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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Videogiochi
Dalla Serie: Kingdom Hearts
Titolo Fanfic: BLEED IT OUT
Genere: Sentimentale, Romantico, Drammatico
Rating: Per Tutte le età
Avviso: One Shot, Shounen Ai
Autore: yachiru galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 02/07/2008 05:29:35

L’autolesionismo, pertanto, non è un disturbo psicologico: non è irrazionalità. Anzi, è tutto l'opposto; l'autolesionismo è potere. [VI/IX]
 
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EINZIG KAPITEL;
- Capitolo 1° -

“La psicologia non è una scienza esatta: al contrario, secondo alcuni pareri, non avrebbe nemmeno il diritto di essere definita tale, poiché pecca del requisito fondamentale per esserlo. Non è possibile condurre esperimenti su una mente umana funzionante, perché la medicina non è ancora arrivata ad un tale livello di onniscienza: la psicologia è un insieme di congetture, di teorie, di metafore che gli scienziati hanno usato per etichettare determinati comportamenti umani. La psicologia non è tangibile, perché non esistono due cervelli che funzionino allo stesso, identico modo, perché è impossibile formulare leggi universali senza preservare quell’importanza dell’unicità del singolo individuo che si va tanto a decantare. La psicologia non è razionale, perché gli studi sui meccanismi cerebrali degli animali, o addirittura degli uomini stessi, non bastano a spiegare ogni azione: alcuni modi di agire non sono comprensibili, e le teorie che basano le malattie mentali su contusioni od esperienze traumatizzanti sono soltanto castelli per aria.
L’autolesionismo, pertanto, non è un disturbo psicologico: non è irrazionalità, non è una situazione di sottomissione, non è necessariamente derivante da uno shock precedente. Anzi, è tutto l’opposto: l’autolesionismo è controllo, è un complesso di superiorità, è potere. L’autolesionismo significa avere la possibilità di decidere del proprio futuro, di trovare un punto di equilibrio tra la vita e la morte, di avere la più totale padronanza dei propri processi vitali: quella è una scienza. Non è questione di raptus di follia, o di crisi di depressione: è frutto di calcoli meticolosi e di una precisione matematica, di conoscenze mediche e di reazioni chimiche. Dove tagliare, con quanta pressione far scorrere la lama sulla pelle, quanto aspettare perché la ferita si rimargini, come fare a rallentare la coagulazione del sangue, e addirittura con che intensità fare reagire i neurotrasmettitori: non è pazzia, è la ricerca della consapevolezza di avere finalmente qualcosa di cui si possa essere pienamente possessori.
È fuga dalla realtà, ma è anche mediazione tra corpo e mente: è assoluto delirio di onnipotenza.”

Secondo la professoressa di psicologia, scrivere era il modo migliore per liberare la mente; secondo lui, non era nient’altro che una perdita di tempo. Aveva riempito quaderni e quaderni di appunti personali, in cinque anni di liceo, e aveva imparato che, in quel modo, la frustrazione non andava affatto via: anzi, tutti quegli zibaldoni di pensieri gli servivano soltanto a rendere il suo linguaggio più selettivo di quanto già non fosse, guadagnandosi critiche su critiche dai professori, che ritenevano il suo approccio alle materie troppo saccente.
Il problema principale era che, benché la mente umana lo affascinasse a dismisura, il suo studio lo aveva lasciato non poco deluso: niente certezze, niente fondamenti solidi, niente di niente. Cambiare scuola era totalmente fuori discorso: i suoi genitori si lamentavano già solo per la sua esistenza, una richiesta del genere sarebbe stato un vero e proprio suicidio – non che non ci avesse mai pensato, tanto alla domanda di trasferimento quanto al suicidio.
In ogni caso, non sarebbe di certo servito a molto: nessuna materia lo interessava realmente, quindi frequentare una scuola o l’altra non avrebbe fatto alcuna differenza. Perlomeno, le aspettative del rendimento degli studenti non erano affatto pretenziose, e di questo certo non poteva lamentarsi: il massimo dei voti senza il minimo sforzo mentale non era una cosa da tutti, e di questo andava egoisticamente fiero; farsi i complimenti da solo, però, non bastava affatto. Né il padre troppo impegnato a passare la notte fuori in cerca di qualche ragazzetta da sbattersi a poco prezzo, tornando a casa sì e no due volte al mese, né la madre troppo ubriaca anche solo per riconoscerlo si sarebbero mai sognati di dargli una pacca sulla spalla o di essere contenti per lui: l’unica via di salvezza per sentirsi compiaciuto, anche se solo per un minuscolo istante, era nascosta sotto al letto, in una scatoletta di legno che i genitori gli avevano regalato quasi tredici anni prima.


« Zexyyyy!!! » Una voce piagnucolosa si fece strada lungo il corridoio fino ad arrivare alle sue orecchie, facendogli storcere il naso al sentire l’odioso ed oramai abusato soprannome.
Un paio di secondi più tardi, il proprietario della voce gli saltellava intorno, i passi del suo improbabile balletto mossi da quello che sembrava un misto di eccitazione ed angoscia. Demyx era la persona quanto più vicina alla definizione di amico che Zexion avesse mai avuto: ciononostante, lui preferiva chiamarlo un conoscente nei confronti del quale aveva un limite di sopportazione eccessivamente alto. Si conoscevano da più di cinque anni, e nessuno si sapeva spiegare come la loro relazione durasse da così tanto, data l’incompatibilità genetica.
Tanto per citare un paio di esempi, Zexion sfiorava appena il metro e sessanta di altezza, Demyx superava di un paio di centimetri il metro e ottanta; i capelli del primo erano di un colore smorto, che somigliava ad un indaco quasi opaco, acconciati in maniera scialba e disordinata al punto che la frangia gli copriva quasi interamente metà faccia, mentre quelli dell’altro sembravano riflettere di luce propria, biondi come il grano e pettinati in una capigliatura che si poteva definire un mullet tipico da rockstar anni ’80, con tanto di gel in cima per far sì che assumessero l’effetto anti-forza di gravità. Gli occhi del più basso avevano una sfumatura cupa, di un blu talmente scuro da sembrare spenti, quelli del più alto erano chiari, chiarissimi, di un azzurro-verde che guizzavano continuamente a destra e sinistra. Senza contare che, se Zexion perseguiva l’obiettivo di uscire in fretta dal liceo cercando di stringere meno amicizie possibili, Demyx era conosciuto all’incirca dal 90% degli studenti, e non aveva la benché minima intenzione di dover anche solo pensare che prima o poi la pacchia e la fama sarebbero finite. Insomma, vivevano ad anni ed anni luce di distanza tra loro.
« Che c’è? » Borbottò Zexion, una volta sicuro che l’altro fosse abbastanza vicino da sentirlo senza che lui dovesse distogliere l’attenzione dai libri riposti nell’armadietto, all’apparente ricerca di solo il cielo sapeva cosa.
« Catastrofe, è una catastrofe! » Si sbracciò il biondino, agitandosi e sventolando una mazzetta di fogli da cui continuavano a cadere brandelli di carta. « Non ho la minima idea di cosa chieda la Gainsborough nella verifica! »
« Prova dal capitolo sei al nove, » sbuffò il più basso, chiudendo l’armadietto e marciando verso la classe.
« Zexyy, non fare così! » Demyx gli corse dietro, frugando nel frattempo tra la pila di appunti e cercando quelli corrispondenti ai capitoli. « Dammi una mano, non ce la farò mai a studiare tutto per la terza ora! Dimmi almeno chi era Eibla– Eibl-Eibs– Diamine, il tizio del capitolo sette! »
« Studiare Eibl-Eibesfeldt non ti servirà a prendere la sufficienza, » osservò presuntuoso Zexion, entrando in classe. « Forse sarebbe stato utile studiare ieri, anziché andare ai tuoi idiotissimi festini. »
« Ouch, » sibilò l’altro, imitando con fare offeso e piagnucolante una frecciata. « La tua freddezza mi ferisce, Zexy! »
« Eibl-Eibesfeldt è il fondatore dell’etologia umana, e la maggior parte dei suoi studi si incentra sul comportamento umano innato, da cui deriva anche la sua teoria sull’aggressività, » il tono di voce meccanico ed indifferente si interruppe pochi secondi dopo che Zexion aveva preso posto. « Ti siedi, o devo spiegarti tutti e quattro i capitoli mentre mi fissi come un imbecille? »
Il suo era puro e semplice egoismo, si ripeté tra sé e sé mentre spiegava la lezione all’altro. Era soltanto una questione di dimostrare che ne sapeva più di lui: non era certo sua intenzione fare un favore a Demyx.


Tornare a casa dopo una giornata di scuola non era mai un’esperienza entusiasmante: i casi erano due, o sarebbe riuscito ad arrivare in camera senza farsi notare, o avrebbe dovuto incrociare lo sguardo della madre, sdraiata sul divano a fissare qualche assurda telenovela, e a doversi subire qualunque genere di insulto per le più svariate ragioni. Raggiungere la camera fu sorprendentemente un’impresa più facile del previsto, dal momento che la madre sembrava davvero troppo occupata a piagnucolare, fazzoletto alla mano, per la morte prematura di uno dei protagonisti: la cosa divertente era che, se solo si fosse guardata un attimo attorno, avrebbe davvero avuto un motivo per cui piangere, senza dover avere bisogno di rifugiarsi nella televisione.
Buttando la tracolla sul letto, si lasciò cadere sulla sedia della scrivania con un sospiro: i compiti in classe della Gainsborough erano sempre terribilmente semplici, ed era convinto che anche un idiota come Demyx sarebbe riuscito, anche questa volta, a strappare una sufficienza. Non che a lui importasse, anzi, a dire la verità lo irritava terribilmente il modo di fare del biondino, che si esaltava ogni qualvolta la sua media scolastica superasse il sei e mezzo, quando l’unico motivo per cui i suoi voti erano così bassi era che preferiva perseguire la filosofia di vita del fancazzismo anziché anche solo pensare di aprire un libro. Ma questi non erano affari suoi, per nulla. Quindi, anziché doversi fare problemi sui metodi di studio degli altri, avrebbe fatto meglio ad occuparsi delle cose serie, come ad esempio una delle stupide ricerche di psicologia che doveva consegnare entro tre settimane se voleva guadagnarsi un voto quantomeno decente nella valutazione di fine anno: ironia della sorte, psicologia era proprio una delle materie dove doveva minimamente sbattersi per guadagnarsi il suo nove; per carità, i voti delle verifiche erano alti, così come quelli delle interrogazioni, ma la Gainsborough pretendeva che partecipasse a quegli stupidi giochi sulla fiducia reciproca, che non erano per niente il suo forte, e, così, per dover alzare il voto era sempre stato costretto a portare approfondimenti che, alla fin fine, non venivano nemmeno corretti e probabilmente le servivano soltanto da ferma-porte.
Quest’anno non aveva nulla da perdere, quindi tanto valeva raccogliere tutti gli appunti e dirle quello che pensava realmente: raccattando fogli sparsi sulla scrivania, riordinò le ultime cose che aveva scritto. Nome e cognome in un angolo, cominciò a scrivere in bella grafia: la psicologia non è una scienza esatta.


« Di grazia, » esordì pacando, chiudendo a chiave la porta di casa ed uscendo sul vialetto. « Che cosa pensi di fare qui? »
« Passo a prenderti, no? » sorrise radioso il biondo che gli si era piazzato davanti, mentre con la coda dell’occhio cercava di scorgere qualcuno da dietro le finestre. Non era mai entrato in casa di Zexion, né aveva mai conosciuto i genitori: era curioso, terribilmente curioso, ma non aveva mai fatto nulla per forzare l’altro ad invitarlo a casa sua, consapevole del fatto che non avrebbe mai ceduto né alle sue moine, né agli occhi da cane bastonato. « Mio fratello mi ha lasciato la moto, sarebbe un peccato non approfittarne! »
Il più basso lanciò un’occhiata al mezzo parcheggiato sul vialetto, visibilmente contrariato. « Oh no, io su quel coso non ci salgo. »
« Oh sì che ci sali, principessa! » rise Demyx, passandogli il casco. « Non fare storie, non mi interessa se ti si rovina il ciuffo! »
A pochi passi di distanza dalla moto, tuttavia, non replicò e, riluttante, si infilò il casco, tenendo sotto braccio gli appunti, che non sfuggirono allo sguardo ficcanaso dell’altro, che non perse tempo a chiedere cosa fossero.
« Affari miei, suppongo, » borbottò Zexion, salendo impacciato dietro a Demyx.
« La ricerca di fine anno, vero? » chiese il biondo, mettendo in moto. « Su cos’è, quest’anno? »
« Niente in particolar— » fu costretto a sussultare quando, acceso il trabiccolo, Demyx si fiondò a tutta velocità sulla strada. « Rallenta, idiota, RALLENTA! »
« Scherzi? Ho appena iniziato! » strillò l’altro, ridendo. « Tieniti forte, Zexy! »
E Zexion non se lo fece ripetere due volte: intrecciò le braccia alla vita del più alto, e strinse talmente tante forte che persino i polsi gli facevano male. Ma la causa di certo non era la velocità folle a cui andavano.

« Tu. Sei. Un completo. Deficiente. » sibilò Zexion, una volta entrati nel parcheggio: poco ci mancò che si inginocchiasse a terra a baciare l’asfalto.
« Non dire cattiverie, Zexy, » osservò il biondo, rigirando le chiavi tra le dita. « Hai soltanto paura di un po’ di velocità. »
« Prendere una curva a 45 chilometri orari e dribblare una vecchietta che sorpassa sulle strisce non è un po’ di velocità, Demyx, è un attentato. » borbottò levandosi il casco e lanciandoglielo.
« Certo, certo, » rispose con nonchalance lui, agitando la mano. « Che abbiamo di bello alla prima ora? »
« Educazione fisica, » bofonchiò Zexion, fermandosi all’incrocio del corridoio. « Quindi, mi congedo. »
« Ma non puoi disertare anche oggi! » si lamentò Demyx, cercando di tirarlo a sé per la manica del maglione.
« Ho un certificato medico, posso eccome, » ribatté lui apatico, sfuggendo alla presa dell’altro.
« Che sarà mai di così grave! » piagnucolò ancora, dimostrandosi particolarmente tenace. In cinque anni di liceo, non lo aveva mai visto in palestra nemmeno una volta, e sicuramente non sarebbe stato il fatto di vederlo saltare un’altra lezione a cambiargli la vita: probabilmente si era semplicemente svegliato un po’ più ficcanaso del solito.
« Affari miei, » tagliò corto Zexion, dandogli bruscamente le spalle e dirigendosi alla biblioteca. « Chi sei tu per decidere cosa è grave e cosa no? »
« Zexy? Aspetta, ti sei offeso?! » gli gridò dietro il biondo, ma non ottenne risposta.


Tornare a casa, quel giorno, aveva richiesto una massiccia dose di auto-controllo: Demyx aveva continuato ad insistere per offrirgli un passaggio sul suo diabolico mezzo, e lui aveva dovuto sprecare almeno mezz’ora per negargli l’offerta. Il biondo stava letteralmente morendo dalla curiosità di entrare in casa sua, ed era palese: la cosa lo rendeva nervoso all’inverosimile, perché non aveva la benché minima intenzione di farlo avvicinare a casa sua più di quanto non avesse già fatto. La cosa più assurda era che, tra un paio di mesi, passati gli esami, nessuno dei due si sarebbe sicuramente più rivisto, quindi perché questa sua fantomatica indiscrezione nei suoi confronti doveva spuntare proprio adesso?
Non facilitò affatto le cose rientrare in casa ed essere accolto dalla madre ubriaca fradicia che gli aveva lanciato gratuitamente addosso una serie di improperi sul fatto che fosse perennemente in ritardo, non si interessasse mai alle faccende domestiche, e questa casa non è un albergo, quando effettivamente l’unica risposta a quell’affermazione era che quella casa non era davvero un albergo, sembrava molto di più un centro di igiene mentale. Alla fine, il metodo migliore per uscirne puliti era non prestarle attenzione, dato che le poche volte che aveva avuto la faccia tosta di risponderle si era beccato una bottiglia di birra che gli si era frantumata, rispettivamente, la prima volta sul braccio, e la seconda sulla testa.
Aveva sbattuto la porta della camera, e l’aveva chiusa a chiave, per sicurezza: un gesto stupido, dato che difficilmente qualcuno sarebbe venuto a cercarlo. Aveva la vista quasi annebbiata, da tanto era agitato, e si era seduto ai piedi del letto senza troppa grazia, tastando alla cieca sotto il materasso, alla ricerca di quella scatola che, dopo un paio di secondi, aveva subito trovato. La aprì senza nemmeno pensarci due volte, e non appena tirò fuori quello che cercava, la buttò a terra, facendo finire sul pavimento buona parte di quello che conteneva. Si tirò su la manica del maglione, rigirandosi tra le dita della mano destra il taglierino: ai suoi occhi, la visione era catartica, a dir poco. Righe su righe che solcavano il braccio, alcune rosse, altre bianche al punto da confondersi con il pallore della pelle, tutte tracciate con una precisione minuziosa: ce n’erano a decine, centinaia forse era un’esagerazione, ma se le ricordava tutte, senza nessuna eccezione. Non era il lavoro di un pazzo, era il lavoro di uno scienziato: niente era lì per caso, perché tutto aveva la propria collocazione, sia nello spazio che nel tempo. Questa volta non era diversa dalle altre, era solo questione di riprendere controllo di sé: la mano destra gli tremava, ma non per l’agitazione, bensì per la smania di riacquistare la calma. Con un gesto calcolato, la lama passò sulla pelle, spingendo a fondo: non faceva male, affatto. Era una liberazione, era un toccasana per i nervi: lasciando cadere il taglierino, si ritrovò a contemplare il grumo di sangue che si addensava sul taglio e che da lì poi scorreva verso il basso, sul palmo della mano. Era parecchio, non abbastanza da farlo svenire, ma abbastanza da fargli sentire la testa leggera: era semplicemente perfetto.
E poi il telefono prese a suonare, rovinando tutto. Lo lasciò squillare, due, tre, quattro volte, nella speranza che smettesse, ma quando il suono diventò troppo fastidioso da sopportare, afferrò il cordless buttato sul cuscino del letto con l’altra mano e si decise a rispondere.
« Pronto? » mormorò con voce pacata, sentendosi ancora più leggero di quanto non fosse in realtà.
« Zexy? » fu la risposta concitata dall’altra parte, che riuscì a fargli tornare immediatamente il sangue al cervello e, contemporaneamente, a farglielo gelare. Le domande che gli si affollavano in mente erano tante, ma quella che aveva la priorità assoluta era cosa diavolo vuole da me, ora?: Demyx non lo chiamava mai a casa, anzi, non era nemmeno sicuro di avergli mai detto quale fosse il suo numero di telefono.
« Che c’è? » chiese impaziente lui, dimenticandosi in un attimo di tutta la calma che aveva bisogno di riguadagnare.
« Uhm, » ci fu una pausa, come se il ragazzo all’altro capo della cornetta non sapesse esattamente cosa dire. Probabilmente non aveva neanche preso in considerazione l’idea che lui avrebbe attualmente risposto. « Come stai? »
« Sto… » …per venire ad ucciderti con le mie mani, testa di cazzo, sarebbe stata la risposta giusta, al momento. Invece lo sguardo cadde sulle gocce di sangue che avevano macchiato il pavimento e su quello che cominciava a rapprendersi sul polso. « Benissimo. »
« Ok, » borbottò Demyx nervoso, ed era talmente prevedibile che si sarebbe potuto immaginarlo in piedi nel corridoio, davanti al mobile del telefono, mentre torceva il filo del telefono tra le mani. « Volevo solo… Chiederti scusa, per oggi. Non volevo essere troppo insistente, né altro. Era solo per farti un favore. »
« Se avessi bisogno di un favore, te lo chiederei, Demyx. » Anche se la cosa non accadrebbe nemmeno tra un milione di anni, aggiunse mentalmente.
« Sì, ecco, allora, » bofonchiò il biondo confuso, non aspettandosi di certo una simile replica. « Volevo solo dirti che per oggi mi— »
Non ebbe il tempo di finire la frase, che Zexion aveva riattaccato. Ed era di nuovo nervoso.


Quando si dice che l’erba cattiva non muore mai, non riuscì a fare a meno di pensare ironico Zexion, sentendo dei passi correre pericolosamente verso la sua traiettoria.
« Zeeexy! » gli strillò Demyx a mezzo metro di distanza, confermando le sue ipotesi.
« Dimmi, » rispose il diretto interessato, che di interessato non ne aveva nemmeno lontanamente la parvenza.
« Ieri è caduta la linea… »
« Lo so, » ho riattaccato io.
« Ho provato a richiamare ma dava sempre occupato… »
« Ah sì, » ho staccato il filo del telefono. « Amica di mia madre, l’ha tenuta attaccata alla cornetta per ore. »
« E poi avevi il cellulare spento… »
« Colpa mia, » che caso, l’avevo giusto spento. « Batteria scarica. »
« Comunque sia, » riprese Demyx col suo tono raggiante. « Mi dispiace per ieri, ti sei offeso per qualcosa che ho detto? »
« Avrei dovuto? » ribatté l’altro, apatico al punto da sembrare quasi arrogante.
« Sì— cioè, no— insomma, non so, » balbettò perplesso il biondo. « Scusa comunque! »
« Non c’è di ch— » non fece in tempo a finire la frase, che Demyx, tornato pimpante, lo aveva intrappolato in uno dei suoi stupidi abbracci, risultato di troppe lezioni e giochini idioti dell’ora di psicologia. « Demyx, scollati, sto morendo di caldo. »
« Non per essere invadente o altro, » osservò il biondo, con un’espressione stranamente intelligente. « Ma è maggio, ci sono ventotto gradi, magari se ti levi le maniche lunghe non rischi di colare in una pozza informe sul pavimento. »
« Demyx, » la risposta fu pacata, talmente pacata da essere intimidatoria. « Sono le ultime cinque settimane di scuola, sono cinque anni che ti sopporto, magari se ti levi dalle scatole e la smetti di impicciarti non rischi che ti butti giù dalle scale. »
« Hey, » borbottò il biondo, quasi offeso, alzando le mani in segno di resa. « Era un consiglio, scusa, » lo squadrò perplesso. « Sei sicuro che stai bene? »
« No che non sto bene, » rispose, dandogli le spalle. « Mi stai asfissiando come non mai, come posso stare bene? »
Non si parlarono per il resto delle lezioni, e Zexion ne fu parecchio sollevato.


Demyx era il classico ragazzo che non sapeva portare rancore: litigava con la gente, a volte passava alle mani, ma una volta finita la discussione era il primo ad andarsi a scusare. Era il tipico adolescente che era entrato al liceo con l’idea di essere l’amico di tutti e, in qualche modo, ci era riuscito: aveva la testa fra le nuvole, non gli interessava essere popolare (ovvio, gli faceva piacere esserlo, ma non era di certo l’obiettivo della sua vita, quello), ed era terribilmente ingenuo. Ma non era stupido, anche se l’aria svampita e il sorriso ebete sembravano attestare il contrario: il cliché dell’idiozia dei biondi si applicava anche ai maschi, e lui non faceva eccezione. Aveva la lingua lunga e a volte si impuntava troppo su determinate situazioni, ma lo faceva per buonismo, non per idiozia.
Sapeva che Zexion non parlava mai, sapeva che svicolava l’argomento vita privata come se fosse lebbra, e sapeva di essere, a volte, fin troppo insistente nei suoi confronti: il problema era che sapeva anche di avere un chiodo fisso per il tappetto, e di averlo sempre avuto, da cinque anni a quella parte. Se fosse amore a prima vista, la classica sbandata del liceo, o semplice interesse, questo non lo sapeva: e aveva poco più che un mese per scoprirlo.
Non si era mai posto il problema, rimanere amici era l’importante, anche se forse era una relazione a senso unico, ma realizzare che probabilmente tra tre mesi lui non avrebbe nemmeno più saputo chi fosse lo inquietava: vedere Zexion impegnato nel consultare depliant su facoltà universitarie di città quasi all’altro capo del mondo lo rendeva nervoso, e aveva pensato che o la va o la spacca, anche se l’opzione di troncare i rapporti definitivamente non gli piaceva affatto, e, dopo gli ultimi tre giorni, la situazione verteva sempre più sul la spacca.
A fine giornata non gli era rimasto nemmeno un neurone che non pensasse alle rispostacce della mattina, e quando aveva cercato di scusarsi appena finite le lezioni, Zexion era schizzato fuori dalla classe con uno scatto che non avrebbe mai pensato di vedergli fare. Ma la fortuna era dalla sua, una volta tanto, e non appena si era accorto che l’altro aveva lasciato sul banco il bloc-notes, gli era quasi sembrato di sentire un coro di angeli cantare l’hallelujah. Senza farselo ripetere due volte, l’aveva afferrato e, al settimo cielo, era uscito dalla classe con tutta calma, ripassandosi mentalmente il percorso per raggiungere casa sua: avendo tempo da perdere, dovendo aspettare che l’interessato facesse quantomeno in tempo ad arrivare a casa, si mise a sfogliare gli appunti, giusto per dargli un’occhiata veloce; c’era sicuramente qualche legge che diceva che gli appunti scolastici non erano vincolati dalla privacy.
L’occhiata veloce alla fine si era trasformata in più di una mezz’ora seduto su una panchina a leggere e rileggere pagine su pagine di quella che sembrava quasi una tesina universitaria: anzi, più che una tesina, era quasi un discorso che screditava, due frasi ogni tre, l’affidabilità della psicologia. Sarà la ricerca di fine anno, fu la risposta più sensata a cui arrivò, senza capire che cosa davvero Zexion volesse farci con fogli e fogli di approfondimento sull’autolesionismo. Quella era una domanda troppo indiscreta anche per lui, e probabilmente non avrebbe mai avuto una risposta.
Arrivato davanti alla casa del ragazzo, la cosa che più lo stupì fu sentire gli strilli di una donna che sembrava blaterare tra sé e sé cose senza senso, seguiti dal rumore di qualcosa che cadeva a terra: non era il momento adatto per intromettersi, ma quando se ne rese conto, aveva già suonato il campanello, ed aveva la sensazione di sentire anche qualcuno camminare verso la porta. Se Demyx pensava che fosse bastato il baccano a stupirlo, dovette immediatamente ricredersi quando ad aprirgli la porta fu nient’altri che Zexion.
« Che c’è? » bofonchiò seccato, squadrandolo.
« Stai… » sussurrò il biondo quasi sconvolto, fissando il suo occhio destro. Il ciuffo di capelli che solitamente gli copriva metà faccia era spostato dietro all’orecchio, e tra un respiro e l’altro Demyx si ritrovò a pensare che era la prima volta in cinque anni che gli vedeva entrambi gli occhi contemporaneamente. « Stai sanguinando, » concluse con un filo di voce, indicandosi il proprio sopracciglio.
« Lo so, » rispose lui, incurante. « Altro? »
« Lo hai dimenticato a scuola, » balbettò Demyx, porgendogli il bloc-notes. « … Che hai fatto? » aggiunse alla fine, tentennante.
« Sono inciampato, » replicò con indifferenza, prendendo i suoi fogli.
« Inciampato, » ripeté incredulo.
« E ho sbattuto contro uno spigolo, » concluse Zexion, prima di cambiare discorso. « L’hai letto? »
« Avrei dovuto? » chiese il biondo, inclinando leggermente la testa da un lato, nel tentativo di sembrare saccente.
« No, non avresti dovuto. »
« Allora non l’ho letto, » rispose semplicemente Demyx, quasi colpevole. « Perché non dici la verità, una volta tanto? »
« Perché non è affar tuo, » sbottò Zexion, la mano pronta sulla maniglia, deciso a sbattergli la porta in faccia.
« Non costa niente, sai? Potrei provare a darti una ma— »
« No, » lo interruppe il più basso. « Non mi serve una mano, Demyx, perché la vuoi sapere una cosa? Va tutto stupendamente bene. »
« D’accordo, scusa, » mormorò il biondo. « Ci vediamo a scuola. »
« Temo di sì, » borbottò Zexion, sbattendo la porta, il nervosismo alle stelle.


Never give up on the things that make you smile, aveva detto qualche genio, una volta. Non rinunciare mai alle cose che ti fanno sorridere: lui non riusciva a capire se lo aveva fatto o meno. Era passata una settimana da quel giorno, e, certo, si erano visti a scuola, ma Zexion sembrava lo avesse cancellato dalla lista di persone che abitavano sul pianeta Terra, e lui non sapeva se dovergli dire qualcosa, dato che la risposta che gli sarebbe arrivata sarebbe stato sicuramente un fatti gli affari tuoi: era preoccupato, moriva di preoccupazione, ma si sentiva in colpa per aver ficcato il naso in cose che davvero non lo riguardavano. E se un pensiero del genere aveva attraversato anche solo per un secondo la mente del biondo, stava a significare che la situazione era critica: lo molestavano, lo picchiavano, lo stupravano, doveva chiamare la CIA, l’FBI, la NASA, regalargli una bodyguard? Stava cominciando a delirare, e ciò era preoccupante.
Come se già tutto il resto non fosse stato abbastanza, ad aggravare il tutto si aggiungeva il fatto che erano due giorni che Zexion non sembrava intenzionato a presentarsi a scuola: che era successo? Stava male, aveva cambiato scuola, lo avevano rinchiuso in cantina, era morto? Non ne aveva la più pallida idea.
Gli aveva mandato una ventina di messaggi, aveva chiamato innumerevoli volte sia a casa che sul cellulare, e aveva lasciato, rispettivamente, cinque messaggi nella segreteria del telefono fisso e dieci sul telefonino. Come prevedibile, nessuna risposta. Non aveva avuto il coraggio di fermarsi a casa sua, mentre tornava da scuola, e mentalmente si stava dando dello scemo.
Perché, perché, perché, perché, perché? era l’unica cosa che continuava a ripetersi in testa, come un disco rotto. Perché non poteva fare anche lui come tutti i suoi amici stupidi che si trovavano sempre un’oca giuliva per una botta e via? Perché lui doveva sempre pensare a come si sentivano gli altri? Perché a lui doveva importare dell’unica fottutissima persona che non lo filava nemmeno di striscio? Perché stava perdendo tempo ad ascoltare la Gainsborough parlare di assiomi della comunicazione quando non capiva nemmeno cosa stesse dicendo? Perché non era ancora entrato a forza in casa di Zexion e non lo aveva preso a pugni sul naso urlandogli che, cazzo, anche lui era una persona e voleva essere trattato con un minimo di dignità?
La risposta a tutte le domande, quasi certamente, era perché lui era uno scemo.


Quello sarebbe sicuramente passato alla storia come il venerdì sera peggiore della sua vita: il venerdì era senz’ombra di dubbio il giorno migliore della settimana, non solo perché preannunciava due giorni di totale riposo, ma anche perché i suoi partivano per i loro weekend all’insegna di riunioni di affari e corsi di aggiornamento, e lui, avendo la casa a completa disposizione, solitamente la trasformava nella sede di qualche festino. Quella sera, invece, se ne stava sdraiato sul divano a fissare vacuo qualche macchia invisibile sulla parete del salotto, completamente incapace di fare altro: era venerdì, e Zexion non veniva a scuola da martedì. Non riusciva a capire se aveva smesso di pensarci, o se invece aveva smesso di pensare al resto del mondo e a pensare talmente tanto a lui da non accorgersene nemmeno.
Ascoltava l’ultimo cd degli Skillet, e teneva il volume talmente alto che, in un primo tempo, non fu nemmeno sicuro di aver sentito bussare alla porta: quando si accorse che non se lo stava sognando, si alzò controvoglia dal divano e andò ad aprire la porta, John e Korey Cooper che cominciavano a duettare in sottofondo.
You come to me with scars on your wrist, you tell me this will be the last night feeling like this.
I just came to saygoodbye, didn’t want you to see me cry, I’m fine:
but I know it’s a lie.

Non aveva una gran fortuna in fatto di porte, si ritrovò a pensare, mentre tutto quello che voleva fare in realtà era chiudere di scatto la porta e riaprirla un minuto dopo, solo per essere sicuro di stare sognando: qualcosa nella sua testa, però, sapeva benissimo di non stare sognando un bel niente.
Di fronte a lui, c’era Zexion, in piedi, sull’atrio, con addosso un paio di sneakers trasandate, dei jeans altrettanto malconci, ed una t-shirt nera a maniche corte talmente sbiadita da sembrare grigia: e, se semplicemente il fatto di trovarsi Zexion sotto casa sua, oltretutto con dei vestiti che non gli coprivano più del 95% del corpo, sarebbe bastato a farlo impallidire, era niente in confronto al resto. Lo sguardo di Demyx si fissò sul suo braccio sinistro, dove era convinto che, l’ultima volta che lo aveva visto, ci fosse, attaccato al gomito, anche un avambraccio: e, probabilmente, c’era ancora, soltanto che era tutto talmente impiastrato di rosso da essere irriconoscibile.
« OMMIODDIO! » strillò il biondo, in preda al panico. « Zexion, che è successo?! »
« Non urlare, imbecille, » mormorò lui, barcollante. « Sto bene. Dem, mi gira la testa… »
Fece a malapena in tempo a finire la frase che l’equilibrio gli mancò del tutto, e soltanto il cielo sapeva come Demyx avesse fatto ad afferrarlo al volo senza svenire a sua volta. Erano appena successe due cose: la t-shirt bianca dei Plain White T’s si era velocemente impregnata di rosso ed era diventata pronta per il cestino della spazzatura, e Zexion l’aveva chiamato Dem. E lui non sapeva quale delle due fosse la più grave.

Anche solo aprire gli occhi si rivelò un’impresa più ardua del previsto: faceva già soltanto fatica a respirare, e la prima cosa che notò quando cercò di guardarsi intorno fu che vedeva tutto sfuocato, come se fosse coperto da una qualche patina trasparente. Forse era morto, forse era pazzo: forse era entrambe le cose.
Era scomodo, ma né cambiare posizione né alzarsi in piedi, o semplicemente mettersi seduto, erano delle opzioni: non si sentiva più la parte sinistra del corpo, il braccio perché goffamente bendato e la gamba perché c’era qualcosa appoggiato sopra. Qualche sguardo appannato più tardi, si accorse che quel qualcosa era la testa del biondo che, seduto affianco al letto, l’aveva usato come cuscino.
« Dimmi che non sei morto, dimmi che non sei morto, » continuava a borbottare nel sonno, la voce lagnosa al punto da sembrare quasi una cantilena.
Scrollò appena la gamba, nel tentativo di svegliarlo e di toglierselo di dosso, e per la prima volta in vita sua sentì un nodo stringergli lo stomaco: senso di colpa, sollievo, rassegnazione, compassione, cos’era? Non era in grado di dirlo.
Il biondo mugugnò qualcosa, stiracchiandosi prima con calma e poi mettendosi seduto di scatto quando si accorse che un paio – sì, erano di nuovo due, gingillò tra sé e sé con una strana dose di contentezza – di occhi scuri lo fissavano.
« ZEXY! » urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, fiondandoglisi addosso e stringendolo talmente forte da fargli mancare il respiro.
« Ahia, » sussurrò l’altro dolorante, con un filo di voce.
« Scusa, » Demyx si staccò immediatamente, da una parte sollevato, ma dall’altra sull’orlo delle lacrime.
« Che hai fatto? » aggiunse cercando di calmarsi e sciogliere il nodo che gli si era formato in gola che faceva tutto fuorché evitare di fargli venir voglia di piangere. « Non sei inciampato, non hai sbattuto contro un bel niente. Che ti hanno fatto? »
« Le hai viste, no? » Era una domanda retorica, a cui il biondo si sentì comunque in obbligo di annuire con un cenno del capo. Certo che le ho viste, pensò amareggiato, non notarle era impossibile: ne aveva il braccio pieno, e Dio solo sapeva quante altre ne avesse da qualsiasi altra parte.
« Che hai fatto? » Demyx ripeté la domanda, cercando di controllare il tono di voce, ma risultando ancora più agitato di prima.
« È scienza, Demyx, » osservò pacato Zexion, il tono convinto, ma non abbastanza sostenuto da potersi permetterlo di guardarlo negli occhi mentre parlava. « Ci si perfeziona tramite gli esperimenti. Ho sbagliato i calcoli. »
« Perché? » chiese il biondo, isterico, mentre gli occhi gli si erano talmente riempiti di lacrime che oramai cominciavano a cadere senza ritegno sul lenzuolo.
« Troppa eparina e troppo a fondo, suppongo. Non avevo tenuto conto che— »
« Non quello! » strillò indignato. « Perché quelle? »
« Li hai letti gli appunti, Demyx, » rispose tranquillo Zexion: sembrava la cosa più naturale del mondo, ai suoi occhi. « Reazioni chimiche e processi elettrici: è autocontrollo. Funziona da anti-stress. »
« Anti-stress? Anti-stress? » ribatté il biondo, allibito. « Mangiarsi le unghie è anti-stress, tagliarsi i polsi è tentato suicidio. »
« Non se sai quello che fai. Attualmente, non ho mai pensato sul serio di morire. » Bugia.
« E cos’hai rischiato di fare, ieri sera? » domandò Demyx, alzando la voce. « Se non fossi venuto qui, adesso a chi porteresti i tuoi fottutissimi appunti, al medico dell’obitorio? »
« Se non avessi avuto bisogno, innanzitutto, non sarei venuto qui, » borbottò Zexion, constatando l’ovvio. Come riusciva a dire cattiverie del genere senza battere ciglio? « Me ne vado, non è certo mia intenzione disturbare troppo a lungo. »
« Tu non te ne vai proprio da nessuna parte! » urlò l’altro, puntandogli il dito contro. « Perché non lo capisci che se mi dicessi qualcosa, ti potrei aiutare? »
« Credi sia questo quello che cerco: aiuto? » chiese lui, irritato. « Sei tu che non capisci, Demyx, e non lo capirai mai, perché tua madre non è mai talmente ubriaca da non ricordarsi nemmeno che sei suo figlio, e tuo padre non torna a casa ogni quindici giorni solo per raccontarti di quanto si sia divertito a scopare con una fottuta ventenne di cui non sa neanche il nome e per dirti che andarsene di casa è l’unica cosa giusta che ha fatto nella sua vita? »
« E trovi che aprirsi le braccia sia una soluzione? A me sembra una richiesta di aiuto bella e buo— »
« Non tentare di psicanalizzarmi, Aquarius, » lo interruppe Zexion. Cos’era, adesso lo chiamava pure per cognome? « Non mi sembra di aver mai detto che fosse una soluzione, e so meglio di te che non lo è. Se davvero cercassi aiuto, comprensione, o compassione, non mi farei problemi di alcun genere a venire a scuola con le braccia in bella vista, non pensi? Evidentemente, se non lo faccio, vuol dire che un motivo c’è. »
« Qual è? » sbottò Demyx, i nervi a fior di pelle. « Cazzo, Zexion, dimmi qual è, perché faccio davvero fatica a trovarne uno! »
« Autocontrollo. » ripeté lui. « Non ascolti mai, quando parlo: voglio decidere io cosa diavolo farmene della mia vita, voglio decidere io quello che ritengo giusto fare, voglio decidere io— »
Il resto della frase gli morì in gola, perché fu interrotto da un sonoro schiocco: guardò Demyx, livido in faccia, mentre si portava la mano sana sulla guancia che si stava velocemente arrossando, sibilando un Ahia a mezza voce e fissandolo come se fosse andato fuori di testa.
« Fa male, Zexion? » chiese il biondo, talmente colmo di rabbia che sembrava uscirgli fumo dalle orecchie. « Strano, non era un anti-stress? »
« È… diverso, » bofonchiò Zexion. « Questa è un’idiozia. »
« Non è diverso, » replicò Demyx. « Che ti faccia male io, che ti faccia male tu, cosa cambia? I neuroni reagiscono allo stesso, identico modo. »
« Smettila, » il tono di voce era cambiato, era acuto, sfiorava quasi il panico. « Smettila. »
« No che non la smetto! » tagliò corto il biondo. « Hai mai pensato che il mondo non gira intorno a te? Hai mai pensato che le persone hanno dei sentimenti? Ti ha mai anche solo sfiorato l’idea che esiste qualcuno che si preoccupa fottutamente per te? »
« Non ho mai chiesto a nessuno di farlo, non dovresti farlo nemmeno tu. »
« Il problema è proprio questo, deficiente, » strillò lui, esasperato. « Non riesco a non farlo! Ti sembra tanto strano? »
« Sì, » mugugnò Zexion, non trovando una risposta migliore.
« Allora forse il deficiente sono io, » sospirò il biondo, alzandosi. « Chiamami, quando vuoi andartene. Ti accompagno alla porta. »


Siete mai arrivati a quel punto nella vita in cui tutte le vostre convinzioni cadono, e vi sentite il mondo crollare addosso? Zexion ci era appena arrivato, e avrebbe preferito uccidersi all’istante piuttosto che ammetterlo ad alta voce. Ci aveva messo anni a costruirsi la sua fantomatica scienza, ed erano bastati venti minuti a farlo cadere nel dubbio, e la colpa era di colui che, probabilmente, era davvero l’unica persona a cui importava qualcosa di lui: insomma, nemmeno lui stesso si stava tanto a cuore.
Scendendo le scale, si ritrovò a pensare perché a casa di Demyx lo stereo fosse perennemente acceso.
You know it tears me up inside to see the feelings that you hide,
hide inside that empty bottle.
I wish you saw how great you were, I wish you saw what life was worth,
you wouldn't have to hide your problems.

Ma la domanda più grande era, che razza di musica moralista e scontata ascoltava Demyx? Non che fosse brutta, per carità; anzi, era anche piuttosto orecchiabile, e sentire qualcuno che ci fischiettava in sottofondo non era nemmeno male.
Sceso quello che sembrava un numero interminabile di scalini – ignaro del perché fossero sembrati così tanti, forse perché non aveva nessuna voglia di tornare a casa, forse perché non aveva voglia di incrociare di nuovo il biondo, probabilmente pronto con un’altra paternale – si affacciò alla porta della cucina, dove Demyx sembrava indaffarato a sbrigare qualche strana faccenda mentre si muoveva a tempo di musica, e si sporse appena con la testa, giusto quel tanto che gli consentisse di formulare una frase secca e concisa per poi svignarsela senza dovergli ulteriormente rispondere male.
« De— » si fermò ancora prima di cominciare la frase, mentre l’altro riprendeva a cantare il ritornello.
Run away, run away,
but that won’t make it any better.
Run away, run away,
and make tomorrow harder to live than today.

Tra sé e sé, dovette ammettere che Demyx cantava piuttosto bene: aveva una bella voce. Aveva una voce stupenda. Non c’era da stupirsi, era sempre il primo a farsi avanti agli spettacoli di fine anno, e il giorno seguente era sempre sulla bocca di tutti. Gli aveva sempre chiesto di andare a vederlo, e lui gli aveva sempre risposto di no. Era davvero un peccato, non esserci andato. Cominciò a chiedersi cosa sarebbe successo, se fosse stato una persona “normale”, e quel pensiero lo metteva a disagio, perché non aveva mai avuto dubbi sul fatto che quello che facesse fosse giusto o meno: gli bastava sapere che per cinque minuti sarebbe riuscito a sentirsi minimamente in pace con se stesso. Forse uscire con Demyx a fare lo stupido nei centri commerciali l’avrebbe fatto sentire bene ugualmente. Gli si era fuso il cervello, a che idiozie stava pensando?
You say you’re looking for happiness, but, when it comes, you run away from it,
you tell yourself you don’t deserve it.
There’s no much more that I can do, you know the rest is up to you:
until you love yourself, you’ll never change.

Non era possibile, pure la canzone sembrava prenderlo per il culo. L’aveva programmato, o aveva semplicemente messo una canzone a caso? La situazione era talmente surreale che non avrebbe saputo rispondere. Frustrazione, tanta: era l’unica sensazione che gli riempiva la testa, e, inconsciamente o meno, sbatté la fronte sullo stipite della porta, nella speranza forse che gli si aprisse un buco in testa e la rabbia si volatilizzasse.
« Zexion? » lo chiamò il biondo, voltando la testa verso di lui. « Che cosa cavolo stai facendo? »
« Torno a casa, » bofonchiò in fretta lui, scostandosi dalla porta.
« Ti accompagno alla porta? » che domanda scema, la porta era a dieci metri distanza, che bisogno aveva di accompagnarlo?
« Uhm, » ok, che male c’era? Qualsiasi stupido riusciva ad essere gentile nei limiti della decenza, non doveva essere una cosa così difficile. « Mi accompagni a casa? »
« Scusa? » chiese Demyx incredulo, convinto che le orecchie gli si fossero scollegate per un attimo.
« Mi accompagni a casa? » ripeté lui, nervoso. Ok, come non detto, era più difficile di quanto pensasse.
Con un sorriso stampato in faccia talmente ampio che Zexion non poté fare a meno di chiedersi come fosse umanamente possibile una cosa simile, il biondo non si fece pregare e lo trascinò fino all’uscita.
Scendendo lungo il vialetto, Zexion pensò alla media scolastica perfetta rovinata quando la Gainsborough si sarebbe accorta che non aveva portato nessuna stupida ricerca, e, sinceramente, non gliene fregava niente.
« È il nostro primo appuntamento? » chiese Demyx speranzoso, prendendolo a braccetto.
« Scordatelo! » gli rispose lui ridendo, spingendolo via. Si sentiva stupido, e incredibilmente sollevato di esserlo: era soddisfatto, e le reazioni chimiche tra neurotrasmettitori e sostanze strane dai nomi idioti non c’entravano proprio un bel niente.


Nota non assolutamente doverosa, ma che mi sentivo in obbligo morale di fare: Ok, lo ammetterò, sono una persona orribile, ma è da quando ho cominciato a leggere AU di kh che uno dei miei più grandi sogni da sviluppare in una fiction era Zexion piccolo aspirante suicida; so che non è un argomento da prendere alla leggera, e non è assolutamente questa la mia intenzione.
So che probabilmente i personaggi, soprattutto l'adorato tappetto, sono OOC, e per non peggiorare il tutto, non volevo venisse fuori la solita storia del "sono depresso, la vita fa schifo, allora mi taglio, blablabla.", perché non è Zexy, o, almeno, non è quella la visione che ho di lui: quindi, spero che l'ottica in cui l'abbiate letta non sia quella del tipico prototipo di emo che adesso circola in giro.
Ho questo cattivo vizio di pensare che io e Zexy abbiamo sicuramente la stessa psicologia contorta (ahimé, io devo ammettere che non sono intelligente come lui, e che Eibl-Eibesfeldt so chi sia solo perché ci ho messo sei mesi ad imparare a pronunciare il suo nome), e, insomma, il succo della vicenda è che questa è pressoché la visione che ho io sull'argomento: può darsi che sia abbastanza insolita, ma mi preme ricordare che non voglio far storcere il naso a nessuno con ciò, è soltanto un'opinione personale.
Grazie per aver letto. ♥
 
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COMMENTI:
Trovato 1 commento
necropoiana - Voto: 19/01/11 22:00
yachiru, a me è piaciuta proprio tanto!
Lo stile è proprio quello che gradisco, mi piace.
Ti rassicuro, il racconto non è così banale :) anzi, è fatta bene e io l'ho letta proprio volentieri.
Però ho un dubbio: visti i motivi dell'autolesionismo di Zexion, il fatto che il dolore inferto da altri non gli piaccia non dovrebbe turbare eccessivamente le sue teorie, dato che proprio perchè è un dolore inflitto da altri esso non è controllato (e dal controllo sorge il piacere dunque dall'autolesionismo). O non è così?
A parte questo mi farebbe davvero piacere leggere una tua storia lunga: nel caso lo facessi, sentiti di mandarmi una lettera che me la segnali, affinché sia sicura che la possa leggere anch'io, d'accordo?
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