ansia, perché con me c’erano Caterina e Laurie. Ripensai a loro, a quanto si erano dimostrate aperte e dolci con me anche quando avevano saputo la mia natura. Avevano detto che ero pur sempre sorella loro, e il fatto di essere una Mezza era una delle mie tante caratteristiche, come i capelli biondi o la pelle pallida. Nessuna delle altre tre Mezze che avevo conosciuto in Italia aveva ricevuto tutta questa tolleranza. Mi ricordai all’improvviso del mio primo giorno di scuola a Lucca.
Io Madleine eravamo le ultime arrivate, e ad accoglierci trovammo tutti i professori vestiti di bianco e le altre Mezze subito dietro di loro con dei corti e semplici abiti dorati. Ero rimasta senza parole davanti alle altre Mezze: l’oro delle loro divise – perché di quello si trattava – metteva in risalto la pelle candida delle quattro ragazze e i capelli biondi sembravano ancora più chiari, con riflessi caramellati. Ma erano gli occhi ocra a spiccare più di ogni altra cosa: luminosi e profondi, sembravano oro liquido e illuminavano i loro volti. Nonostante avessero tutte la pelle, gli occhi e i capelli dello stesso colore erano diversissime fra loro, ma notai che tutte erano molto belle.
Dopo delle frettolose presentazioni i professori ci guidarono nell’enorme edifico bianco che ospitava le classi per le lezioni giornaliere. Guardandolo da fuori pensai che costruire una scuola tanto grande per sole sei studentesse fosse uno spreco, ma dopo qualche settimana per ambientarmi dovetti ricredermi. Attraversammo un ampio atrio illuminato da innumerevoli finestre affacciate sul giardino e imboccammo un lungo corridoio pieno di dipinti. Io osservavo rapita i volti pallidi impressi per sempre sulle tele e riconobbi in quei tratti familiari la loro natura di Mezze. Prima che potessi anche solo chiedere qualcosa, i professori che guidavano il piccolo gruppo si fermarono davanti ad una grande porta di noce, sulla quale una targhetta dorata recava la scritta Storia. Sospirai: almeno una materia la conoscevo.
Una donna snella e alta fece segno al nostro gruppo di entrare, poi con una mano bloccò me e Madleine sulla soglia.
« Mettetevi le divise » ci disse con voce monocorde, ma nella quale era visibile una nota severa e autoritaria e puntò un dito scheletrico verso una donna vestita di beige vicino alla porta.
« Lei vi aiuterà a raggiungere il guardaroba. Fate in fretta, cominciamo tra poco » continuò quasi svogliata, poi entrò veloce nella classe, seguita da altre tre donne vestite di bianco. Io e Madleine restammo allibite davanti alla porta di legno che si richiuse dolcemente. La ragazza vestita di beige mi posò cauta una mano sulla spalla per richiamare la mia attenzione. Mi voltai ancora un po' scossa e le sorrisi timidamente. Era una ragazza di circa sedici anni, con dei lunghi capelli corvini che le arrivavano alla schiena, raccolti in una treccia ordinata. Quando mi voltai ritrasse con uno scatto la mano e arrossì leggermente, chinando il capo.
« Se volete seguirmi » disse imbarazzata nascondendo il volto dietro alla frangia dritta e si incamminò svelta verso l’atrio. Io e Madleine la seguimmo sorridenti, ammirando di nuovo i quadri delle Mezze che ci avevano preceduto.
Poco prima di entrare nell’atrio la ragazza svoltò a sinistra, entrando in una piccola porta che prima non avevo notato e conducendoci in una sala ampia dalle pareti bianche illuminata da moltissime finestre. Contro i muri del lato destro si trovavano innumerevoli armadi, tutti uguali e in tinta con la pittura panna delle pareti e del soffitto. La ragazza ci indicò due camerini sul lato sinistro della sala rispetto alla porta.
« Il primo da destra è il suo camerino, signorina Bousver » disse piano rivolta a Madleine, che era la più vicina a lei «mentre il terzo è quello della signorina Graece. Le divise sono già all’interno, appese al secondo ometto, e le scarpe si trovano subito sotto. Se avete bisogno di qualsiasi cosa sono qui fuori » concluse abbassando gli occhi, poi si avviò rapida verso la soglia e sparì dalla mia visuale. Sentire il modo in cui riparlava mi sembrò strano: nessuno mi aveva mai trattata con così tanto deferenza. Sorrisi divertita ed entrai nel camerino. Ne uscii poco dopo, nello stesso istante in cui anche Madleine aprì la tendina del camerino. Ci guardammo in un misto di stupore e soddisfazione, felici che quelle divise mettessero in risalto il nostro aspetto come nessun abito mai prima di allora.
« Ti sta d’incanto, dico sul serio » disse Madleine eccitata, facendomi segno di voltarmi. Feci una giravolta su me stessa e la guarda sorridente.
« Anche a te dona molto, sembri più grande » dissi sincera e il suo sguardo s’illuminò. Dovevo ammettere che invidiavo come la gonna le scivolava morbida sulle gambe snelle, allungandogliele a dismisura; sembrava una modella. Le feci un cenno ed uscimmo impazienti dalla sala. Trovammo la ragazza dai capelli neri appoggiata elegantemente al muro, gli occhi socchiusi per il riverbero del sole sul pavimento lucido. Quando ci vide si staccò velocemente dal muro e sorrise timida.
« A quanto pare sono della taglia giusta, perfetto. La signora vi attende nella sala di storia. Da questa parte » mormorò incamminandosi ancora per il corridoio.
« Grazie mille davvero, ma adesso penso di ricordare la strada » le disse gentile Madleine e le poggiò una mano sulla spalla, poi si girò di scatto e, afferrata la mia mano, cominciò a correre verso l’aula. « A presto! » urlò.
Arrivammo trafelate e ci accomodammo sghignazzando ai nostri posti, ignorando le occhiatacce delle tre donne dagli abiti banchi.
La donna che ci aveva chiesto di mettere le divise fece un passo avanti e si schiarì la voce, mentre e altre due restavano ferme e impassibili ai loro posti.
« Benvenute all’Accademia delle Mezze » disse con voce solenne, scrutando i nostri volti. « Io sono la preside Sadra, se avete bisogno di qualunque cosa rivolgetemi a me o alle mie assistenti » continuò indicando con un gesto distratto le altre due, che fecero un leggero inchino. « Ora voglio spiegarvi perché siete qui, chi siete e cosa dovete fare, quindi prestate attenzione e non interrompetemi » ci ammonì sollevando un sopracciglio. Io annuii concentrata.
« Le Mezze sono degli esseri leggendari che si chiamano così perché sono mezze umane e mezze spirito. Appaiono sulla terra in sei ogni mezzo secolo e il loro compito è quello di sconfiggere Arual, lo spirito del male, che risorge dalle tenebre ogni cento anni per seminare lo scompiglio e la distruzione sia nel mondo mistico che in quello umano. Dovete sapere che c’era un tempo in cui gli spiriti e gli umani convivevano pacificamente. In quell’epoca lontana a tutti gli uomini era concesso di vedere gli spiriti e queste due razze si aiutavano l’una con l’altra. Ma un giorno Arual, un uomo avido di potere, indusse con l’inganno alcuni spiriti ad impossessarsi del corpo degli uomini per scatenare così guerre violente e conquistare territori e bottini. Allora le donne, spaventate dalle conseguenze che gli spiriti avevano avuto sui loro mariti e padri, tentarono di scacciarli, ma purtroppo esisteva solo un modo: combattere.
Guidate da dodici sorelle marciarono contro gli spiriti, che si servivano degli uomini come soldati. La battaglia cominciò e molte donne persero la vita. Tra le loro guide, caddero sei delle dodici ragazze. Allora le altre sei, vinte dal dolore, lanciarono urla strazianti al cielo, per richiamarle sotto forma di spiriti. Quando queste sentirono il lamento delle sorelle vive e intuirono l’esito della battaglia, scesero dal cielo di corsa e comparvero davanti alle sorelle che combattevano per difendere i loro corpi senza vita. “Scappate! Mettetevi in salvo!” dicevano loro, la voce accompagnata dal vento. “Non vi abbandoneremo. Vinceremo, o moriremo insieme”dissero quelle. Allora le sei ragazze spirito fecero una scelta che nessuno aveva mai compiuto volontariamente ed entrarono nei corpi delle sorelle che ancora lottavano. Così nacquero le prime sei Mezze. Si chiamavano Europa, Asia, America, Africa, Oceania e Polo. Grazie alla loro parte mistica le Mezze riuscirono ad aprire gli occhi agli uomini, che, accortisi della carneficina che avevano fatto, scacciarono per sempre gli spiriti rinunciando al dono di vederli e uccisero Arual. Poi le sei Mezze si divisero in sei aree, per controllare che gli spiriti non tornassero per vendicarsi e così i continenti ebbero un nome » concluse Sadra giungendo le mani. Lo stupore sul mio volto si notava anche su quello delle altre Mezze.
Sadra si concesse un respiro profondo e tornò al suo discorso. « Voi però non sapete ancora che “doti” hanno. Le Mezze hanno il potere di vedere e di evocare tutti gli spiriti, buoni o cattivi, umani o Fiere. Gli spiriti umani sono le “anime” di persone che restano legate alla terra o per legami fisici, in cui il corpo si conserva perfettamente, o perché rimangono nella memoria di alcuni umani, mentre le Fiere sono spiriti di animali di ogni tipo, costretti a trattenersi sulla terra per scontare atti di ferocia ingiustificata o viltà. Le Mezze evocano gli spiriti per combattere quando davanti a loro si trova un avversario di un certo livello, come uno spirito guerriero, uno spirito anziano o, nel vostro caso, Arual » concluse chiudendo gli occhi.
« Qui imparerete a evocare gli spiriti e a combattere con le vostre forze, quando avrete consumato troppa forza spirituale in seguito a un’Evocazione prolungata o difficile. Vi allenerete nelle arene, sotto la mia supervisione, e combatterete tra di voi per migliorare il vostro livello. Inoltre imparerete molto altro sulla vostra natura grazie alle lezioni di Storia e Controllo Psichico. Ora avete tutta la giornata libera per ambientarvi. Quando vorrete Isabella vi mostrerà i vostri alloggi » disse facendosi da parte per presentarci la ragazza con i capelli neri. Io lanciai un sorriso a Madleine, che soffocò un risolino. Sadra fece un inchino e uscì svelta dall’aula, seguita come un’ombra dalle sue assistenti. La nostra prima giornata terminò così.
Mi girai di nuovo nel letto, ripensando alle mie compagne. Madleine, Cassidy, Sachiko, Anna e Tari mi mancavano già tantissimo. Ripensai ai loro programmi per quei tre mesi invernali. Madleine era stata cacciata di casa dai suoi quando avevano saputo chi era, e così era tornata dalla vecchia zia. Cassidy mi aveva detto che sarebbe tornata in Australia dal suo ragazzo e Saciko in Giappone dai nonni. Probabilmente però non erano ancora partite, dato che quando mi avevano salutata in aeroporto non avevano ancora fatto le valige. Avevo salutato Tari tre giorni prima della mia partenza, quando aveva preso il primo volo possibile per l’Egitto per accudire la madre malata e i suoi quattro fratellini. Sospirai, pensando a come dovesse sentirsi sola in quella casa in cui nessuno voleva rivolgerle la parola. Anna invece sarebbe rimasta in Italia, in Sicilia, per far visita a dei parenti che di freddo polare ne avevano abbastanza.
Ci saremmo riviste solo tra tre mesi…che attesa snervante.
Chiusi gli occhi, determinata a concentrarmi. Dovevo dormire, perché l’indomani avrei dovuto andare a scuola e certamente presentarmi ai miei nuovi compagni con delle profonde occhiaie non sarebbe stato il massimo.
Sospirai e mi massaggiai piano le tempie, rilassando un muscolo alla volta e tentando di sgombrare la mente. Probabilmente della musica rilassante mi avrebbe aiutata, ma ero quasi certa che tra gli innumerevoli cd di Cate accatastati alla rinfusa vicino allo stereo non avrei trovato quello che cercavo, così scacciai anche quel pensiero e mi concentrai sulle dita dei piedi. Ne ridisegnai a occhi chiusi il contorno e le sentii rilassarsi, mentre procedevo nello stesso modo per i piedi e le gambe. Lasciai che il mio respiro si facesse lento e regolare, poi rilassai anche il busto. Cominciai ad essere ottimista: magari avrei dormicchiato un poco. Ero intenta a sciogliere anche le spalle e le braccia quando nella mia mente passò l’immagine dello sconosciuto dagli occhi di ghiaccio che avevo visto con Cate. Spalancai subito gli occhi e con uno scatto repentino mi misi a sedere sul letto, i capelli che ricadevano disordinati davanti al viso, il respiro accelerato e il cuore che batteva così forte da farmi male. Avevo un nodo in gola e sentivo lo stomaco agitarsi.
Ci misi qualche secondo a riprendere il controllo del respiro, poi mi abbracciai le ginocchia con le braccia e vi nascosi la testa. Tremavo di paura.
Il ricordo di quei bellissimi occhi duri, freddi e furiosi era bastato a riattivare tutti i muscoli e a farmi balzare sul letto come se qualcuno mi avesse punta con un’ago. Ero terrorizzata da quello sguardo breve ma tagliente come un a spada che mi aveva lanciato da dietro il lunotto posteriore punteggiato di piccole gocce di pioggia. Un altro brivido mi percorse la schiena, facendo tremare anche il letto. Ansimavo, sentivo che ero vicina all’iperventilazione.
Feci un profondo respiro e tentai di calmarmi. Cos’avevo fatto per meritami quello sguardo carico d’odio? Lui cosa sapeva di me? La risposta ad entrambe le domande fu “nulla”, quindi probabilmente mi aveva scambiata per qualcun’altra.
Un po' più tranquilla, feci altri due respiri profondi e, sistemati i capelli, scivolai silenziosamente sul bordo del letto. Mi alzai lentamente, rassegnata ad una notte insonne e lunga, e mi avvicinai alla finestra senza fare rumore. Allungai le dita e sfiorai il vetro freddo con la punta di polpastrelli, lasciando le mie impronte sulla finestra. Al contatto col freddo mi sentii subito meglio, nonostante un brivido che mi percorse il braccio.
Al di là delle gocce che scivolavano sul vetro lucido riuscivo a scorgere il cielo, che somigliava ad una coperta scura, rischiarato dalle stelle che brillavano intensamente. Le nuvole erano scomparse e una luna piena troneggiava luminosa e tonda al centro del cielo, illuminando il bosco oltre il cancello e creando ombre sui lungi tronchi scuri.
A quel bosco era legato un bellissimo ricordo, quello del mio primo incontro col mondo mistico. Avevo cinque anni e come ogni sabato mattina la mamma mi aveva portata a fare un giro insieme a Laurie e Cate nel boschetto vicino a casa nostra. Mentre loro tre proseguivano lungo il sentiero, io vidi una bellissima farfalla appoggiata elegantemente ad un fiore. Feci per avvicinarmi, ma lei vide il mio movimento e fuggì aggraziata con pochi battiti d’ali. Rimasi così impressionata dai suoi colori che la seguii, senza badare più alla mamma e alle mie sorelle che si addentravano tra gli alberi, sparendo dalla mia vista. Quando finalmente mi accorsi di quello che era successo, mi trovavo da sola nel fitto del bosco, mentre il sole era ormai vicino al mezzogiorno. Mi accoccolai spaventata a piedi di un basso ciliegio e aspettai paziente che la mamma venisse a cercarmi; sapevo che vagare senza meta per il bosco non era di grande aiuto, me l’aveva detto lei stessa più e più volte. Mentre la aspettavo colsi una voce, che non era quella di mia madre, provenire da sopra la mia testa e alzai il capo verso i rami del ciliegio. Vidi una ragazza bellissima, alta, magra, dai tratti vaporosi molto delicati che sedeva aggraziata e composta sul ramo più alto e sottile di tutto l’albero. Si stava pettinando i lunghi capelli castani, mentre canticchiava a labbra chiuse una melodia dolcissima e triste, dondolando le gambe a tempo. Indossava una tunica bianca e gialla, lunga fino alle caviglie, chiusa in vita da un grosso nastro dello stesso colore. Il suo sguardo era distratto e oscillava tra il sottobosco e l’orizzonte seminascosto dalle chiome degli altri alberi, poi si fissò su di me. Istintivamente la salutai con un gesto incerto della mano. Mi guardò stupita per qualche secondo, poi sorrise e scese con un balzo leggero e aggraziato a terra, di fianco a me. I suoi occhi ocra erano fermi sui miei, profondi e tristi. Mi prese una mano e se l’avvicinò al viso, calmandomi con lo sguardo, poi sussurrò a pochi centimetri dal mio orecchio: « Ciao Jenna, io sono Illenoie ». La sua voce era un sussurro delicato e privo di inflessione, ma ne rimasi incantata. Non sapevo come avesse fatto a sapere il mio nome, ma anche grazie a questo decisi di fidarmi di lei. Mi avvicinai e le sorrisi felice, mentre lei mi dava un buffetto sui capelli con un tocco delicato e fresco. Mi spiegarono solo molti anni dopo, a scuola, che gli spiriti avevano la capacità di conoscere il nome di una persona guardandole le mani. Quando mi chiese come mai mi trovavo sola nel bosco e le dissi di essermi persa, fece una smorfia di disappunto e mi accompagnò a casa tenendomi la mano. Da quel momento giocammo sempre insieme, tanto che spesso la gente che mi stava attorno mi dava della pazza, dato che secondo loro parlavo da sola: solo io potevo vedere Illenoie. Fu un periodo molto felice, ma che purtroppo durò poco. Illenoie scomparve quando avevo sette anni: probabilmente l’ultimo discendente della sua famiglia era morto e quindi nessun umano si ricordava di lei. La sua scomparsa mi colpì duramente. Ogni giorno andavo sotto i nostro albero ad aspettarla, decisa a non rassegnarmi. Dopo un anno trascorso in questo modo mi feci una ragione della sua scomparsa e smisi di aspettarla, anche se passando speravo di sentire la sua voce flebile chiamarmi.
Sospirai. Avrei tanto voluto salutare anche lei ora che ero costretta a tornare; aveva reso speciale la mia infanzia in quel paesino piovoso.
Il mio sguardo vuoto tornò a focalizzare i rami degli alberi mossi da una leggera brezza che attraversava frusciante il prato e carezzava oziosamente l’erba alta. Sentii improvvisamente caldo, e così aprii piano la finestra tirando verso di me il metallo freddo e sporgendomi dal davanzale.
Subito il venticello mi soffiò delicato e fresco sul viso, spostandomi i capelli indietro. Rimasi immobile a scrutare le stelle per un tempo che mi parve infinito, poi chiusi gli occhi per godermi meglio quella carezza leggera.
Tesi le orecchie, cerando di sentire il canto del grillo che da piccolina mi piaceva così tanto, ma non ci riuscii: il bosco era addormentato e ovunque regnava un grande silenzio. Era quasi surreale. Poi sentii un fruscio, spalancai gli occhi allarmata e vigile e vidi un’ombra muoversi rapidissima tra i tronchi degli alberi. Mi drizzai di scatto, tentando di cogliere qualche aroma strano. In effetti ora che ci prestavo attenzione sentivo un odore dolce che non apparteneva al bosco. Senza staccare gli occhi dagli alberi sfiorai con l’indice la mia voglia dietro l’orecchio e mi mancò il respiro: davanti ai miei occhi si stendeva una scia spirituale, che seguiva il percorso tortuoso dell’ombra.
Senza neanche esitare un istante scattai verso l’armadio, tolsi rapida il pigiama e infilai i primi vestiti sulla pigna: un paio di pantaloni della tuta e un golf verde con lo scollo a v, gettando occhiate nervose alla finestra. Infilai velocemente calze e scarpe e corsi verso il mio comodino.
« Jenna? Che stai facendo? » la voce assonnata di Laurie mi sorprese e sussultai. Voltai la testa verso di lei tentando di non essere brusca e nel frattempo presi dal cassetto la collana. Non avevo più tempo.
Laurie sedeva confusa sul letto, appoggiata alla testata con la schiena e si sfregava gli occhi.
« Dormi Laurie, io devo uscire » dissi frettolosa, ma mi uscì un tono acido. Li sbuffò mentre io mi allontanavo.
« Alle tre di notte? Un party tra pipistrelli? » il suo tono sfiorava l’insolenza e mi voltai lanciandole un’occhiataccia. Poi la vidi trattenere un urlo mentre prendevo la rincorsa e scavalcavo con un salto la finestra aperta. Atterrai silenziosa sulle punte e scattai verso la foresta buia, saltando la recinzione senza difficoltà, mentre Laurie mi guardava allibita dalla finestra.

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------non è finito,ma il pezzo dopo lo devo ancora rivedere! XD
 
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COMMENTI:
Trovato 1 commento
strega12 - Voto: 11/08/08 17:36
Brava, tesoro!!!!!!!!!!! Hai iniziato davvero bene!!! Benvenuta su manga.it
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