torna al menù Fanfic
torna indietro

MANGA.IT FANFIC
Categoria: Manga e Anime
Dalla Serie: Naruto
Titolo Fanfic: POSSIAMO SEMPRE
Genere: Sentimentale, Drammatico, Erotico, Introspettivo, Song-fic
Rating: Vietato Minori 18 anni
Avviso: One Shot, What if? (E se...), Lemon, Yaoi
Autore: rekishi galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 17/09/2007 17:42:03

«Voglio diventare presto grande, così potrò essere tutto quanto di Itachi nii-san!» E si voltò verso il fratello, con gli occhi che brillavano.
 
Condividi su FacebookCondividi per Email
Salva nei Preferiti
   
POSSIAMO SEMPRE
- Capitolo 1° -

Credits: i personaggi appartengono a Masashi Kishimoto; la canzone è Possiamo sempre di Gianna Nannini.



Avvertenze: tutti i personaggi sono maggiorenni o, comunque, non realmente esistenti, blablablablabla...





POSSIAMO SEMPRE






Ma chi
Sei tu per farmi male

Le cupe ombre della notte ricoprivano l’amena vallata.
Fugaci raggi di una luna rosso sangue, intenta a giocare a nascondino con le nuvole, illuminavano di deboli riflessi i sottili fili d’erba, appena carezzati dal fresco vento notturno.
Nulla sembrava avere il potere di turbare quel mondo di sogno; irreale nel suo silenzio.
Solo qualche falena spezzava la statuaria immobilità dell’ambiente; unico movimento percettibile oltre al lieve oscillare dell’erbetta primaverile.
Un gufo lanciava il suo cupo richiamo, prima di levarsi in volo e planare, come il falco, suo cugino, sulla preda ignara.
Uno squittio, ultimo fiato del povero roditore ghermito dagli artigli lucenti.
Il sangue macchiò la terra, mentre il rapace gustava, fiero, il proprio macabro pasto, ignorando il fruscio che andava diffondendosi a poco a poco per la valle.
Silenzioso come un gatto; il nero mantello scosso appena da un mormorio di vento, cupo e splendente come l’ala di un corvo.
La lugubre e sinuosa figura incedeva lenta tra le ombre scure della notte, le iridi vermiglie splendevano come braci nel buio appena attenuato dalla scarlatta luna.
Sangue che trasudava dal satellite, come dagli occhi del ragazzo che, adesso, afferrava tra le dita sottili e laccate di nero lo shoji della casa natia.
Una visita attesa, quella notte.
Non gradita, eppure intimamente sperata dal ragazzino inginocchiato sul tatami dell’ingresso.
Statuario come un delicato soprammobile; bambola di porcellana vestita con uno yukata candido.
Il volto dell’adolescente pareva imperturbabile come quello del visitatore, così terribilmente simili pur nella loro differenza.
Aveva atteso tre notti, Sasuke.
Appena il sole scompariva dietro le statue di pietra degli Hokage, si spogliava della tenuta da ninja.
Lo yukata di nivea seta ricopriva il suo corpo dalle linee ancora acerbe, ma toniche.
Silenziosamente, il sopravvissuto della casata degli Uchiha si sedeva di fronte allo tsukui, ad attendere l’arrivo dell’uomo che aveva distrutto la sua vita.
Della persona a cui apparteneva sin dalla nascita, che doveva passare a ritirare il tributo di sangue dovutogli.
Forse non si sarebbe presentato ma, sebbene questa fosse la speranza del ragazzo, le possibilità che rifiutasse ciò che gli spettava di diritto come primogenito erano scarse.
Alla terza notte, infatti, venne.
All’aprirsi dello shoji, la consapevolezza di aver fallito in un compito troppo grande per lui, assalì Sasuke; pesante macigno che crolla sull’anima, schiacciandola con il peso della colpa.
Posò sullo tsukui la tazza di the che teneva in mano, girandosi verso Itachi.
Identico a tanti anni prima, quando durante il loro scontro aveva sussurrato nel giovane orecchio un “omae wa yowai”, seguito da una minaccia che aveva bruciato nelle vene dell’allora dodicenne più della propria debolezza.
«Tornerò a prenderti.»
Il giorno era arrivato.
«Sei qui.»
«Come ti avevo promesso, Sasuke.»
Un sogghigno sul bel volto dai lineamenti morbidi, mentre le dita sottili passavano sotto il mento del fratello minore, alzandogli il viso.
Le iridi carminio incatenarono quelle d’ossidiana in un lungo quanto esplicativo sguardo.
Il falco si abbatteva predatore sulla vittima.
Quella notte, altro sangue avrebbe macchiato il terreno.
E sarebbe stato sangue di vergine.

Ma chi
Ti ha detto di sparire

Il nodo dello yukata fu rapidamente slacciato, denudando il corpo efebico del ragazzo.
Candido come l’avorio e malleabile come creta, Itachi aveva il diritto di plasmarlo a suo piacimento.
Tradizione del clan Uchiha, che il minore di una famiglia, compiuti i sedici anni, entrasse al servizio del fratello.
Costumanza simile alla casata cadetta degli Hyuuga, ma molto più infida e sottile.
Non v’era una dinastia minore a servire la principale, ma solo un fratello reso schiavo dell’altro.
Tra i due veniva coltivato, sin da piccoli, un legame così sottile da risultare inscindibile.
Itachi aveva legittimo possesso su Sasuke dalla nascita.
Una gabbia, quella, che si faceva sempre più stretta e opprimente man mano che l’età fatidica si avvicinava.
Il tempo scivolava lento, come le mani di Itachi sul fisico asciutto.
Le dita esploravano con minuziosa attenzione le morbide carni, deciso a gustarsi, con sadica completezza, ogni possibile sfaccettatura di quel rapporto incestuoso che, essendo tale, si manifestava ancora più appetibile.
«Non sei riuscito a uccidermi, otooto.»
Sberleffo, mentre le sincroniche mani procedevano il languido percorso.
Con un sospiro, gli occhi di Sasuke si chiusero; docile preda della soffocante presenza di Itachi.
E del proprio fallimento.
Adesso erano poche, per non dire nulle, le possibilità di ucciderlo.
Colpa del retaggio infantile, di un’istruzione che lo subordinava a lui e soprattutto dell’adorazione che aveva provato per il maggiore.
Venerazione mista ad un affetto morboso che lo spingeva a concentrare nel fratello tutto il suo essere.
Itachi era stato, ed era tutt’ora, il fulcro della sua esistenza.
Doveva ucciderlo ma, e Sasuke lo sapeva bene, non ne sarebbe mai stato capace.
Troppo aveva significato per lui.
Troppo.
E quel troppo lo uccideva, lo soffocava.
Ucciderlo per vendetta…o per se stesso?
Calare su di lui il velo nero della Signora per quale motivo?
Riscatto, dovere verso un clan sterminato, oppure per tentare di liberarsi dall’ossessione che provava?
Onokanara.
Sì, era patetico.
Agli occhi di Itachi e ai propri.
Patetico per il modo in cui accettava le carezze del fratello, perpetuando una tradizione cui solo loro erano a conoscenza.
Consuetudine che poteva, anzi sarebbe cessata, con quegli ultimi esponenti del clan più prestigioso della storia di Konoha, perché nessuno conosceva quella nefanda usanza della rispettabile famiglia Uchiha.
Eppure lo aveva atteso per tre sere.
Aveva indossato lo yukata cerimoniale, candido come la neve, che testimoniava la propria verginità.
Conservata per lui e per nessun altro, in attesa del giorno in cui l’avrebbe reclamata.
Onokanara.
Patetico nella puerile attesa dell’assassino del clan, dell’uomo che lo avrebbe reso schiavo…
Di suo fratello.

Ma chi
Ti ha tolto il paradiso

Visione agognata, quanto temuta, quella di Itachi senza i pesanti drappi neri che ricoprivano il corpo statuario.
Le spalle larghe e diritte, gli addominali scolpiti che si flettevano sinuosi nel chinarsi sopra di lui; le labbra carnose piegate in un sardonico sorriso di fiera che sa di avere il pieno controllo sulla preda e gioca con lei, prima di affondare i denti nelle bianche carni.
Le braccia muscolose avvolsero il giovane corpo tremante, sollevandolo.
Un breve tratto attraverso i corridoi che avevano accolto le loro infantili giornate ludiche, seguito dall’ingresso nella stanza in disuso di Itachi.
Pulita.
Tutto esattamente com’era il giorno del tragico massacro.
Frazione di un passato in cui il più piccolo degli Uchiha aveva riposto i propri sogni, le proprie speranze e le proprie paure.
Adesso, se chiudeva gli occhi, si sentiva trasportato in quell’ovattato mondo onirico in cui Itachi non se n’era mai andato e il processo appena intrapreso sarebbe giunto secondo un percorso naturale e sereno.
Vissuto nell’intimità famigliare, con la benevola condiscendenza dei genitori, e non nel logorante rancore che, come lo sgretolarsi della rupe sotto la violenta carezza delle intemperie, deteriorava il cuore del ragazzo.
Fu il tocco delle labbra sul collo niveo ad addolcire la forzata rigidità di Sasuke.
Deprecando se stesso per il proprio fallimento e la docile sottomissione cui si prestava a quel connubio, il ragazzo rilassò i propri muscoli al contatto con il soffice futon.
Balia delle mani di Itachi, del suo tocco dannato, Sasuke Uchiha cominciò la sua lenta discesa nella decadente spirale dell’Inferno.

Ma chi
Ti ha dato e poi ucciso


Itachi affondò nel corpo sottile del fratello, eccitato dalle lascive carezze e dai baci languidi concessigli in precedenza.
Le gambe tornite appoggiate sulle spalle larghe, facilitavano il doloroso ingresso nell’apertura vergine; il volto delicato contratto in una smorfia di mal repressa sofferenza coniugata all’estasi dei sensi.
Itachi spingeva, e la sua turgida presenza lo riempiva aritmicamente; il ventre finemente scolpito sfregava contro la sua erezione; la bocca catturava, famelica e bramosa, la propria, soffocandone gli urli e i gemiti.
La lingua, impegnata nella tortuosa danza con quella del fratello, presenza soffocante come le mani strette attorno ai polsi sottili che negavano ogni singolo movimento autonomo…
Ogni sfogo era proibito.
Era un oggetto nelle mani di Itachi, uno schiavo su cui il padrone impone la propria autorità.
Invisibili catene forgiate col piacere, arma più letale di qualsiasi punizione.
Piacere direttamente proporzionale al disgusto che Sasuke rivolgeva contro di sé mentre Itachi entrava così a fondo da sconvolgere il suo corpo e la sua psiche, penetrandolo con un’intensità tale da spaccarlo in due e prendendolo…prendendolo come se avesse atteso per anni quel momento…
E con l’eruzione del caldo seme dentro di sé e fuori dal proprio corpo, Sasuke si sentì svuotato da ogni sentimento, eppure completo.
Metà di un androgino che ha ritrovato se stesso, superando l’eterna divisione imposta da Zeus.
Due lacrime silenziose rigarono le candide gote, prima di scivolare placidamente sul lenzuolo.
Erano Uno.
Schifosamente Uno.

Ma chi
Hai perso per la strada


Al Giorno segue la Notte.
Al Piacere segue il Dolore.
Al Ritrovo segue il Distacco.
Ansimando ancora per lo sforzo, Sasuke osservò il fratello rivestirsi.
Abiti neri come le ciocche d’ebano scomposte, carezze impalpabili sul volto serio, ricoprirono il corpo che, fino a un minuto prima, era premuto contro il proprio.
«Puoi rivestirti, Sasuke.»
Tre parole, e l’effetto di una condanna.
Afferrò un lembo del lenzuolo, celando la propria nudità allo sguardo inquisitore di Itachi.
Con il viso chinato, si alzò sulle gambe tremanti, cercando invano di nascondere il rossore che imporporava il volto.
Vergogna, fastidio.
Disprezzo per aver ceduto così facilmente ai baci tentatori di Itachi.
Ma aveva forse scelta?
Poteva andare contro una tradizione perpetuata da talmente tanto tempo che nessun Uchiha sapeva quando avesse avuto inizio? Fulcro rappresentativo della famiglia, del clan?
Poteva ribellarsi?
No, non poteva.
E il suo disagio non era altro che turpe presa di coscienza di appartenergli totalmente, imprigionato in un’invisibile rete che si stringeva soffocante su di lui.
Era suo.
Lo era sempre stato.
E in quella gabbia era voluto entrare, pur possedendo la chiave per uscirne.
Itachi sorrise compiaciuto, quando Sasuke rientrò in camera.
Dalle sottili smorfie che incrinavano i lineamenti ancora non privi di tratti infantili, intuiva i sentimenti del suo otooto.
Era stato molto soddisfacente vedere il conflitto inferiore che turbava il suo fratellino.
Battaglia che lui stesso aveva scatenato e non desiderava interrompere.
Era suo.
Lo aveva sempre voluto, e adesso poteva affermarlo con sicurezza.
Oh, sì! La pazienza aveva avuto il suo premio.
Prenderlo prima di arrivare al limite di età sancito dal clan stesso sarebbe stato inutile, se non dannoso.
Se lo avesse fatto, Sasuke avrebbe avuto la scusa per non accettare, successivamente, il suo comando.
Seguendo le rigide regole imposte dal clan, invece, il suo otooto si era ritrovato invischiato in una folle corsa contro il tempo per ottenere la vendetta e, con essa, la propria libertà.
Sforzo accentuato dal sadico tormento psicologico iniziato con lo sterminio che aveva finalmente dato i suoi frutti.
Già bambino ligio al dovere, Sasuke non sarebbe mai andato contro una tradizione il rispetto per la quale, rimasto solo, era diventato l’unico mezzo per sentirsi ancora parte di un tutto che non esisteva più.
Povero, piccolo patetico fratellino, adesso immobile sull’ingresso di quella stanza che ha accolto i tuoi primi gemiti di piacere.
Gli si avvicinò; scalpiccio lento e cadenzato sul pavimento di lento, volutamente provocato dal mukenin.
Minaccia incombente, che si concretizzò con il passaggio di una mano dietro la schiena di Sasuke e il cozzare del suo orecchio contro il torace scolpito, permettendogli di percepire il ritmico pulsare del cuore.
Tu – tum.
Tu – tum.
Tu – tum.
Le palpebre calarono sulle iridi scure.
Cullato da quel confortante rumore vitale, Sasuke si lasciò stringere dalle braccia del fratello, con un sospiro.
Sollevato.

Ma chi
Ti manca la mattina


Abbraccio agognato e, adesso, deprecato.
Conforto necessario per un bambino, ma perennemente assente.
Solo la casa, silenziosa, aveva tenuto il conto delle volte che il suo unico abitante si era recato nella camera dei genitori, sperando di trovarli addormentati e potersi infilare nel talamo con loro, in un protettivo calore familiare.
Ma ancora più frequentemente era stato il giaciglio che adesso lo aveva visto evocare ansimante il nome del responsabile della sua solitudine, ad accogliere le lacrime e sonno del ragazzo.
“La tua debolezza deriva dall’inadeguatezza del tuo odio.”
Odio che Sasuke non riusciva a dirigere verso il fratello, ma rivolgeva sempre e soltanto a se stesso.
Disprezzo e rabbia per ogni volta che avrebbe voluto essere preso in braccio, per ogni momento in cui rimproverava il fratello, non di aver sterminato il clan, ma di averlo condannato alla solitudine.
Da solo, in quella vasta abitazione che ogni giorno si faceva sempre più tetra e lugubre.
Furia per ogni lacrima versata su quel futon che non gli apparteneva, ma in cui si infilava ogni volta che le ombre della notte evocavano incubi nella mente del bambino che era stato.
Per ogni singola volta che si era svegliato senza nessuno accanto…
Per tutti quegli anni in cui era stato solo…
Solo.

Ma chi
Ha rotto la tua vita
Ma chi ma chi


Trattenne un sospiro di insoddisfazione quando Itachi allentò la presa su di lui, orinandogli di precederlo in cucina.
Lieve cenno d’assenso; Sasuke si avviò, celando il fastidio provocato dal subitaneo distacco di quella presenza crudele, eppure così familiare e consolante, dietro una maschera di imperturbabilità.
Pacata indifferenza superficiale; ultimo baluardo di una difesa crollata molto tempo prima, da quell’ “Omae wa yowai” sussurrato nel suo orecchio.
Fallace tentativo di mantenere una briciola di quella dignità scomparsa tra i gemiti e le baccanali invocazioni di poco prima.
Come il mare, la cui placida superficie cela a chiunque le vorticosi correnti sottomarine delle acque.
Ma Itachi poteva scorgere l’agitarsi dei flutti e la lacerazione dentro il fratello, i cui due poli di dovere e volontà erano andati ad incontrarsi in un microscopico punto che lo avrebbe condotto alla follia.
E il mukenin era ben deciso ad essere la causa della pazzia di Sasuke.
La lingua rosata inumidì voluttuosamente le labbra pallide, pregustando il piacere sadico che la decadenza psichica del ragazzo gli avrebbe procurato.
Fu mentre Sasuke preparava un silenzioso the che lanciò la bomba finale.
«Torno all’Akatsuki.»
«Mh.»
Sasuke piegò il bricco fumante, versando la profumata bevanda nelle tazze di ceramica.
L’aroma del the verde si diffuse nell’aria in una nube impalpabile.
Sollievo, alla notizia della partenza; liberazione da quella prigionia impostagli e dall’obbedienza dovuta a chi, da fratello e assassino, si era trasformato nel suo padrone.
Ma nell’aria aleggiava il peso della solitudine imminente, pronto a cadere su di lui.
Quella notte, il tempo era stato sospeso per un attimo.
Passato e presente si erano incontrati, generando la vana, ma piacevole e agognata visione di un futuro in cui il debito di sangue sarebbe stato saldato e loro sarebbero stati solo fratelli.
Un sogno ricorrente e irrealizzabile.
Infranto con la partenza di Itachi.
Era giunto, si era tolto lo sfizio di possederlo, e adesso era pronto ad andarsene lasciandolo lì come un balocco con cui il bambino si è stancato di giocare.
In un certo senso, avrebbe dovuto essergli grato perché con la sua partenza gli concedeva la possibilità di condurre una vita indipendente.
Vuota e priva di senso; prolungamento di una logorante attesa di fronte alla porta nella speranza di rivedere la sua longilinea figura comparire sull’uscio.
Ma Sasuke non avrebbe mai ammesso di attendere il ritorno di Itachi, tanto meno a se stesso.
Avrebbe preferito logorarsi in quel sogno ovattato di bambino, senza interferenze che lo avrebbero condotto inequivocabilmente al risveglio in cui lo aspettava solo il lacerante divario tra desiderio e volontà.
Alzò appena lo sguardo su Itachi.
Si era alzato e la sua sensuale figura era stata coperta dalla pesante palandrana.
Solo gli occhi rossi brillavano nell’oscurità, come carboni ardenti.
«Vuoi venire con me, Sasuke?»
Come un coltello infilato nelle viscere, quelle parole aprirono mortalmente lo squarcio.

Possiamo sempre vivere
Possiamo sempre farci fuori
Anche se siamo soli possiamo sempre
Possiamo sempre scegliere possiamo sempre farci suore
Possiamo sempre far l’amore come comanda dio
Credi possiamo sempre chiedi possiamo sempre(x 2)


Pochi secondi per decidere.
Solo pochi attimi per scegliere tra rimpianto e rimorso.
Il divario sarebbe sempre esistito, mortale e deleterio.
Si morse il labbro, stillandone una misera goccia di sangue; acre sapore catturato dalla bocca.
Seguire Itachi, lasciarsi alle spalle Konoha e, con lei, la vendetta.
Dimenticare e recuperare l’affetto familiare ormai perduto.
Ma poteva farlo?
Poteva seguire il proprio carnefice, suo e della famiglia che amava, per un desiderio che doveva essere scomparso da anni?
Poteva fidarsi di quell’essere, illudendosi che fosse suo fratello? Quello stesso fratello che lo prendeva in braccio quando era piccolo e che gli sussurrava un “ti voglio bene” per farlo addormentare?
Poteva…?
O avrebbe seguito l’assassino?
Il Caino, traditore del suo stesso sangue?
Sentiva che sotto quella cappa a nuvolette si nascondevano entrambe le figure.
Itachi e Caino.
Suo fratello e un omicida.
E se Sasuke poteva scegliere, non poteva permettersi di prendere una decisione sbagliata.
Fratello, perché mi tormenti?
Cosa ti ho fatto?
Perché?
Perché?
Chiuse gli occhi scuri, abbassando lo sguardo.
Eterno indeciso.
Sempre in bilico, sempre!
Mai tranquillo!
Sempre condannato a logorarsi nel rimpianto di non aver saputo cogliere la felicità quando gli veniva offerta, sempre costretto a rifiutarla dagli obblighi impostagli.
Fece un passo indietro.
Itachi ghignò.
I denti bianchi brillavano nella penombra.
«Potevo ordinartelo.»
«Non lo hai fatto.»
«Potrei sempre.»
«In tal caso, ti seguirò.»
«Non serve. Sarai tu a cercarmi.»
«Non penso.»
silenzio consapevole della menzogna intrisa nella replica di Sasuke alla veritiera affermazione di Itachi.
Lo sapevano.
Entrambi.
E Itachi, con maggiore consapevolezza.
Aveva tessuto una rete perfetta attorno al fratello.
Sasuke lo amava e lui aveva mutato questo sentimento nell’odio più puro che mente umana potesse concepire.
Ciò nonostante, sapeva che, in virtù di quell’affetto e ammirazione che gli aveva dimostrato, Sasuke non avrebbe mai potuto fare a meno di amarlo.
Oh sì.
Il suo fratellino lo amava e lo odiava.
Voleva ucciderlo e voleva essere posseduto da lui.
Voleva liberarsene, ma più insisteva, più diventava suo schiavo.
Fargli assaggiare il piacere che poteva dargli era stato il colpo di grazia.
Non solo odio, non solo rabbia.
Poteva scuoterlo.
E non col dolore.
E adesso Itachi si chiedeva, ghignando tra sé, quanto avrebbe resistito Sasuke?
Un anno, forse.
Massimo due se avesse trovato impedimenti o si fosse particolarmente intestardito.
Si sarebbe trascinato, arrancando come aveva sempre fatto dal giorno in cui Itachi glielo aveva ordinato; avrebbe proceduto come un robot programmato, aspirando a qualcosa fuori dalla sua portata.
Sempre un passo indietro a lui…sempre.
Sasuke aveva scelto l’agonia del rimpianto, la sofferenza del ricordo, piuttosto che rischiare una nuova, profonda, ferita.
Tipico di chi non osa sperare in un futuro, ma vive in un passato che non tornerà…non può tornare.
Preferiva restare chiuso nell’utero protettivo che si era costruito; vivere in quell’angolo della mente dove il tempo si era cristallizzato attorno al frammento di un ricordo risalente ad anni e anni prima, congelato nel sorriso di un bambino portato in braccio dal fratello maggiore; nel pianto di una notte e nel calore di un abbraccio e in quella promessa scambiata in un mormorio sommesso.

«Sasuke, sei contento che un giorno diventi mio?»
Parole apparentemente innocenti di un bambino di dieci anni rivolte al fratellino di cinque, acciambellato nel suo futon.
«Sì!» aveva esclamato il piccolo, stringendosi più forte contro quel corpo caldo e sicuro «Io sarò sempre del nii-san!» aveva esclamato, la “r” pronunciata ancora con difficoltà; le braccine allacciate al suo collo.
«Allora promettimi che, qualunque cosa farò, mi vorrai sempre bene.»
La stretta del maggiore si fece più forte, lasciando perplesso il bambino che, però, non se ne curò.
Disperato bisogno di un punto fermo, in vista della strage futura.
Da lì a due anni, quando ciò che fino a quel momento era rimasto bocciolo in erba nel suo inconscio sarebbe germogliato, diventando tragica realtà, quella richiesta sarebbe stata messa da parte in nome di una punizione autoinflittasi che lo avrebbe portato a richiedere l’odio di quella creaturina che, fiduciosa, mormorava tra le sue braccia un sommesso ma deciso:
«Prometto!»

Quel giorno, Sasuke aveva scelto e non avrebbe avuto che illusioni di potere decisionale, come in quel caso.
La strada era tracciata di fronte a lui che, inevitabilmente, doveva percorrerla.
«Allora, addio Itachi.»
«Solo arrivederci, Sasuke. Solo arrivederci.»
Scomparve.
E il sangue che sgorgava copioso dallo squarcio parve fermarsi per un attimo.

Ma chi
Sei tu per giudicare


Era stanco, Sasuke.
Stanco di camminare, di andare avanti.
La ferita era aperta.
Sanguinante e letale, ogni notte era come se qualcuno vi versasse alcol per farla bruciare.
Tutto ciò lo rendeva nervoso e irritabile, più del solito.
Si trovava ad agognare le ombre notturne, a fuggire il sole che, con i luminosi raggi, cancellava la possibilità di vederlo.
La notte era il momento dell’attesa; breve scintilla di speranza e gioia.
Ma che lui arrivasse o meno, era sempre un’agonia.
Lacerato tra il desiderio di rivederlo e quello di cancellarlo.
Tutta la notte in piedi, sulla soglia, ad attenderlo.
E ogni volta, l’alba veniva accolta con rabbia e sollievo.
Il sole rideva di lui, la luna e le stelle anche.
Tutto sogghignava, tutto lo derideva per quella dedizione e perseveranza puerile nell’attenderlo.
Sentiva le risate e, unita a questa, voce solista di un letale coro, quella di Itachi che lo apostrofava con la sua voce bassa e profonda, con un vibrante: “Onokanara otooto.”
Già, patetico.
Patetico.
Paretico.
Patetic…
Crack.
Sasuke colpì col pugno lo specchio di fronte a sé.
Frammenti taglienti di vetro si erano conficcati nelle nocche, rosse per l’urto e le stille di sangue.
Scarlatte, come quegli occhi riflessi dallo specchio.
Occhi che gli appartenevano, ma troppo simili a quelli di Itachi.
Troppo!
Troppo!
Dietro di lui, sempre la sua ombra.
Sempre.
Rifiutava e agognava quello sguardo, ma…ricordare…era troppo…troppo doloroso…faceva…male…
Le lacrime si mischiarono al sangue.
Fratello, perché mi tormenti?
Perché mi uccidi?
La sua ombra, dietro di lui.
Sempre.
E lui, Sasuke, non poteva raggiungere neanche la sua schiena che si allontanava.
Fermo.
Immobile.
E lo specchio gli rifletteva sé.
Ma lui, Sasuke Uchiha, non c’era.
C’era solo Itachi.
Itachi, rivisto nei lineamenti simili del volto sottile.
Itachi, con i suoi stessi occhi rossi.
I suoi stessi capelli.
Non era Itachi a essere uguale a lui.
Era lui ad essere solo una copia mal riuscita di Itachi.
E questa copia doveva distinguersi dall’originale.
Perché non lo avrebbe mai raggiunto.
Graffi sul viso, tagli profondi mirati a eliminare qualsiasi somiglianza con lui…con quell’uomo.
Non era suo fratello.
Non era suo fratello.
Nella sua dolce ossessione, era il volto di Itachi quello che lo specchio gli rendeva.
Ma non era Itachi.
Era lui, Sasuke.
Ma Sasuke non esisteva.
Il vetro segnò le gote morbide.
Rigagnoli rossi e un riso nervoso.
Il vetro amputò le bianche carni e le ciocche scure, lasciando i ciuffi neri corti e disordinati sulla nuca.
Via il taglio ordinato, via le ciocche lunghe in cui Itachi aveva intrecciato le dita sottili.
Via.
Adesso lo specchio gli rifletteva l’immagine di un ragazzo con le guance graffiate in profondità, i capelli corti e le iridi scure attonite, quasi vedessero e non vedessero il riflesso molteplice nei frammenti di specchio.
Itachi era lì.
Sempre.
Dietro di lui.
Dentro di lui.
Senza di lui…Sasuke non esisteva.
La sua stessa nascita era avvenuta per il fratello.
Era nato per lui, in funzione di lui.
Senza, poteva anche sparire.
Poteva anche distruggersi.
Poteva lacerarsi con quei cocci di vetro.
Poteva…
Sorrise.
Un sorriso amaro, tra le lacrime.
In fondo era solo questione di scelta, no?

Ma chi
Lo vuole il tuo dolore


Sasuke aveva mandato una lettera a Tsunade, in cui l’avvisava di un improvviso viaggio d’allenamento a tempo indeterminato.
Sasuke aveva fatto scorte di cibi che non si deteriorassero nel tempo, come chi si prepara a una lunga assenza.
Sasuke aveva progettato la propria scomparsa con una meticolosità che solo un folle o un genio poteva avere.
Sasuke si chiedeva a quale dei due generi appartenesse lui.
Sasuke aveva smesso di andare in missione.
Sasuke aveva smesso di incontrare i suoi amici.
Sasuke aveva smesso di allenarsi.
Sasuke si era seppellito in casa.
Sasuke aveva rotto tutti gli specchi.
Sasuke aveva strappato tutte le foto.
Sasuke aveva chiuso porte e finestre, lasciando aperta solo quella della veranda.
Sasuke ogni notte si sedeva là, solo col suo tormento.
Sasuke non era stato bravo.
Itachi non aveva voluto Sasuke, altrimenti gli avrebbe ordinato di andare con lui.
No…
Sasuke aveva scelto di non andare.
Sasuke aveva deciso di distruggersi per la sua mancanza.
Odiare ciò che amava e amare ciò che odiava.
Sasuke era doppiamente traditore.
Verso i suoi morti e verso suo fratello.
O forse, Sasuke non lo ammetteva, solo verso se stesso.
Sasuke giocava coi cocci degli specchi, riordinando frammenti di un passato ormai sfumato.
Sasuke aveva perso la concezione dello scorrere del tempo.
Sasuke era un sedicenne rinchiuso nel passato per paura del futuro.
Sasuke evadeva da se stesso per dimenticare di essere diviso.
Sasuke si crogiolava nell’amara dolcezza di un sogno ad occhi aperti.

“Koa-ko, koa-ko, piccola colomba koa-ko.
Il vento culla piano
I nidi sui rami del pino
Il piccolo tuo nido tra le mie braccia dondola.”


Il suono della ninna nanna che la madre gli cantava per farlo addormentare risuonava nella sua mente.
Nenia che sapeva di sicurezza, d’infanzia.
Si lasciò cullare da quella musica che poteva sentire soltanto lui.
Sdraiato nel futon del fratello, stringendo un cuscino macchiato dal proprio sangue, i vetri sparsi attorno a lui, Sasuke si addormentò.
Nell’oblio del sonno dimenticava tutto.
Non c’era un clan.
Non c’era sangue.
Non c’era vendetta.
Solo Sasuke.
E forse, sarebbe arrivato a dimenticare perfino se stesso nella realtà.

Sasuke giocava con i vetri.
Sasuke si tagliava.
Sasuke rideva e correva per casa.
Sasuke piangeva senza saperlo.
Sasuke conversava con fantasmi lontani.
Sasuke rifiutava i propri morti.
Sasuke piangeva perché la notte era da solo.
Sasuke non capiva che erano tutti morti.
Sasuke si lamentava con lo spettro della madre perché Itachi non tornava dalla missione.
Sasuke non vedeva che la madre era aria.
Sasuke cercava di attirare l’attenzione del padre.
Sasuke non notava la differenza tra i due stati del genitore.
Sasuke aveva sette anni.
Sasuke aveva sedici anni.
Sasuke aveva progettato la propria scomparsa con una meticolosità che solo un folle o un genio poteva avere.
Sasuke era pazzo.

Ma chi
Ti prega di tornare


Due anni erano trascorsi.
Due anni in cui Itachi aveva atteso l’arrivo di Sasuke.
Perché suo fratello sarebbe giunto.
Ne era certo.
Era troppo dipendente da lui, per rinunciarvi.
Questa provata consapevolezza, aveva permesso ad Itachi di vivere tranquillo per due anni, godendosi il pensiero del conflitto interiore dell’otooto.
Lotta che Sasuke avrebbe perso con se stesso; tenacia che sarebbe stata piegata dalla propria, superiore, volontà.
Dalla sua nascita, Sasuke era stato un attraente, affascinante giocattolo.
Fratellino non voluto, Itachi aveva imparato ad approfittare della totale devozione che gli aveva dimostrato sin da quando aveva imparato a gattonare, per tiranneggiarlo.
Alla fine si era affezionato a quel moccioso impacciato dai grandi occhi neri, specializzato nel rotolare per casa.
Specialmente addosso a lui.
Sì, gli voleva bene, ma quel bene venato di sadismo che porta l’uomo a tormentare l’oggetto amato per testare l’affetto che questo gli rivolge.
Itachi era profondamente egoista e non voleva che altro pensiero oltre alla propria persona, troneggiasse nella mente del fratello.
Spesso Sasori e Deidara discutevano d’arte.
Uno esperto di marionette, l’altro di sculture d’argilla ed esplosioni.
Ma lui, lui! Itachi Uchiha!, lui li aveva battuti entrambi.
Era lui il vero artista, perché la sua opera d’arte era vivente.
Era la psiche di Sasuke.
Il suo piano era pressoché perfetto.
Assoggettarlo, costringere il fratello a provare per lui un’ammirazione tanto forte quanto profonda, un amore malato e una devozione che difficilmente avrebbe potuto sciogliere, per poi far crollare le sue certezze come un castello di carte.
Farlo sentire tradito, non amato.
Distruggere tutto ciò che lo circondava.
Sottrarlo ad ogni affetto e dargli la remota convinzione di ucciderlo.
Con un termine.
I suoi sedici anni, quando le tradizioni del clan avrebbero imposto al suo otooto di piegarsi ad ogni sua volontà.
Nessuno era in vita per farle mantenere, ma Sasuke non vi si sarebbe sottratto.
Perché, Itachi ne era certo, Sasuke desiderava essere dominato.
Era vissuto troppo a lungo nell’incertezza, nel conflitto tra amore ed odio diretti verso una sola persona, per non poter agognare qualcuno che gli dicesse cosa fare…come agire…
E quel qualcuno era lui.
Lui, suo idolo, suo carnefice, suo amante, suo padrone e suo fratello.
Sì, Sasuke lo avrebbe cercato.
Piangente, distrutto, ma sarebbe giunto alla ricerca dell’unico punto fermo della sua esistenza.
Itachi.
Aveva atteso.
Aveva aspettato con pazienza.
Ma Sasuke tardava e la rabbia cresceva nel sangue del mukenin.
Il ritardo lo irritava e il crollo del suo piano perfetto, un capolavoro di sottigliezza e perfidia psicologica, non faceva che aumentare la crudeltà della sua indole.
Le pallide dita strinsero la stoffa della palandrana che, presto, andò a ricoprire il corpo scolpito del ragazzo.
Finchè i passi felpati non risuonarono silenziosi in quel sacro confine che nessuno osava varcare senza il permesso del proprietario.
Proprietario che sembrava assente da molto tempo.
Arbusti di ogni genere invadeva l’un tempo ordinato giardino del casato Uchiha.
Erbe incolte; trasandatezza evidente dello spazio vitale.
I sandali lasciavano ombre polverose sul tatami.
Cocci.
Cocci ovunque.
Qualsiasi superficie riflettente era stata distrutta, frantumata.
A tratti, gioco malato di un bambino, si trovavano frammenti di specchio riuniti assieme in lastre irregolari che mandavano uno spezzettato e multiforme riflesso.
Li calpestò, quasi l’ulteriore frammentarsi dei vetri scacciasse la sensazione asfissiante emanata dalla casa.
Odore di sangue rappreso, di essere umano allo stato selvatico.
Arrivò a pensare che Sasuke fosse in missione e che qualche incauto vagabondo avesse occupato la casa.
Vana illusione, perché in quella decadenza riconosceva l’intervento del proprio otooto.
C’era qualcosa d’inconsciamente calcolato in quell’orrore; una psicologia sottile e non casuale.
Una logica.
Perversa e malata, forse, ma pur sempre logica.
Era voluta? Era un trucco?
Fissò alcuni fogli sparsi a terra.
Calligrafia infantile che tracciava incessantemente gli stessi ideogrammi.
I-ta-chi.
I-ta-chi.
I-ta-chi.
Accartocciò il foglio.
Sudava.
Ma non per il caldo.
Si asciugò la fronte con la manica della cappa.
Le scale di quella casa degli orrori lo aspettavano.
Gli tornò alla mente un episodio, quando Sasuke aveva appena un anno e si mangiava metà delle parole, in cortile.
Suo cugino Shisui lo stava allenando, insegnandogli quella perfezione nel lancio degli shuriken con cui il fratellino lo avrebbe assillato fino all’esaurimento.

«I’achi!»
«Sasuke, non ora!»
il bambino si era avviato gattonando verso di loro.
Era un nuovo e affascinante gioco vedere quelle stelline luccicanti brillare al sole durante il lancio, e voleva provare anche lui.
«I’achi!» ripeté il bambino, aggrappandosi alla gamba del maggiore.
Shisui rise all’espressione contrita del più grande dei fratelli, costretto, per cause di forza maggiore, a prendere in braccio quel bambino paffuto che, ottenuto ciò che voleva, passò al secondo, imminente, desiderio.
«Uiken!» urlò «I’achi, uiken!»
«No! Ti fai male!»
«Uiken…» gli occhi scuri di Sasuke si riempirono di lacrime insoddisfatte. «Uiken…I’achi uiken…»
«Sasuke, per lanciare gli shuriken devi smettere di stare in braccio ad Itachi.» intervenne Shisui, prima che il bambino scoppiasse in uno dei suoi pianti angosciati, capaci di attrarre la zia in meno di cinque minuti ovunque si trovasse.
Sasuke parve calmarsi per un attimo, come a ponderare le diverse possibilità.
«No I’achi?» mormorò.
«No Itachi.» fu la conferma del cugino.
Sasuke si strinse di più al fratello.
Itachi rimase sorpreso da quella scelta.
«Mio I’achi! Mio! Mio! Mio I’achi! Mio!»
Prepotente affermazione da parte dell’infante, accompagnata dalla nascente certezza, in Itachi, di aver trovato un mezzo per manipolare il capriccioso fratellino.

Potere che avrebbe usato molto spesso in modo indiretto.
Potere che, ora, gli si stava volgendo contro.
Perché gli era tornato in mente quell’episodio in apparenza insignificante?
Non lo sapeva, e questo lo inquietava.
Si era promesso di non pensare mai al passato.
Doveva guardare al futuro, senza mai volgersi indietro.
Ma quella casa…quei fogli…quei vetri…
Lo facevano sentire così…piccolo.
Sasuke stava cercando di intrappolarlo nel mondo in cui lui stesso lo aveva imprigionato?
Fece scorrere, non senza un sottile brivido, lo shoji della propria stanza.
Guidato da un istinto non meglio definito, aveva la sensazione, anzi la certezza, che Sasuke fosse lì.
E così era.
Acciambellato nel suo letto, stretto a un cuscino logoro e sporco di sangue, stava suo fratello minore.
O quello che ne era rimasto.
Si avvicinò al ragazzo addormentato.
I capelli scuri si erano allungati e giacevano non lavati attorno al volto che, nella sua magrezza, tale da incavargli le guance un tempo floride, continuava a mantenere una bellezza che la trasandatezza del corpo non aveva ucciso, ma l’aveva mutata.
Atterriva e lasciava sgomenti, sconvolti.
Con quel suo pallore innaturale, Sasuke era simile a una controfigura maschile della Morte.
Itachi gli scostò una ciocca dal viso addormentato.
Sulla pelle chiara, profondi graffi avevano lasciato eteree cicatrici, di cui alcune mal rimarginate stavano facendo infezione.
Scosse il capo, sollevano il fratello minore con un sospiro.
Rimase sconvolto dalla leggerezza dell’otooto.
Non era mai stato eccessivamente pesante, ma mai così…fragile.
Avvertiva, dal sottile tessuto della maglietta e dei pantaloni stracciati, la consistenza delle ossa su cui si tendeva la pelle candida.
Un fragile mucchietto d’ossa con un barlume di coscienza.
Foglia secca.
«Mh…aniki…» la voce uscì in un debole e quasi impercettibile mormorio, mentre gli occhi neri, apparentemente più grandi a causa della gracilità del volto, si aprivano, increduli a quella visione.
«Ciao, Sasuke.»
Quasi esaudendo la muta richiesta negli occhi del fratello, sorrise.
Sorrise, anche se aveva voglia di piangere.
Strinse forte il ragazzo contro di sé, ascoltandolo mentre gli raccontava del primo giorno d’accademia, quasi il tempo fosse, per un perverso gioco del destino, retrocesso a undici anni prima.
«Sasuke…»
«…e poi il maestro…»
«Sasuke…»
«Si è trasformato! E poi…»
«Sasuke…»
«…e mi ha detto che sono stato bravo…»
«Sasuke basta!»
Sbottò.
Aveva bisogno di riflettere senza le petulanti chiacchiere del fratello che gli ronzavano in testa.
Aveva bisogno di capire DOVE il suo piano era fallito.
E soprattutto, perché.
Ma per capire il suo errore aveva bisogno di tempo.
E quel tempo se lo sarebbe preso.
«Sasuke, dopo mi racconti tutto.» mormorò, passando la mano tra i capelli sporchi del fratello. «Adesso, però, ti porto in un posto. Tu dormi. Ti sveglio quando arriviamo.»
«Va bene, aniki. Ma dopo mi insegni a lanciare gli shuriken? Me lo avevi promesso…»
«Sì, Sasuke. Dopo ti insegno.»
«Promesso?»
«Promesso.

Ma chi
Ti ha preso per il culo


Una presa in giro.
Itachi si sentiva preso in giro da se stesso.
Aveva voluto giocare con la psiche, senza conoscerla a fondo.
Aveva voluto essere il Dio di quel piccolo universi rappresentato da Sasuke e c’era riuscito.
A caro prezzo.
La mente del suo otooto non aveva retto a un’eccessiva pressione.
L’abbandono, l’odio forzato, la scoperta del piacere e la possibilità senza scelta reale di cancellare un passato in cui era stato costretto a vivere e ricominciare da capo una nuova vita assieme al proprio aguzzino…
Non poteva odiarlo, ma neanche amarlo.
Non in quella dimensione.
Non in quello spazio.
Non in quel tempo.
Era molto più facile ritornare al passato, nell’epoca della fanciullezza, in cui suo fratello era suo fratello e non esisteva il dolore, la rabbia, la paura.
Allora…
Itachi portò Sasuke all’Akatsuki con sé, gelando con sguardo di fiamma chiunque osasse fare domande.
Un nodo allo stomaco quando lo spogliò per lavarlo, a vedere il corpo, un tempo snello ma sodo, così magro.
Scarno.
«Da quanto non mangi, Sasuke?»
«Non lo so. Mamma non ha ancora chiamato per la pappa oggi.»
«Sasuke, tu sai cucinare.»
Il ragazzo lo guardò come se avesse detto una cosa molto divertente, con lo stesso sguardo innocente dei bambini in tali situazioni.
«Aniki lo sai che mamma non mi fa toccare i fornelli perché sono troppo piccolo.»
Itachi sospirò, passandogli la spugna sulla schiena.
Sasuke giocava con la schiuma, battendo le mani quando le bolle scoppiavano.
Come?
Come era potuto succedere?
Come aveva potuto fallire nel suo piano così miseramente?
Lo avvolse nell’asciugamano, stringendolo a sé.
Pareva sereno, però.
Gli occhi scuri erano trasparenti, sinceri.
Come quelli del bambino di cui Itachi non si era preso cura.
Se un Dio esisteva, aveva un perverso senso dell’umorismo nello scegliere le punizioni.
Sciolse dolcemente l’abbraccio, facendolo accomodare su una sedia.
Armato di forbici, gli aggiustò i capelli.
Sasuke aveva sempre odiato tenerli lunghi, troppo fastidiosi da gestire.
Fu quasi una liberazione per il più piccolo degli Uchiha, quando il fratello gli restituì la solita lunghezza.
L’energia con cui gli saltò in braccio fu tale da sconcertare Itachi per l’improvvisa vitalità.
Sospirò.
Se quella era la sua punizione, l’avrebbe scontata.
Si sarebbe preso cura di lui finchè quegli occhi non avrebbero guardato nuovamente il mondo con coscienza.
Finché non gli sarebbe stato reso suo fratello.

Sempre la stessa scena
Dietro ogni porta un grido
La casa è un muro stretto intorno a me


«Sasuke! Tutto bene?»
Itachi spalancò la porta della stanza adiacente alla propria.
Si avvicinò al letto su cui il fratello stava seduto; nello sguardo, ancora il riflesso dell’incubo.
Lo stesso sogno.
Ogni notte.
Il reale che, approfittando dell’abbassamento delle difese poste dall’immaginazione, penetrava con cattivo odore sotto le porte, diffondendosi a macchia d’olio nella mente di Sasuke, costringendolo a vedere quanto coscientemente cancellato.
E, ogni volta, il ragazzo urlava.
Straziava l’aria con le sue grida e tremava, stringendosi spasmodicamente alla maglia di Itachi che, paziente come non era mai stato, abbracciava e carezzava confortante i capelli neri del fratello minore.
«Morti tutti…aniki…mamma…papà…morti…» singhiozzò.
«Lo so, Sasuke. Lo so.»
Sospirò.
Sasuke non vedeva mai l’assassino dei genitori, nel sonno, o meglio: non voleva vederlo perché la razionalità residua, quella che ci fa svegliare quando sogniamo di cadere, gli suggeriva che era meglio non saperlo.
«Era un incubo e basta, vero? Vero?»
«No. Era realtà.»
Non aveva ucciso tutti per niente.
«No.»
Sasuke, così facendo, non riconosceva i suoi meriti.
«Sì, otooto-chan.»
«No.»
Doveva ricordare.
«Sì.»
«Aniki…»
«Mh?»
«Mi vuoi bene?»
Itachi fece appoggiare la testolina bruna sulla propria spalla.
Col tempo, Sasuke si era fisicamente ripreso.
Aveva acquistato gradatamente peso e, grazie agli esercizi giornalieri organizzati da Itachi, aveva recuperato l’allenamento perduto.
Ma continuava a vivere in quel mondo ovattato, rifiutando la realtà.
Non chiedeva mai spiegazioni sugli strani tipi con la palandrana che abitavano con loro.
Ignorava i tentativi del fratello di ricollegarlo al mondo, eludendo le sue affermazioni perentorie con domande evasive alle quali Itachi non poteva negare risposta.
Come quella continua e snervante richiesta d’affetto.
«Sì, ti voglio bene.»
«Resterai sempre con me, aniki, vero?»
«Certo piccolo.»
«Promesso?»
«Te lo giuro.»
Sasuke si acquietò, rassicurato dalle parole del fratello.
Dovevano per forza essere vere, se dette da Itachi.
Lui non gli avrebbe mai mentito.
L’aniki non diceva mai bugie.
Raccontava solo grosse balle.

E il tempo passava.
Gli incubi notturni di Sasuke erano la persecuzione giornaliera di Itachi.
Costretto a vedere il fratello comportarsi come un bambino, chiedergli continuamente dei genitori e non accettare la fredda risposta: “Li ho uccisi.”
Sembrava non ascoltarlo.
La pazzia è solo il lato oscuro dell’intelletto e il velo che la separa dalla ragione è estremamente sottile.
Fino a quando questo velo non si strappa e allora è solo follia.
Fredda e brutale follia.

«Sasuke…»
Itachi posò appena gli occhi scarlatti sul fratello minore, intento a giocare sul tatami della camera.
Gioioso per il repentino ritorno del suo aniki, Sasuke scattò in piedi, abbracciandolo.
Era stato solo tutto il giorno e gli era mancato.
Passava il tempo chiuso in camera, col divieto di uscire quando Itachi era assente.
Proibizione a cui acconsentiva volentieri, in quanto permetteva di non percepire il luogo in cui si trovava.
Che non era casa, e Sasuke lo sapeva bene.
Non lo era perché non c’era mamma in cucina.
Non c’era papà che, burbero, si aggirava per la villa.
Non c’era neppure Shisui, suo cugino, sempre sorridente e dispettoso.
No, quella non era casa.
Però c’era Itachi…
Quindi, forse, si sbagliava.
Sorrise, beato, al passare delle dita di Itachi tra i suoi capelli.
«Sasuke, mi vuoi bene?»
«Sì!»
«Me lo fai un regalo?»
«Certo, aniki.»
«Allora cresci.»

Crescere.
Più facile a dirsi che a farsi.
Sasuke indietreggiò; le iridi scure sgranate.
Terrore nei suoi occhi; luce spaventata che indica solo insanità.
«No…»
«Sasuke hai diciannove anni…» cominciò Itachi.
Si avvicinava sempre di più per ogni passo che il fratellino poneva tra loro.
«No.»
Sasuke indietreggiava e scuoteva la testa.
«Sei uno shinobi di Konoha…»
«No.»
Zitto! Zitto!
«Ho ucciso mamma e papà quando avevi sette anni…»
Basta, aniki!
Basta.
«…ti ho lasciato solo…»
Fermo.
Non avvicinarti.
Muro.
Non sentire.
Non sentire…
Non…sentire…
«Sei vissuto da solo, trascinandoti…
Smettila…
«A dodici anni hai incontrato i tuoi amici, sei diventato genin…»
…fa male.
Basta, aniki…
Basta.
Non così vicino.
Ti sento troppo.
Non mi guardare con quegli occhi.
Fa male. Tanto.
…male dentro…
«Hai provato ad uccidermi.
…non toccarmi…
…non guardarmi…
La bocca di Itachi si avvicinò al suo orecchio.
«Omae wa yowai. Proprio come allora.»
…mamma.
«Sono tornato. E abbiamo fatto l’amore.
Itachi posò le labbra sulle sue, suggendo il tumido bocciolo.
«Ti voglio bene, otooto-chan.» mormorò, dando al ragazzo ciò che si voleva sentir dire.
Il corpo di Sasuke, così piccolo e fragile rispetto al suo, spinto contro il muro.
Il cuore palpitava e gli occhi erano chiusi, serrati.
Paura.
Aniki, perché fai questo?
Perché?
«Sei un bugiardo, aniki.»
«Apri gli occhi.»
Sasuke scostò il viso.
«Mi vuoi far arrabbiare, Sasuke? Mi daresti questo dispiacere? Questa…delusione?»
Sì.
Mi fai paura aniki.
Tanta.
Ho paura.
«Non mi vuoi bene? Non mi guardi neanche in faccia…»
No!
No, aniki!
Ti voglio bene! Tanto!
Ma…io…non voglio…guardare.
Ho paura di vedere.
Piangeva.
Le lacrime scivolavano sulle gote; le mani strette attorno al fratello.
Abbraccio disperato.
Supplica.
Non farmi vedere.
Non voglio.
«Per favore, otooto-chan.»
Perché?
«Ti voglio bene, Sasuke. Non piangere e apri gli occhi.»
«Non voglio il rosso.» singhiozzò.
Il rosso negli occhi di Itachi era cattivo.
Molto.
«Non userò lo sharingan.»
«Promesso?»
«Giuro.»
Sasuke aprì gli occhi.
E affogò nel rosso.

Possiamo sempre vivere
Possiamo sempre starne fuori
Anche se siamo soli possiamo sempre
Possiamo sempre scegliere
Possiamo sempre farci suore
Possiamo sempre far l’amore come comanda dio



Il mondo si invertì.
Ciò che era bianco divenne nero.
Due dimensioni; negativo su un foglio di carta e consequenzialità di fervidi e incalzanti fotogrammi.
Mamma.
Papà.
Shisui.
I nonni.
…loro circondati da cadaveri, la katana riluceva sanguigna.
E cresceva.
Sasuke cresceva in quel mondo parallelo.
Naruto, Sakura, Kakashi…
Itachi.
Itachi.
Itachi che lo batteva ancora una volta.
Itachi che lo metteva fuori combattimento.
Itachi che lo accarezzava.
Itachi che lo baciava.
Itachi che lo prendeva.
Tutto per quante volte?
Troppe.
Perse il conto.
Non lo aveva tenuto.
Cadeva.
Rotto.
Squarciato.
Suo.
E basta.
Basta.
Basta.
«Sasuke calmo. Va tutto bene.»
Itachi lo abbracciava, il mondo tornato a tre dimensioni.
Niente più rosso.
«Era finto. Era finto, vero aniki? Vero?»
Tremava violentemente, stretto al petto del maggiore.
«No. Era vero.»
«No. È una bugia. Ti prego. Dimmi che è una bugia.»
«Non lo è.»
«Sì.»
«No. Non sei più un bambino da un pezzo. Mamma e papà sono mor…»
«No!»
Distacco brusco, violento.
Corse nella propria camera.
Rifugio ultimo da quella realtà che la sue mente distorta considerava follia.
Specchi.
Qualcuno aveva riempito la stanza di specchi che, imperiosi, riflettevano la sua immagine.
No.
Non la sua.
Quella di un ragazzo, non di un bambino.
Non.
Era.
Lui.
O sì?
Faceva i suoi stessi movimenti, gli stessi occhi pieni di lacrime e lo stesso atterrito sconcerto sul volto.
Ulro.
Straziante, mentre si gettava contro gli specchi tentando di distruggerli.
Chakra in mano, stridio di rapaci.
Chidori.
Derivato da un istinto primordiale che lo spingeva a rompere, a distruggere quegli specchi mentitori che confermavano la menzogna di Itachi.
Frammenti ovunque e qualcosa sulla spalla sinistra bruciava.
Tanto.
Ma ruppe gli specchi, fino a quando non rimasero solo cristalli sparsi sul pavimento.
E il sangue stillava dai graffi.
E Sasuke piangeva lacrime scarlatte.
«Sasuke…»
«Aniki…» ansimò, senza voltarsi verso l’eterea e statuaria figura sulla porta.
«Guardati allo specchio, otooto. Guardati e torna adulto.»
«Non li hai uccisi, vero aniki?»
«L’ho fatto, Sasuke. E ti ho anche abbandonato.»
«Aniki…mi vuoi bene?»
Itachi sospirò.
Quante volte avrebbe dovuto ascoltare l’eco di un passato sepolto?
Quante?
C’è un limite all’infinito?
«Se non torni adulto, no.»

«Insomma, Sasuke! Quando ti deciderai a crescere?»
«Ma se cresco dopo devo sposarmi come papà e mamma e non potrò più stare con te, nii-san!«
Itachi sbuffò.
La donna sorrise, chinandosi sul figlio minore.
«Sasuke, tu non ti sposerai. Secondo le regole del clan sarai sempre e solo agli ordini di tuo fratello.
«Vuoi dire che io sono e sarò sempre del nii-san?»
«Sì.»
«Allora voglio diventare presto grande, così potrò essere tutto quanto di Itachi nii-san!»
E si voltò verso il fratello, con gli occhi che brillavano.

Itachi nii-san.
Il ricordo fa male.
Troppo.
Perché?
Itachi uscì dalla stanza, lasciandolo solo con i frammenti degli specchi.
Il giorno dopo, gli specchi erano di nuovo a posto.
Sasuke subì ancora una volta il rosso del mangekyou.
I pianti non cessavano. Mai.
Sasuke adesso temeva il ritorno di Itachi.
Si nascondeva quando percepiva la cadenza lenta dei suoi passi lungo il corridoio che portava alla propria camera, ingenuo tentativo di sfuggire a quella tortura.
Rosso.
Rosso.
Rosso.
«Sasuke…»
Il ragazzo si rannicchiò sotto le coperte.
Dita laccate di scuro lo scoprirono delicatamente, mentre le labbra morbide carezzavano la sua guancia.
Sasuke chiuse gli occhi.
«Aprili.»
«No. Poi c’è il rosso. Lo so.»
«È per il tuo bene.»
«No.»
«Fallo per me.»
Sospirando, Sasuke aprì gli occhi.

Credi possiamo sempre, chiedi possiamo sempre

Piangeva, piangeva.
E Itachi, spietato, gli mostrava tutto.
Sogni; tormenti; ambizioni; scene di vita quotidiana.
Tutto quanto potesse ricostruire la parte distrutta della mente di Sasuke.
Cominciò a portarlo in missione con sé.
Il contatto con la realtà divenne eccessivo quando incontrarono i suoi vecchi compagni di squadra.
Il jinchuuriki di Kyuubi gli era saltato addosso, accompagnato da quella ragazzina – petulante, osservò Itachi.
Impossibile descrivere le loro espressioni quando Sasuke si era staccato bruscamente da loro, non dando segno di averli riconosciuti, per prendere la mano dell’uomo in palandrana apparso dal fogliame.
E, subito dopo, aggrapparsi ad esso, come il naufrago allo scoglio.
Itachi nii-san.
Il suo aguzzino, il suo torturatore.
Il suo padrone.
Suo fratello.
Sasuke era di nuovo diviso.
Per giorni non uscì dalla camera.
Itachi lo voleva grande, ma lui non voleva crescere.
Itachi voleva che ricordasse, lui voleva dimenticare.
Ma stavolta, non aveva fuga.
Perché non poteva, e soprattutto non voleva, dimenticare Itachi.
La sola soluzione per porre fine a quella tortura era riaprire tutte le ferite, per poterle risanare nel modo adeguato.
Un sorriso illuminò il volto di Itachi quando Sasuke, seppur tremando, smise di protestare quando incrociava il mangekyou.
Aveva bisogno di una verità che non fosse la propria, perché se Itachi diceva che era malato allora era vero e doveva guarire.
Itachi lo strinse forte quando, timido e impacciato, si fece trovare nudo nel suo letto, ingenuamente convinto che così i tempi si sarebbero accorciati.
Ma fare l’amore, per adesso, non era contemplato.
Sarebbe stata una tappa da raggiungere, un traguardo della lunga camminata verso la guarigione.
Avrebbe sbagliato. Innumerevoli volte avrebbe dovuto ricominciare tutto da capo.
Forse la luce della follia sarebbe sempre rimasta nelle iridi scure di Sasuke, ma doveva strappare quella patina opaca.
Deus ex machina che ha giocato con la psiche, adesso avrebbe provato dieci, venti, cento…mille volte a sistemare i danni provocati.
A costo di dedicargli la vita.
Perché c’è sempre un’altra possibilità.
Sempre.



«Itachi mi vuoi bene?»
«No.»
Sasuke mise il broncio, deluso.
«E perché?»
«Perché io ti amo.»





Dio.
Questa è una di quelle fanfiction su cui ho sputato sangue nel tentativo di dare un approfondimento psicologico dei personaggi sufficiente, di descrivere la follia.
Chiedo anticipatamente scusa, se il problema è stato preso un po' sottogamba [Non è voluto, semplicemente, temo di non aver reso bene], ma era lì, nella testa. E voleva uscire fuori.

Una ItaSasu. Bene.
Uchihacest. Bene.
Il tutto per una persona, una persona a cui voglio un mondo di bene e che stimo e apprezzo.
Sono mesi che devo ricopiare questa storia, nata in risposta alla sua song-fic Poison.
Purtroppo, sono arrivata a dedicartela solo per i tuoi diciassette anni, amora.
E, come al solito, sono in debito di una fic.

Per te, Mika.
Per te, piccola grande sorella che mi è sempre accanto.
Per te, che sopporti tutte le mie crisi di infantilismo.
Per te, che ci sei sempre quando ho voglia di piangere, proprio come una bambina.

Auguri (LL)

 
  » Segnala questa fanfic se non rispetta il regolamento del sito
 


VOTO: (0 voti, 1 commento)
 
COMMENTI:
Trovato 1 commento
kirara-94 02/01/09 19:55
questa è stata la prima ff yaoi che ho letto *.* (la prima di una lunga serie) e rimane sempre la mia preferita *.*
bravissima continua così! un bacione^^
D'accordo con il commento: 0, e Tu? / No   |   Segnala abuso Rispondi

 
SCRIVI IL TUO COMMENTO:

Utente:
Password:
Registrati -Password dimenticata?
Solo su questo capitolo Generale sulla Fanfic
Commento:
Il tuo voto: