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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Persone famose e TV
Dalla Serie: Tokio Hotel
Titolo Fanfic: FOREVER WALKING ALONE
Genere: Sentimentale, Drammatico, Introspettivo
Rating: Per Tutte le età
Avviso: One Shot, Slash
Autore: yachiru galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 02/05/2008 12:10:43

Quella data non sarebbe mai esistita, e adesso avreste ancora tutto il tempo del mondo, davanti. [twincest]
 
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- Capitolo 1° -

È dicembre; nevica, a Loitsche. E fa freddo; fa dannatamente freddo. Non si esce di casa per “fare una passeggiata”, ma questa è la scusa che hai propinato ai tuoi, e loro hanno fatto finta di crederti. A te, il freddo non interessa: non lo senti più, oramai. Non senti più il vento che ti soffia contro, facendoti lacrimare gli occhi; non senti più i fiocchi di neve che ti si posano insistentemente nei capelli e sul giubbotto, talmente largo che ti potrebbe comodamente fare da coperta. Niente; non senti più niente.
Rimani lì, seduto sull’erba, infangandoti i jeans di quella poltiglia che non è più neve, e che a tua madre farà venire un diavolo per capello, quando li metterà in lavatrice; rimani lì, seduto sull’erba, appoggiandoti con la schiena a quella pietra che, invece, il diavolo per capello lo fa venire a te. È scarna, spoglia: c’è un nome, scritto sopra. C’è il suo nome, scritto sopra. Bordato da un contorno d’ottone, sopra al quale c’è una foto che non gli rende affatto giustizia: lui non era così, quello non è il suo sorriso, non ci si avvicina neanche lontanamente. Più in basso, appena sopra al margine della cornice, nell’angolo a destra, ci sono due date: continuano a perseguitarti, imperterrite. Quella della tua vita, e quella della tua morte. Numeri, sono soltanto numeri, ti ripeti migliaia e migliaia di volte nella testa: ma sono una prova tangibile, inequivocabile. Sono lì, incisi nella pietra, e continuano ad essere quello schiaffo in faccia che ti riporta alla realtà, rendendoti continuamente cosciente del fatto che non si può tornare indietro. Ma tu lo vorresti, eccome: vorresti metterti in ginocchio, prendere in mano la scatola di colori, come facevate da bambini, e tirare una rigaccia sopra a quella data. La cancelleresti, riga su riga, come facevi quando non ti piaceva come avevi disegnato la faccia della mamma, e tutto si risolverebbe. Quella data non sarebbe mai esistita, e adesso avreste ancora tutto il tempo del mondo, davanti. Avreste tempo per ridere, per suonare, per andare in giro per club e fare le ore piccole, per litigare e per poi fare pace. Ma non funziona così, e lo sai.
Bofonchi qualcosa, la voce coperta dal colletto del giubbotto che tieni alzato fino alle guance, e ti stupisci ancora quando le parole ti escono con una spontaneità ed una spensieratezza da bambino delle elementari: non ti trema più la gola, quando sei lì, e non sai se esserne sollevato o se dovertene disperare. Parli da solo, parli per ore, come hai sempre fatto; il braccio si muove, pacato, e la mano sfiora su e giù i contorni della pietra, nello stesso ed automatico modo in cui avrebbe fatto sul suo braccio, se lui fosse stato lì con te: non ti accorgi dei polpastrelli bianchi e delle nocche quasi violacee per colpa del vento. Continui, imperterrito, parlando e parlando, sorridendo a qualche ricordo e persino rispondendoti da solo alle domande che fai, se necessario; ridi, quando fai qualche battuta stupida, e la tua stessa risata ti riecheggia nelle orecchie come se fosse quella di qualcun altro: è atona, stridula, quasi fastidiosa. Non è una risata, rifletti, e a quel pensiero ridi ancora di più, ancora più stridulo, perché di piangere non ne hai più la forza. E ti senti in colpa, ti senti fottutamente in colpa, perché dovresti piangere, dovresti piangere fino a farti schizzare gli occhi fuori dalle orbite; perché dovresti mostrare un dannatissimo briciolo di compassione e invece tutto quello che sai fare è restare seduto sull’erba a ridere e a parlare da solo come un deficiente.
« Oggi è un anno, » dici all’improvviso, riprendendoti da quella risata isterica talmente fasulla e acuta che ti ha pizzicato persino le corde vocali. Non sai più come andare avanti, non sai più cosa dire; oggi è un anno da quando? Da quando sei morto suona troppo scortese; da quando mi hai lasciato suona patetico e da vittimista; da quando ho smesso di vivere, sì, se cerchi una maniera per farlo sentire in colpa, allora è la frase giusta; da quando te ne sei andato può andare bene: è neutrale, non accusa nessuno, non dovrebbe offendersi.
Ritorni a parlare, inoltrandoti in quel discorso che volevi affrontare da più di dieci mesi, ma che non hai mai avuto le palle per cominciare. Gli dici che ti manca, gli dici che non è colpa sua, gli dici che gli vuoi bene, e, quando stai per arrivare al nocciolo della questione, ti fermi. Non è colpa tua, è lui che ti ha interrotto: ti chiede come stanno gli altri, e tu lasci perdere l’argomento e cominci a raccontargli di cosa è successo quest’anno.

David? David è il nevrotico testa di cazzo che è sempre stato e che sarà sempre. Non è stato insensibile, questo no. Ha capito che ti mancava, ha capito che per te è stato un colpo irreparabile. Lo ha capito, sì, ma non è servito a renderlo una persona comprensiva. Un mese, ti ha dato un mese per riprenderti: è comprensione, questa? Naturalmente ti ha urlato contro tutti gli improperi possibili, quando ti sei rifiutato di rimpiazzarlo con qualche perfetto sconosciuto. Non si è risparmiato in insulti, è arrivato addirittura a minacciare di citarti in tribunale, se avessi lasciato tutto prima della scadenza del contratto; grazie al cielo, il contratto è scaduto otto mesi fa. Si è letteralmente messo le mani nei capelli, quando si è reso conto di quanto facevate schifo, di quanto tu facevi schifo, senza di lui. Avete terminato la tournée, e poi vi siete sciolti. Spero se li stia godendo fino all’ultimo, i suoi soldi di merda, borbotti ripensando al tuo ex-datore di lavoro.

Gustav e Georg? Non li senti più spesso, e la cosa basta a farti salire in gola il senso di colpa. Hanno cercato di aiutarti, ti sono sempre stati vicini, ma tu li hai ringraziati e hai detto loro che non potevano fare proprio nulla. Da quel giorno, anche solo rimanere tutti e tre insieme nella stessa stanza era insostenibile: mancava lui, e il vuoto si sentiva più che in qualunque altra situazione. Non c’erano più i Tokio Hotel; non c’erano più i sogni e le speranze di quattro ragazzi; non c’erano più le risate, gli scherzi e le prese in giro. C’erano soltanto tre persone in una stanza, una delle quali si rifiutava anche solo di parlare e di venire avvicinata. Loro, loro sì che hanno capito: ti hanno lasciato tutto il tempo del mondo per riprenderti, e ti hanno detto che, quando mai ne avessi avuto bisogno, avresti sempre potuto contare su di loro. Li vedi ancora, una volta a settimana, ma le circostanze non sono delle migliori; iniziare una conversazione sulla sua tomba, mentre uno dei due poggia i fiori, non è esattamente quello che ti serve per tornare a riallacciare il rapporto che avevate prima.

Andreas? Non ti ha mollato neanche per un secondo. All’inizio, se ne avessi avuto la forza, l’avresti cacciato da casa tua a calci nel culo: non se ne andava mai, ha passato settimane senza tornare a casa; a volte te lo ritrovavi insieme nel letto quando ti svegliavi, e lo buttavi giù in malo modo, voltandoti dall’altra parte. Lui sorrideva, e ti diceva che l’aveva fatto soltanto perché continuavi a rigirarti nel sonno, piangendo. Ancora adesso, di tanto in tanto, ti svegli nel cuore della notte ed esci di casa, attraversi la strada e vai da lui; lui ti accoglie sempre a braccia aperte, anche quando non te lo meriti. Lui c’è sempre, ma non è quel lui che ti serve. E questo lo sa, ma cerca di prendere il suo posto: se lo faccia con consapevolezza o meno, questo non ti è chiaro. A lui non importa se fai solo i capricci o se sei veramente depresso: non ci pensa due volte a darti un paio di schiaffoni quando dici cazzate, e oramai hai addirittura perso il conto di quante volte il contorno rosso della sua mano ti si sia stampato sulle guance; quando poi, ogni dannata volta, rimani a fissarlo a bocca aperta, la mano sulla guancia a coprire il rossore, ti risponde che lui, al suo posto, avrebbe fatto lo stesso. E tu ti metti a piangere e ti tuffi tra le sue braccia, anche se quello non è l’abbraccio che cerchi. Andreas è l’unica persona sulla faccia della terra che per te sta facendo qualcosa di veramente utile, e tu, invece, gli continui a dare preoccupazioni su preoccupazioni, rimanendo tutti i giorni seduto vicino a quella pietra, che nevichi, piova, grandini, o quant’altro.

Papà? Non lo vedi più da non sai quanto. Non gli importa niente di te, così come a te non importa niente di lui; è venuto a trovarti un paio di volte, dopo quel giorno, e in nessuna delle due occasioni si è dimostrato un buon padre. La prima volta che l’hai visto, era al suo funerale: era là, seduto in uno dei primi banchi, la testa bassa e vestito di tutto punto, ma non sei riuscito a capire se fosse davvero dispiaciuto; non che, quel giorno, tu sia riuscito a capire molto, in generale. Nella confusione di quei ricordi, pensi che l’hai visto parlare con mamma, ma non sai cosa si siano detti. È venuto anche da te, ti ha detto qualcosa, poi ti ha stretto la mano e ti ha abbracciato: freddo, incurante. È tutto quello che ti ricordi dell’abbraccio. La seconda volta, è stata quando hai dovuto passare il Capodanno con lui e la sua fidanzata: non è stata per nulla una festa esemplare; anzi, è finita nel caos più totale. Sapeva benissimo come stavi; anzi, forse non lo sapeva, perché a lui, di te e di tuo fratello, non è mai importato troppo. Ti ha dato della palla al piede, quando ti sei rifiutato di scendere per cena; ti ha dato del bambino, quando ti ha visto piangere; ha persino cercato di darti uno schiaffo, quando gli hai detto di farsi i cazzi suoi. Gliene hai urlate contro, gliene hai dette di tutti i colori: alla fine, lo hai mandato a fanculo, sei uscito sbattendo la porta ed hai girato per mezza Hannover, cercando un taxi che ti riportasse a casa. Da quel giorno, non ha più osato farsi vivo.

Mamma e Gordon? Non ce la fanno più. Mamma è disperata; Gordon non fa altro che passare il suo tempo a consolarla. Sei stato una delusione, un’immensa delusione; sei rimasto l’unico figlio che hanno, e anziché farli felici, ti comporti come se nemmeno tu esistessi più. Mamma ha cercato in tutti i modi di farti riprendere, e ancora adesso si sta sforzando per volerti bene e credere che prima o poi tornerai come prima. Si è preoccupata da morire, le hai quasi fatto venire una crisi di nervi, quando hai smesso di parlare; quando hai smesso di mangiare, poi, non sapeva più come raccapezzarsi. Ha tentato di calmarsi, ma alla vista dell’ennesimo piatto lasciato da parte senza nemmeno venire sfiorato e delle tue guance quasi blu per colpa di tutti gli schiaffoni che Andreas ti aveva rifilato, non ha più retto. Era stata paradossalmente buffa, quella sera: avrebbe dovuto vedervi, si sarebbe fatto due sane risate. Tu, rannicchiato sul letto, la guancia viola, rivoli di lacrime che ti scendevano lungo la faccia; Andreas, che ti urlava dietro, sbraitando che non voleva più sentirti tirar fuori l’argomento; la mamma, che, ancora col piatto in mano, l’aveva fatto cadere per terra e aveva dovuto staccare Andreas a forza, trascinandolo giù per le scale e buttandolo fuori di casa, il tutto continuando a gridare a perdifiato che non si doveva più per mettere di toccarti. Il giorno dopo, ti sei ritrovato sul divanetto di pelle di una psicanalista di Magdeburgo. Ancora adesso ci vai, una volta a settimana, ma è solo uno spreco di soldi; hai capito da te che a casa devi essere allegro, felice e tranquillo. La parte la reciti bene, ma non abbastanza: i sorrisi sono sempre più tirati, gli occhi sempre più vitrei, e le scuse per uscire ogni giorno alla solita ora sempre meno credibili.

Tu? Tu non stai più né bene né male. Sei arrivato ad uno stato di apatia talmente avanzato che ti fai schifo da solo; ti guardi allo specchio e vorresti solamente spaccarti la faccia: ci hai provato le prime volte, ma alla terza mano fasciata e al quarto specchio cambiato nel giro di una settimana, il lavandino è diventato off-limits. Sai che dovresti smetterla di lamentarti, perché se lui potesse ti darebbe ancora più ceffoni di quanti non te ne abbia già dati Andreas; sai che dovresti cercare di andare avanti, perché se lui potesse ti direbbe che sei uno scemo, e comincereste a litigare. Ma sai anche che non puoi fartene una ragione, perché se lui potesse in questo momento saresti con lui in una camera d’albergo e saresti talmente immerso nei suoi baci da non sentire nemmeno la voce stressata di Saki che vi dice che farete tardi alla prossima intervista; sai che il tuo mondo si è completamente fermato, perché se lui potesse sarebbe con te nel backstage di qualche locale a passarti una mano tra i capelli, soffiarti sul collo e dirti che non ti lascerà mai. E, invece, ti ha lasciato, eccome se ti ha lasciato.

E, arrivato a quel punto, riprendi l’argomento che ti aveva fatto interrompere prima, e gli dici che ti dispiace. Ti dispiace, ti dispiace, e ti dispiace; ti vengono in mente migliaia di parole da dirgli, tutte prive di significato. Gli chiedi se si ricorda della loro promessa, e gli dici che ti dispiace; gli ricordi che avreste dovuto andarvene insieme, che se uno di voi due se ne fosse andato, l’altro l’avrebbe seguito senza batter ciglio, e ancora ti dispiace; gli chiedi scusa perché non sei riuscito a seguirlo, perché hai avuto una fottutissima paura di tirare le cuoia, e ti dispiace, ti dispiace, ti dispiace; ti dispiace per non aver avuto il coraggio di morire, e ti dispiace ancora di più perché non hai nemmeno il coraggio di vivere e sei una fottuta testa di cazzo che non ha nemmeno le palle per abbandonare tutto e tornare dall’unica persona che per te significa davvero tutto.
Hai paura che lui non ci sia più, hai paura che andandotene ora non risolverai niente, perché non sarete più insieme: ti chiedi perché abbiate smesso di credere in Dio. Se aveste continuato, forse, ora avresti la certezza che lui è davvero lassù da qualche parte, che ti sta guardando e ti sta aspettando; invece, non hai nemmeno quella convinzione, e sei ancora lì, inchiodato a terra a fissare la lapide e a pensare che non c’è più niente per te, che è tutto finito, che stai parlando da solo come un cretino e che nessuno, nessuno ti sta ascoltando mentre continui a ripetere Tom, ti amo, singhiozzando e stupendoti se le lacrime che credevi di aver finito tornano a scendere copiose su quella fottuta lastra di pietra che vi separa.
 
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VOTO: (1 voto, 1 commento)
 
COMMENTI:
Trovato 1 commento
alphons - Voto: 05/06/08 15:07
ma il morto nella fiction è tom o bill??
comunque anche se drammatica ti faccio i complimenti perchè è molto bella
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