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Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: LAST ELEMENT - DELUXE EDITION
Genere: Fantasy
Rating: Per Tutte le età
Autore: kotaromatsudaira galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 30/11/2004 22:58:31 (ultimo inserimento: 27/01/05)

chi l`ha detto che a genesis si ride soltanto? ecco qua tutti gli aspetti che la follia del ``last element`` regolare ha sempre soffocato!
 
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STORIA DI UN RAGAZZO RACCONTATA TRA I SUSSURRI DEL VENTO
- Capitolo 1° -

1 – Storia di un ragazzo raccontata tra i sussurri del vento

Il sole acceso di metà Maggio stava per sorgere e una leggera brezza gli scompigliava i corti capelli castani.
Il luogo dove viveva, Panor, era un piccolo e ridente villaggio di mare all’estremo Sud del mondo. La maggior parte degli abitanti erano pescatori o mercanti. Era un villaggio tranquillo, arroccato su un’imponente scogliera. Un villaggio pacifico che avrebbe mantenuto la sua pace anche nel bel mezzo della più terribile guerra. E così, in un certo senso, era stato. Perché, anche se adesso la pace regnava su Panor e sull’intero mondo di Genesis, mille anni prima la guerra c’era stata davvero. Una guerra tragica, orribile, causata dalla smania di potere di un potentissimo demone che voleva sottomettere l’intero mondo e creare un regno di terrore, un demone di cui ancora oggi si tramandava il nome. Un nome così terribile che fu proibito pronunciarlo e che fu censurato da tutta la pubblicistica dell’epoca, celato dietro l’appellativo di “Grande Re del Male”.
Satana.
Fortunatamente il regime di terrore di Satana fu fermato. Impaurita, la gente di tutto il mondo, pregò gli dei affinchè la liberassero da quella minaccia, ed essi, nella loro infinita benevolenza, accolsero le loro preghiere e conferirono a sette ragazzi come tanti il potere necessario per fermare il Grande Re del Male. Un potere immenso, derivato dalla forza benevola e creatrice della natura,, che, contrapponendosi alla volontà distruttrice di Satana avrebbe potuto fermarlo, e dalle sette entità elementali che la componevano: acqua, fuoco, terra, ghiaccio, fulmine, luce e vento.
Ai sette ragazzi furono assegnati dei destini molto più grandi di loro, che finirono per accettare con pazienza e rassegnazione. Impararono a dominare il potere che era stato loro donato, combatterono strenuamente e riuscirono, dopo un lungo e sofferto combattimento, a imprigionare la malvagia creatura in una caverna nelle profondità del monte Darkal, situato all’estremo Nord del mondo, per mille anni. In seguito tornarono nella loro patria, dove furono accolti come eroi. I festeggiamenti durano per mesi. La gente era felice perché la tirannia era stata sconfitta ed era tornata la pace. I sette ragazzi erano però pienamente consapevoli che non sarebbe durata in eterno e che, passati mille anni, il Grande Re del Male sarebbe rinato a nuova vita, molto più potente e malvagio, desideroso di vendicarsi e di assoggettare nuovamente Genesis. Per questo fondarono una scuola, dove avrebbero potuto crescere nuovi eroi, in modo da renderli pronti a fronteggiare il ritorno del male.
Alla loro morte fu costruito in loro memoria un bellissimo mausoleo sulla scogliera alle porte del loro villaggio natale.
Il villaggio di Panor.
Per conservare per sempre la memoria di coloro che avevano portato la pace.
Non che a Koichi questo importasse più di tanto.
Appollaiato sugli scogli, con i piedi immersi nella fresca acqua del mare, puliva i suoi piccoli occhiali tondi con un fazzoletto.
E pensava.
Lui non credeva a quella storia. Il ricordo di un tempo di guerra passato per permettere un presente di pace? Impossibile!
Pace significava comunione di tutti gli esseri viventi del mondo, che avrebbero così smesso di provare dolore. E, malgrado volessero convincerlo che fosse così, lui non ci avrebbe creduto perché aveva visto con i propri occhi e provato sulla propria pelle che era una cosa falsa.
Non era vero che c’era la pace nel mondo, o, perlomeno, se c’era, non era per tutti. Vista ad un livello superficiale, la vita degli abitanti di Genesis era pacifica, ma se si guardava nell’animo delle varie persone con più attenzione, e si esaminavano i vari casi, ci si rendeva conto che la pace era solo apparente.
Koichi aveva diciassette anni. Anche se tra un anno avrebbe raggiunto la maggiore età, a guardarlo sembrava ancora molto infantile. Era molto più basso dei suoi coetanei, aveva corti e arruffati capelli castani e due occhi dello stesso colore, che però nascondevano tutta la loro profondità dietro le lenti di un paio di occhiali.
Viveva a Panor con i suoi genitori, che erano un mercante e un’insegnante, e frequentava la scuola fondata dagli antichi sette eroi. Non perché credesse veramente in quello che gli insegnavano, ma perché non voleva dare noia ai suoi genitori che si aspettavano molto da lui e lo avevano iscritto lì affinchè diventasse un ragazzo modello.
A scuola non si trovava molto a suo agio. I suoi compagni parlavano di musica, di ragazze e di sesso, organizzavano partite di pallone e uscivano assieme di sera per bere alcolici. Lui non era tenuto molto in considerazione da loro.
Era un ragazzo molto tranquillo, con una grande difficoltà a legare con gli altri. Non gli piaceva fare attività fisica, ma preferiva esprimere ciò che dimorava nel suo cuore attraverso il canto o la scrittura.
A scuola stava sempre chiuso in sé stesso, stando attento alle lezioni più che ai compagni. Non era certo ben visto dagli altri ragazzi, che non gli parlavano mai, se non per prenderlo in giro per il fatto che fosse basso, che non parlasse mai o che portasse gli occhiali. Spesso lo picchiavano, sapendo che il ragazzo non era così forte da reagire alle provocazioni e si sarebbe lasciato colpire.
Smise di bagnarsi i piedi nell’acqua, li asciugò e si mise le scarpe. Poi, borsa a tracolla, si incamminò verso la scuola, un edificio di pietra con un piccolo giardino annesso situato nel centro del villaggio.
Arrivò a scuola un quarto d’ora prima che entrassero i compagni e l’insegnante. Si sedette al suo banco in seconda fila e aprii il libro, cercando di ripassare una noiosa lezione su monti, fiumi, mari e laghi di Genesis.
“L’epoca di pace in cui viviamo è soltanto apparente” pensò Koichi “perché se fosse una vera pace tutti gli uomini si vorrebbero bene”.
“E probabilmente questi non mi farebbero così male…” disse fra sé, guardandosi i lividi e le cicatrici che gli avevano procurato i compagni picchiandolo.
Koichi non aveva mai avuto un carattere forte. Subiva e sopportava tutto stoicamente, anche se quello a cui andava incontro fosse stato il più crudele dei destini. E non aveva nessun amico, perché, vedendo che lui non parlava mai con nessuno, i suoi compagni e coetanei perdevano interesse a parlare con lui.
Un tempo non era così. Quando era piccolo un amico ce l’aveva. Si chiamava Hajime e i due erano come fratelli. Si dicevano tutto e condividevano ogni cosa. Hajime era un bambino biondo dagli occhi azzurri e contraddistinto da un carattere estremamente allegro, che fungeva da complementare a quello un po’ chiuso e musone di Koichi. Questa sua giovialità e spensieratezza nascondeva però una situazione familiare molto dura e complessa, che portò i genitori di Hajime a divorziare. Il padre rimase a Panor e lui dovette andare a vivere in un’altra città, molto lontana, assieme alla madre. Per Koichi fu davvero un brutto colpo. La perdita del suo amico fraterno accentuò il carattere del ragazzo, che divenne sempre più chiuso in sé stesso.
Non era bravo nello sport, non era loquace, non era simpatico, non era bello, non era alto, ma Koichi era certo di una cosa. Che non era giusto fargli pesare tutto questo. Perché tutti, indipendentemente dall’aspetto fisico o da come si pongono nei confronti degli altri, avevano il diritto di vivere. Di avere degli amici. E di amare.
Già. Era proprio questo che, sotto sotto, nel profondo del suo cuore, Koichi desiderava. Avere degli amici, dei veri amici a cui avrebbe potuto affidare la vita, avere qualcuno da amare e che lo amasse a sua volta. Non aveva la forza necessaria per realizzare questo sogno, ma sperava che col tempo gli dei avrebbero notato le sue sofferenze e lo avrebbero realizzato per lui.
Continuò a sfogliare le pagine del libro, ma era troppo assorto nei suoi pensieri per riuscire a capirci qualcosa. Sbuffò e fece per chiuderlo, quando si accorse che due profondi occhi castani lo stavano fissando dal banco davanti al suo.
“Ci hai capito qualcosa? Se vuoi te lo posso spiegare io!”.
Koichi conosceva bene quegli occhi, gli occhi dell’unica luce che brillava intensamente nell’oscuro universo della sua esistenza.
“V… volentieri! Ti ringrazio, Tomoko!” disse, flebilmente Koichi.
Tomoko era l’unica persona che in classe gli rivolgeva la parola. Aveva diciassette anni, grandi occhi castani e lunghi capelli dorati. Era più bassa di Koichi, ma a dispetto dell’aspetto fisico un po’ infantile, era una ragazza molto matura. Gentile, responsabile e allegra, Tomoko faceva amicizia con tutti. Aveva ottimi voti e le piaceva leggere e danzare.
I due erano vicini di casa e si conoscevano fin dall’infanzia. Il loro rapporto non era profondissimo. Ogni tanto si incontravano per studiare. La ragazza gli mostrava i balletti di sua invenzione o gli consigliava dei libri, e Koichi le faceva leggere i brevi componimenti a cui si dedicava nel suo tempo libero. Niente più di questo. Eppure per il ragazzo Tomoko era una presenza veramente importante. Vuoi perché fosse l’unica persona che mostrava una minimo di considerazione per lui, vuoi perché quando stavano insieme il ragazzo sentiva il suo cuore battere più velocemente del normale.
I due ragazzi rimasero da soli per una decina di minuti. Il sole di Maggio cominciava a levarsi alto nel cielo, diradando le nuvole con la sua luce, e la brezza primaverile soffiava dalle finestre. Nel silenzio dell’aula, completamente vuota eccetto loro due, si diffondeva dolcemente la soave voce della ragazza che ripeteva nomi di elementi geografici. E Koichi sentii che i battiti del suo cuore si affannavano e gli portavano alla mente una parola che da tempo sembrava aver rimosso dal suo vocabolario.
Felicità.
Sapeva che al mondo nulla era eterno, che anche quel momento felice era un brevissimo attimo rispetto all’eternità del tempo, ma non potè fare a meno di pendere dalle labbra dell’amica ascoltando i battiti del suo cuore.
Carpe diem. Gli avevano insegnato che bisognava godere anche del più piccolo attimo della propria vita. Perché la vita umana è breve e mutevole e si può passare dal riso al pianto, dal bianco al nero, in un battito di ciglia.
Dopo qualche minuto l’idillio fu spezzato dall’ingresso degli altri compagni e della professoressa, che si lanciò subito in una dettagliatissima spiegazione della geografia di Genesis, così dettagliata da sembrare quasi noiosa.
Koichi passò le ore di lezione diviso tra la voce della professoressa, che alle sue orecchie arrivava più come una litania che come una spiegazione, e le fantasticherie della sua mente.
Fantasticava di essere seduto sulla solita scogliera alle porte del villaggio, al tramonto, con una brezza leggera e piacevole che gli scompigliava i capelli e gli sussurrava dolci parole d’amore.
E, ad un tratto, eccola lì. Bellissima come sempre. Lunghi capelli dorati che scintillavano alla luce rossa del tramonto, grandi occhi color nocciola, un costume da bagno sgargiante. Lei. Tomoko.
La ragazza era seduta su uno scoglio, intenta a bagnarsi i piedi nell’acqua tiepida.
Gli sorrideva. E Koichi era felice di questa sua fantasticheria, tanto da arrossire completamente in volto.
Fortunatamente, le tre ore di lezione di geografia erano le uniche che in quel Sabato mattina di fine Maggio a Koichi sarebbe toccato sopportare, perché per le pulizie della scuola i ragazzi sarebbero usciti prima.
Uscito dalla scuola, accecato dal sole, il ragazzo cominciò a sentire caldo, quindi decise di cogliere l’occasione e di andare a rinfrescarsi nel suo luogo preferito, la scogliera.
Koichi adorava quel posto. Adorava il poter restare in completa solitudine, in un clima fresco e piacevole, per poter riflettere in santa pace. Adorava l’odore del mare, lo stridio dei gabbiani che volavano sopra la sua testa. Ma più di ogni altra cosa amava la sensazione del vento, che, soffiando, gli sembrava sussurrare parole simili a quelle di una triste canzone, carica di tutta la sua malinconia e solitudine. Alba, mattina, pomeriggio, tramonto o sera che fosse, Koichi adorava la sua scogliera e approfittava di ogni suo momento libero per recarsi lì, sedersi su di una roccia con i piedi ammollo e i capelli scompigliati dal vento, e scrivere qualcuno dei suoi componimenti, oppure restare semplicemente lì a riflettere.
Ma la visita mattutina di Koichi alla sua scogliera non sarebbe stata piacevole, quel giorno.
Il ragazzo vi si recò di fretta, pregustando il suo personalissimo locus amoenus, dove avrebbe potuto restare in completa calma e in completa solitudine.
La scogliera però era già occupata. Infatti, seduti tra le rocce, vi erano due ragazzi dall’aspetto poco raccomandabile, due ragazzi che, suo malgrado, Koichi conosceva bene.
Indossavano giubbotti di pelle nera e jeans griffati. Uno dei due aveva lunghissimi capelli neri e un aspetto non poco virile, l’altro aveva un aspetto molto rozzo, una scombinata zazzera di biondi capelli ricci e due foltissime sopracciglia quasi unite in uno solo.
Ryuji e Takeru.
Avevano entrambi diciotto anni suonati, ma frequentavano la scuola allo stesso anno di Koichi, perché erano stati bocciati. In effetti il loro rendimento scolastico e la loro condotta non erano delle migliori. A loro poco importava della scuola. Volevano solo divertirsi tra locali alla moda, abiti firmati e “sgamate”, come le definivano loro, con anche più di una ragazza alla volta. Passavano le ore di lezione in uno stato di dormiveglia, mentre all’uscita e all’intervallo si piazzavano all’ingresso per ricattare e derubare gli alunni più giovani.
E, ovviamente, Koichi era uno dei loro bersagli prediletti.
Spesso e volentieri Ryuji e Takeru si divertivano a picchiarlo o a derubarlo. Cosa importava? Tanto per loro era solo un verme, inutile alla società, e come tale, era loro dovere rendergli la vita impossibile.
Il ragazzo dovette così dire addio al suo sogno di una mattinata tranquilla, turbata dall’apparizione dei due bulli.
“Koichi! Ti aspettavamo!” disse Ryuji, il ragazzo coi capelli neri “Eh, eh, eh! Non hai scampo! Questa volta ti faremo nero per quante botte ti daremo, e, se vorrai sfuggirci, non dovrai fare altro che buttarti giù! Ah, ah, ah!”.
Takeru, il suo rozzo compare, emise un grugnito di assenso.
Koichi deglutì. Lo avevano già picchiato molte altre volte, ma questa volta poteva lasciarci davvero la pelle. E non voleva certo che la sua meravigliosa scogliera venisse sporcata col suo sangue.
I due si avventarono immediatamente sul povero malcapitato, quando una voce li obbligò a fermarsi.
Era sopraggiunto un nuovo ragazzo. Alto, magro, con una frangia capelli color indaco talmente lunga da coprirgli quasi gli occhi. Indossava una maglia nera firmata e jeans e scarpe costosissime.
Non ci volle molto perché Koichi riuscì a riconoscerlo.
Satoshi, diciassette anni, era in un certo senso il “capo” dei due bulli, i quali, malgrado fossero più grandi di lui, seguivano ciecamente le sue direttive perché spaventati dai suoi ricatti. Era una persona subdola, vuota, con un ego smisurato. Si credeva il più affascinante dell’universo e tutti coloro che non erano alti, magri e belli come lui erano creature inferiori, assolutamente indegne di vivere e di avere rapporti con “gli eletti”.
E, basso e miope com’era, Koichi non poteva certo definirsi un “eletto”.
“Fermatevi!” disse con la sua voce effeminata.
“Perché, capo?” esclamarono in coro Ryuji e Takeru.
“Non voglio che uccidiate questo ragazzo…” disse Satoshi.
Koichi tirò un sospiro di sollievo.
“… perché voglio essere io in persona a farlo!” continuò, mentre un ghigno malefico si formava sul suo volto.
Koichi trasalì. “Hey, hey! Non scherziamo! Mi sembra un po’ troppo quello che stai cercando di farmi! Ma poi, scusa, si può sapere cosa ti ho fatto? Io non ti conosco nemmeno!” chiese, in preda al panico.
Il ghigno sulla faccia di Satoshi divenne ancora più malefico. “Oh, è molto semplice. Guardati! Sei basso, miope, timido, brutto, imbranato! Pensi che uno come te abbia le qualità giuste per vivere in questo mondo dove contano solo la bellezza e l’apparenza? Eppure anche un verme come te osa pensare di poter avere dei rapporti con chi è talmente bello che anche gli dei si sentono invidiosi di lui? Nemmeno per sogno! Continua pure a fantasticare, ma non troverai mai nessuno che ti ami davvero, sgorbio!” esclamò.
Koichi capì. Preso dal panico non ci aveva pensato, ma quel discorso glielo aveva riportato alla mente. Tomoko gliene aveva parlato tempo fa. Lei aveva sempre avuto una schiera di ammiratori, ma aveva puntualmente rifiutato tutte le dichiarazioni e quelli si erano rapportati a lei solo come amici. Anche Satoshi era rimasto incantato dalla ragazza. L’aveva invitata ad uscire insieme a lui, erano andati a vedere uno spettacolo teatrale e poi lui l’aveva invitata a casa sua. Una volta nella sua camera si era avvicinato a lei con l’intenzione di fare sesso, ma lei l’aveva pesantemente rifiutato ed era corsa fuori immediatamente. Satoshi aveva pensato che una cosa del genere non potesse essere possibile. Rifiutato lui? Lui che “sgamava” con dieci ragazze contemporaneamente rifiutato da una sgualdrina qualunque? Impossibile! Tomoko doveva essere sua a tutti i costi. Per questo aveva continuato a provarci spudoratamente, senza risultati, ma anche senza arrendersi. E di certo l’idea che uno sgorbio come Koichi potesse avvicinarla e parlare con lei senza problemi certo non gli andava a genio!
Koichi continuò a stare impassibile, senza dire una parola e senza muovere un muscolo, di fronte agli insulti che gli venivano mossi.
Così impassibile che ad un certo punto Satoshi perse la pazienza.
“Che fai, hai perso la lingua? O forse non ti hanno ancora insegnato a parlare? Bah, in ogni caso questa insubordinazione non mi piace per niente! Io sono l’eletto e tu devi rivolgerti a me con rispetto! Quello che stai facendo è un gravissimo peccato nei miei confronti! Opporti a me è come opporti ad un dio. Opporsi ad un dio significa hybris, e la hybris va punita severamente!”.
Detto questo, sferrò sulla guancia di Koichi un pugno molto forte.
Il ragazzo, con la guancia che cominciava a sanguinare, barcollò.
Satoshi rincarò la dose continuando a sferrare pugni sulle sue guance e sulla sua pancia, facendo cadere a terra Koichi.
Gli dei avevano fatto finire la guerra e riportato la pace nel mondo.
Non era assolutamente vero, pensava Koichi, mentre il dolore gli ottenebrava la mente.
Dov’erano gli dei in quel momento? Se avevano davvero creato loro il mondo, avevano dato gli stessi diritti a tutti gli esseri viventi. Belli o brutti, estroversi o introversi che fossero, tutti gli esseri viventi avevano lo stesso diritto di vivere le loro vite senza essere disturbati da nessuno, e nessuno al di fuori degli dei che li avevano creati poteva decidere chi fosse degno di ricevere il dono della vita e chi no.
Continuando a subire i pugni di Satoshi, Koichi arretrava, arretrava, finchè ad un certo punto non si trovò al limitare della scogliera. Ancora un passo e sarebbe caduto giù, andando a schiantarsi fra le rocce.
Satoshi ormai era come invasato. Continuava a dare pugni a destra e a manca e la faccia di Koichi ormai perdeva sangue copiosamente.
Koichi, in preda al dolore, pensò che non voleva morire. Non voleva perché non gli sembrava che quello fosse il modo giusto di morire, perché non condivideva le ragioni di colui che stava per ucciderlo, perché lui avrebbe voluto vivere ancora per molto tempo, dichiararsi a Tomoko e vivere felice assieme a lei. Non voleva perché non si sentiva in alcun modo capace di rinunciare alla sua scogliera, ai suoi momenti di riflessione, alla frescura dell’acqua marina, al vento che sembrava sussurrargli dolci parole di conforto.
Quel vento. Koichi lo amava più di ogni altra cosa, forse anche più di Tomoko stessa. Perché il vento sarebbe stato sempre lì con lui per confortarlo, qualunque cosa fosse accaduta, e il pensiero di perderlo per sempre fece scendere leggere lacrime dagli occhi del ragazzo. Lui doveva vivere. Doveva vivere assolutamente. Per poter sentire ancora il vento scompigliargli i capelli e per essere finalmente felice.
Gli occhi che fino a pochi secondi prima versavano lacrime adesso ardevano, forti di un sentimento che il ragazzo era convinto di non aver mai provato in vita sua.
Si rialzò a fatica e guardò Satoshi con occhi di fuoco carichi di una determinazione tale da immobilizzarlo per un paio di secondi.
Il vento si fece più forte. La dolce brezza marina si tramutò in una fortissima folata.
E, forse per la prima volta in vita sua, Satoshi ebbe paura.
Perché quello non era più il ragazzo timido e impacciato che stava per uccidere fino a qualche secondo prima.
Non aveva ancora detto una parola, ma Satoshi era ugualmente spaventato da quello sguardo così determinato.
Koichi puntò i suoi occhi sul suo avversario, lanciandogli uno sguardo freddo di difficile interpretazione, e, subito dopo, inspiegabilmente ed improvvisamente, sulla sua fronte comparve un emblema a forma di “S” rovesciata che brillava di un’intensissima luce argentata.
E, finalmente, il ragazzo parlò. Quasi in uno stato di trance, di ebbrezza, quelle parole gli uscirono di bocca con una freddezza tale che il ragazzo sembrò averle dette inconsciamente.
Onda di vento!
Satoshi non aveva più dubbi. Non era più lui.
La luce argentata sulla fronte del ragazzo si fa ancora più intensa ed egli convoglia la folata di vento nel palmo della sua mano destra per poi scagliarla verso il suo avversario con una potenza tale da farlo cadere giù dalla scogliera.
Ryuji e Takeru scapparono per la paura e, così com’era apparso, il misterioso emblema scomparve e Koichi si risvegliò dal trance, pienamente consapevole di quello che aveva appena fatto.
Aveva appena fatto un incantesimo.
Il ragazzo aveva letto sui libri di scuola di molte persone del passato capaci di utilizzare la magia, come per esempio i famosi sette guerrieri, ma mai e poi mai avrebbe pensato che ne sarebbe stato capace lui stesso.
Satoshi era caduto giù dalla scogliera. Era sopravvissuto? Era morto? Koichi non riusciva a capirlo e non riusciva in alcun modo a sentirsi responsabile di un eventuale delitto. In fondo Satoshi aveva avuto quello che si meritava e, anche ammesso che lo avesse ucciso lui, certo non era sua intenzione, inoltre non era ancora sicuro di aver compreso per bene le circostanze.
Gli dei, gli stessi dei che Koichi odiava per avergli mentito e riservato una vita così triste, gli avevano fatto un dono tanto potente quanto misterioso, da cui il ragazzo era allo stesso tempo spaventato e affascinato.
Il vento continuava a soffiare, sempre più forte, e Koichi capì. Era un segno. Decise di seguire la direzione del vento, perché era sicuro che volesse condurlo da qualche parte.
Seguendo la folata, il ragazzo arrivò all’ingresso del villaggio, dove il mare si faceva da parte per lasciare spazio ad una radura che introduceva una fitta foresta.
E là, sul prato, due ragazzi abbracciati che si stavano baciando.
La ragazza aveva lunghi capelli dorati e bellissimi occhi castani.
Koichi ebbe un colpo al cuore nel vederla. Era Tomoko, la sua dolce Tomoko, con cui aveva condiviso gioie e dolori, l’unico astro che brillava per rendere meno grigio il cielo della sua vita, che stava diventando anima e corpo con un ragazzo che sembrava avere circa cinque o sei anni più di lei. E di fronte a quella visione, il ragazzo non riuscì a fermare le lacrime che scesero copiose sulle sue gote.
Si sedette sull’erba, preoccupandosi di non farsi vedere dall’amica, e pianse, pianse facendo cadere sulle sue guance tutte le lacrime che i suoi occhi potevano produrre.
E così era questa la sofferenza di un amore non corrisposto. Koichi non riusciva a capire. Sembrava che la sua vita stesse improvvisamente andando ancora peggio. Nemmeno Tomoko sarebbe riuscita a farlo felice. Forse era nel suo destino soffrire per sempre senza nessuno che lo amasse?
Improvvisamente, le lacrime sul viso del ragazzo furono asciugate da una forte folata di vento che lo investì, scrollandogli di dosso anche tutta la tristezza.
No, la felicità esisteva anche per lui, da qualche parte. Semplicemente non si trovava nel villaggio di Panor. A Panor tutto era iniziato, ma il culmine della sua vita doveva trovarsi da qualche altra parte.
D’istinto, il ragazzo prese a correre e tornò a casa.
I suoi genitori gli diedero addosso, chiedendogli come fosse andata a scuola, ma lui li ignorò e corse nella sua stanza. Tirò fuori una borsa e vi infilò tutto ciò che gli capitò sotto mano, poi prese carta e penna e scrisse di suo pugno una lettera per i suoi genitori.
Anche in un mondo in rovina continua a soffiare il vento,
portando con sé la speranza di una rinascita futura.
Il mio cuore ha bisogno di risposte e sarà proprio questo vento a darmele.
Solo quando le avrò trovate potrò ritornare alle origini. Ma non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, perciò al mio ritorno non sarò più la stessa persona di adesso, bensì una migliore.
Perciò, addio!
Vi voglio bene! Non preoccupatevi per me!
Koichi
Lasciò la lettera sulla sua scrivania e corse fuori di casa come un fulmine, portandosi dietro le urla e le domande dei suoi genitori.
Varcò la grande porta in legno con su intagliato “Villaggio di Panor” che segnava il confine del mondo da lui conosciuto e si preparò a partire per un viaggio alla ricerca della felicità.
Il suo villaggio natale non era riuscito a dargliela in diciassette anni che vi aveva vissuto, ma lui la pretendeva, ed era giunto il momento di andarsela a prendere con le proprie mani, ovunque essa fosse.






 
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