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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: LA STRADA CHE MI CONDURRÀ A TE
Genere: Sentimentale, Romantico, Drammatico
Rating: Vietato Minori 18 anni
Avviso: One Shot, Yaoi
Autore: andromedashun galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 04/07/2008 00:25:50

“Basta sensi di colpa… vivi…” Sì, amore mio… vivrò… portandoti dentro di me e cercandoti in ogni cosa bella che esiste in questo mondo e nell’universo
 
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LA STRADA CHE MI CONDURRÀ A TE
- Capitolo 1° -

In realtà scrivo molte originali oltre che fanfic ma questa è la prima che pubblico.
In realtà è nata per una sorta di contest in una mia mailing list e sarebbe ispirata ad un’immagine ma credo si possa seguire anche senza immagine^^ I minorenni si tengano lontani anche se ho cercato di trattare i temi difficili presenti con più delicatezza possibile^^


I personaggi sono maggiorenni e frutto della mia fantasia

LA STRADA CHE MI CONDURRA’ A TE






La stringo tra queste mie mani, mentre una lacrima scivola e si va ad infrangere sul vetro, strato sottile e trasparente, che protegge senza coprire, perché ciò che in questo nostro ritratto è immortalato non venga mai corrotto dal tempo. Eppure adesso vorrei scagliare a terra la cornice che accarezza le nostre membra, non posso guardare quel tuo sorriso senza desiderare di scomparire dal mondo e raggiungerti, ovunque tu ti trovi adesso… ma non potrei comunque tornare al tuo fianco, perché io sprofonderei nelle tenebre, mentre tu… anche tu… i suicidi non vanno in paradiso… e non è giusto perché io ti ci ho spinto, è solo colpa mia!
Cado in ginocchio e la foto rimbalza lontano da me, sulla moquette, urta contro una gamba del tavolinetto rotondo al centro del mio soggiorno; non la raccolgo, non ne ho il coraggio, come se temessi di scottarmi; le immagini di noi due, mano nella mano, occhi negli occhi, scorrono davanti alle mie palpebre serrate a trattenere le lacrime che non voglio piangere più, perché bruciano troppo intorno ai miei occhi e lungo le mie guance, come spilli ardenti conficcati nella pelle. Vorrei mettere a tacere anche la memoria, perché ricordare fa troppo male, ma la mia coscienza è troppo debole, quasi inesistente, soffocata dalle spire irrazionali dell’incoerente pensiero che riporta ogni mia sensazione a quel giorno… quel mattino di… quanto tempo fa? Un secolo? Quanto può sembrare lungo un anno quando ti cambia la vita?
Ti vidi nel corridoio della scuola, appoggiato ad un muro, le mani dietro la schiena, il viso basso e timido ma sorridente, come sempre, quel sorriso che mai riuscivi a negare a coloro che desideravano starti vicino. Mia sorella mi vide, si staccò dal gruppetto che ti circondava e mi corse incontro, saltellando come una bambina delle elementari:
“Abbiamo un nuovo compagno, Takao-Niichan, vieni te lo faccio conoscere. E’ un amore!”
Lo dissi anche a te quando ormai ci conoscevamo bene, un giorno in cui eravamo tutti e tre insieme a casa nostra: “Mia sorella sembra uscita direttamente dalle pagine di un manga per ragazzine idiote” e tu ti abbandonasti ad uno di quei rari attacchi di risate davvero sentite mentre lei mi assaliva colpendomi alla nuca con uno di quei maledetti shojo che detesto. Anche tu leggevi un manga e, forse spaventato dal suono così raro delle tue risate, tu che sempre sorridevi ma in silenzio, quasi non te ne credessi degno, sollevasti il fumetto per nascondere ritrosamente il viso dietro di esso e continuare a ridacchiare così, come tra te, per non disturbare, perché non ti sentivi meritevole di partecipare all’ilarità del mondo che ti circondava… piccolo, sciocco, adorabile tesoro mio, perché quel senso di inferiorità che sempre ti portavi dentro? Perché sei giunto a fare quello che hai fatto quando invece avresti dovuto unicamente insultarmi e prendermi a pugni? Perché ancora una volta ti sei ritenuto tu stesso sporco ed indegno di vivere, quando chi avrebbe dovuto prendersi cura di te ti ha sempre fatto del male, quando colui cui avevi creduto di poterti finalmente affidare con tutto te stesso ti ha così brutalmente tradito?
Nonostante le lacrime per un istante sorrido; immaginare te, che prendi a pugni qualcuno… assolutamente impossibile anche solo fantasticarci sopra ad una cosa del genere ma quanto vorrei che l’avessi fatto. Su una cosa quella piattola di mia sorella aveva ragione: tu eri… sei… un amore… il mio amore… qualcosa di prezioso giunto a dare un senso alla mia vita e che io ho gettato al vento, io, maledetto essere inutile e superficiale, non meno colpevole di coloro che ti hanno inferto tante ferite, fisiche e psicologiche, così terribili da sopportare… all’ennesima delusione neanche la tua forza immensa ha retto… delusione che io ti ho inferto. Come potrò proseguire la mia esistenza, adesso, con questo peso che sarò costretto a portare dentro di me, per il resto della mia vita? Togliermi la vita io stesso… troppo comodo, troppo facile… non merito una soluzione così scontata e leggera, assolutamente no! Resterò qui per espiare fino alla fine dei giorni che mi spetteranno come legittima punizione.
E le immagini di noi due continuano a tormentarmi, una più dolorosa dell’altra, un colpo più forte dell’altro, sempre più a fondo nella mia anima…
Il giorno cruciale, sul mio letto ad una piazza e mezza; tu eri particolarmente triste e anche io lo ero, perché ti amavo e non potevo confessartelo… poi la tua crisi di pianto improvvisa, il tuo ricercare un contatto innocente, il tuo desiderio di posare il capo sulle mie ginocchia mentre, pregandomi di non odiarti, mi rivelavi di essere omosessuale e di… di non poter più fare a meno della mia presenza nella tua vita. La tua attesa angosciosa mentre, con ogni probabilità, attendevi la mia ira, la reazione più brusca che la tua fervida fantasia potesse immaginare, attendevi che ti spingessi schifato lontano da me e che ti cacciassi via dalla mia casa.
Non potrò mai scordare l’incredulità dei tuoi occhi, grandi e belli, quando invece ti invitai a tirarti su, a guardami, quando presi il tuo volto tra le mie mani e, dopo averti asciugato le guance intrise di lacrime, ti strinsi al mio petto e dichiarai a mia volta i sentimenti che provavo per te… non dalla prima volta che ti avevo visto, non sarebbe giusto… allora mi ero semplicemente invaghito del tuo sorriso, dei tuoi modi adorabili.
Poi cominciai a conoscere il tuo animo quando venivi a studiare a casa nostra, perché mia sorella ti aiutasse a recuperare il programma della nostra scuola e compresi che non potevo più ignorare i balzi del mio cuore, non potevo trascurare ciò che stava nascendo dentro di me, non potevo negare a me stesso che stavi diventando la persona più importante di tutta la mia esistenza ed ero deciso a tenerti vicino a me, pur sapendo che mai avrei potuto dirti tutto quello che provavo. Invece, come sempre, il più forte tra noi sei stato tu, il primo a comprendere che un passo avanti, nel nostro rapporto, andava fatto perché, al di là di tutto, tra noi non potevamo continuare a fingere… l’avevi compreso, molto prima di me.
Da allora la nostra intimità crebbe, organizzavamo gite insieme, unicamente noi due, nella campagna che tu tanto amavi e passeggiavamo nella natura, tenendoci per mano, mentre tu mi descrivevi ogni fiore, ogni pianta, sapevi riconoscere ogni specie di uccello al solo udirne il canto e li imitavi, sorridendo radioso ogni volta che essi rispondevano al tuo richiamo, distinguevi ogni farfalla che veniva a corteggiarti danzandoti intorno e io restavo, estasiato, ad ascoltare ogni tua parola, desiderando che quegli istanti non finissero mai. Poi improvvisamente arrossivi, abbassavi il capo, sospiravi e sussurravi:
“Perdonami… parlo sempre io… forse questi argomenti ti annoiano e…”
Allora ti zittivo, ma non sapevo trovare le parole più adatte per convincerti che proprio tu avevi fatto schiudere al mio sguardo ignorante e al mio spirito cieco le bellezze che il nostro mondo può offrirci se solo sappiamo osservarlo con l’anima aperta ad accoglierle. Avrei voluto farti tacere posando le mie labbra sulle tue ma non osavo, tra noi c’era un tacito accordo; non me l’avevi mai detto ma qualcosa, nella tua persona, lo lasciava ad intendere… non avresti sopportato contatti troppo intimi, qualsiasi gesto che assumesse, seppur da lontano, fosse anche un semplice bacio bocca contro bocca, un qualunque connotato sessuale. Il mio desiderio cresceva, ma il coraggio di confessartelo non l’avevo perché una parte di me sapeva che non l’avresti accettato e non perché non mi amassi… no… perché non saresti stato in grado di sostenerlo, anche se allora non ne coglievo il motivo… ingenuamente, stupidamente, dicevo a me stesso che eri troppo puro, troppo perfetto per simili materiali sciocchezze, che la tua essenza immacolata non le avrebbe mai potute concepire. Quale orribile realtà si celava dietro questo sipario di futile idealizzazione che stendevo sopra a ciò che non potevo comprendere!
Ma avrei preferito mille volte continuare a vivere in quella cappa di illusione pur di cancellare quella maledetta, orribile notte… anche se c’è un angolo del mio cuore che mi dice come, in parte, sia stato necessario far venire a galla la verità… ma che senso ha avuto sapere, a questo bastardissimo prezzo? Non ti è stata resa giustizia, hai dovuto morire perché io lo scoprissi… e chissà se quel mostro, inoltre, pagherà per quel che ti ha fatto? E chi gli è stato complice? Quella moglie che non oso pensare come possa essere stata tua madre?
In quanto a me… io pagherò… pagherò perché forse, a differenza loro, sono consapevole eccome di ciò che ti ho fatto e pagherò solo vivendo fino alla fine dei miei giorni, anche se sono perfettamente conscio di come non sia ancora abbastanza.
Perché il colpo più duro te l’ho dato io, il diretto responsabile della tragedia sono io e non importa se ho sfogato tutta la mia rabbia su chi, per primo, ha fatto sanguinare il tuo cuore e ti ha tradito.
Era tra le mie braccia che avevi cercato rifugio quella sera, mentre un temporale che durava da ore rovesciava sulla città tutta la propria ira; cercavi protezione, scappavi da qualcosa e io non l’avevo capito; non importa che tu non mi abbia voluto dire nulla, non è una scusa, avrei dovuto leggerti dentro, avrei dovuto semplicemente tenerti stretto a me e restare così, senza assillarti con i miei egoistici bisogni che non riuscivi a soddisfare… e che non era necessario dovessi sentirti obbligato a soddisfare.
Ero sceso nel capannone sotto casa mia, cercando un po’ di quiete dalle noiosissime chiacchiere della mia pettegola sorellina, sempre ansiosa di mettermi al corrente di ogni insignificante vicissitudine occorsa a qualche vostro compagno o al professore di matematica, un pover uomo senza spina dorsale tramutatosi da tempo nello zimbello della scuola. Eri l’unico a non prenderti gioco di lui, non ti saresti mai preso gioco di nessuno e io ti amavo anche per questo.
Me ne stavo seduto al tavolo, stravaccato dovrei dire, con i piedi sollevati e accavallati sulla superficie di legno, lo stereo acceso non troppo alto per non disturbare i miei genitori che sicuramente dormivano e sgranocchiavo patatine, canticchiando melense canzoni d’amore, dedicandole col pensiero a te, ripetendo tra me che dovevi avermi attaccato una ben grave malattia per farmi accantonare l’hard rock con cui ero solito distruggermi le orecchie e per avermi fatto concentrare su un pensiero talmente fisso da risultare assillante per le mie sensazioni sconnesse; un anno soltanto e già mi avevi cambiato… non mi riconoscevo ma mi piacevo di più… non immaginavo che sarei regredito nella mia autostima nel giro di poche ore, giungendo a fare letteralmente schifo a me stesso.
Era quasi notte inoltrata, il vecchio orologio appeso al muro scrostato della rimessa segnava le ventidue e trenta passate e, vagamente, i miei pensieri si concentrarono per un effimero istante sui compiti per l’indomani che avevo candidamente trascurato, ma scacciai quel molesto ricordo con una scrollata di spalle e richiamando nuovamente ai miei sensi l’immagine tanto più gratificante del tuo sorriso. Fu allora che udii quel leggero fruscio fuori dalla porta; pensai si trattasse di Neko-chan, il nostro gatto, che finalmente si decideva a venire dentro al riparo, dopo che l’avevo chiamato per oltre due ore; così uscii, per andargli incontro… e ti vidi.
Neko-chan l’avevi trovato tu e te ne stavi in piedi, con lui tra le braccia; inizialmente credetti che fosse unicamente pioggia quella che rigava le tue guance diafane, poi distinsi i lievi, regolari sussulti delle tue spalle, il tremolio delle tue labbra. Stavi piangendo, in silenzio, nel solito modo discreto con cui compivi ogni gesto, con cui sorridevi, con cui ti facevi notare quando, raramente, osavi intrometterti in un discorso che ti premeva particolarmente.
Corsi ad abbracciarti, ti accompagnai al riparo e tu andasti a sederti a terra, la schiena contro il muro, mentre il gatto si rifugiò al calduccio nella sua cesta e cominciò a lisciarsi il pelo che la pioggia aveva arruffato. Ti stringesti le braccia al petto, tremante, e io ti invitai ad andare nel piccolo bagno che avevamo fatto costruire nel capanno, per farti una doccia calda prima di avvolgerti in qualche panno asciutto che ti avrei rimediato. Speravo di trovare qualcosa che appartenesse a mia sorella, ogni tanto lei amava vestirsi da maschiaccio e più o meno aveva le tue stesse misure, ma trovai solo una mia vecchia tuta, decisamente troppo grande per te.
Ti convinsi a fatica, quasi ti costrinsi e alla fine, arrendevole come al solito, decidesti di obbedirmi; attesi paziente, ascoltando dall’esterno lo scroscio della doccia che si confondeva con il ticchettio costante della pioggia fuori dalla porta. Mi costrinsi a mettere a tacere il mio corpo che avrebbe desiderato tuffarsi sotto l’acqua con te, allontanai dalla mia testa l’immagine del tuo corpo nudo… un corpo che non avevo mai visto nella sua integrità, sempre celato dietro a strati di stoffa che, anche nelle giornate più calde, insistevi nel tenerti addosso. Una parte di me mi suggeriva che ti amavo e che non era sbagliato fantasticare sulle grazie della persona amata, ma il frammento più razionale della mia coscienza mi imponeva il rispetto: eri corso da me in lacrime, sicuramente ti era accaduto qualcosa e solo su quello avrei dovuto concentrarmi.
Ero quindi deciso ad attendere che avessi finito di riassestarti e poi ti avrei chiesto i motivi di tanta disperazione, forse, per una volta, mi avresti risposto, forse eri finalmente deciso a rivelarmi qualcosa della tua esistenza al di là dei nostri incontri, al di là di noi due. Perché tu esistevi anche come persona singola, ma sembrava che desiderassi negarlo a te stesso ed a me… e solo ora, io, maledettissimo stronzo, so il perché.
Resistere nei miei propositi puritani fu dura quando ti vidi uscire immerso in quel vestiario nel quale sembravi affogare: la mia tuta da ginnastica bianca e rossa ti faceva apparire ancor più piccolo e fragile ai miei occhi innamorati. Le mani scomparivano all’interno delle maniche, lasciando spuntare solo la punta estrema delle tue dita sottili, i tuoi piedi nudi, piccoli e lisci, sbucavano appena dai pantaloni lunghissimi; evidentemente lo sguardo con cui ti squadrai non raccolse il tuo entusiasmo, perché arrossisti e, a disagio, mi oltrepassasti per tornare a sederti nel tuo angolino, attaccato al muro, mormorando qualche parola che faticai a capire mentre rifuggivi insistentemente i miei occhi:
“Ti ringrazio… la tua tuta è molto calda… spero di non rovinartela…”
“Stai scherzando?” risi per alleggerire l’atmosfera e per tornare rassicurante alle tue percezioni “Voglio che la tieni tu, sei adorabile lì dentro!”
Mi osservasti di sottecchi e io non sapevo come interpretare quella diffidenza che percepivo nei miei confronti… e invece di riflettere, di pensare che forse, ciò che ti aveva spinto a scappare per rifugiarti da me, era qualcosa di tanto orribile da renderti sospettoso verso il mondo intero, stavo accogliendo questo tuo atteggiamento quasi come un’offesa personale e, mio malgrado, sentii crescere dentro di me una sorta di irritazione che avrei voluto cancellare; non riuscivo a capire se essa dipendesse più dal tuo atteggiamento o da quel maledetto desiderio di possederti che non ero in grado di ricacciare nel profondo.
Mi sedetti al tuo fianco e il pavimento di terra battuta mi sembrò terribilmente freddo, che l’umidità passasse attraverso lo spessore dei miei jeans; tu invece non davi alcun segno di fastidio. Ti avevo sempre ritenuto incredibilmente paziente, al limite dello stoicismo, quindi non mi stupii più di tanto, sono sempre stato io l’insofferente piagnucoloso, tanto che persino mia sorella mi ha sempre preso in giro per questo.
“Vuoi dirmi che è successo?”
Lo domandai con tutta la gentilezza che seppi infondere nella mia voce, ma tu rintanasti il viso tra le spalle, tanto che parve scomparire tra le pieghe del colletto rosso; vidi solo i tuoi capelli biondi danzare un poco mentre scuotevi la testa e un lieve pigolio soffocato dal tessuto giunse a stento fino a me:
“Vorrei solo restare al tuo fianco per un po’… addormentarmi con la testa sulle tue ginocchia…”
Imprecai tra me; non riuscivo a dominare la mia eccitazione e, se ti fossi appoggiato a me in quel modo, te ne saresti sicuramente accorto… eppure non riuscivo a considerarla un’ipotesi del tutto malvagia: eravamo una coppia, io ti amavo e stare a contatto con te mi eccitava… cosa poteva esserci di sbagliato? Inconsciamente, portai una mano tra le mie gambe; non avevo premeditato quel gesto e, quando mi resi conto di ciò che stavo facendo, la tolsi immediatamente ma non abbastanza lesto perché tu non te ne rendessi conto. Ti vidi sussultare, l’istante successivo ti scostasti da me, tremante, fissandomi con occhi vitrei, come se avessi appena assistito alla cosa più orribile del mondo. Non potei fare a meno di chiedermi cosa ti avesse colpito in modo talmente negativo, non era accaduto nulla di grave secondo la mia percezione delle cose.
Allungai una mano verso di te, quella stessa mano che, un attimo prima, aveva compiuto quel gesto per te così sconvolgente; per questo arretrasti così bruscamente da urtare un mobiletto poco distante?
“Makoto-kun…?” sussurrai a fil di labbra, terrorizzato io stesso per ciò che avevo provocato, pur del tutto inconsapevole di cosa in realtà si trattasse.
Come in una scena al rallentatore, dal sapore irreale, ti vidi portare le mani al volto, vidi i tuoi occhi immensi e sconvolti scomparire, celati dalle tue dita intrecciate alle ciocche scomposte della frangia bionda che ti ricadeva sulla fronte.
E io commisi l’ennesimo errore, non so perché, non so cosa mi spinse, mi venne naturale e dentro di me volevo darti conforto, anche se ammetto che non solo la mente mi spinse, non solo il cuore; il mio corpo chiedeva, tutto il mio corpo ti bramava e implorava il contatto… quel genere di contatto. Ma fui dolce quando presi le tue mani per scostarle dal tuo viso, quando ad esse volli sostituire le mie, sussurrandoti parole… tenere… Non erano tali, tuttavia, per te, in esse recepisti solo la sfumatura intrisa di desiderio… non è vero? Perché quando accostai le mie labbra alle tue, fu per te come se la mia pelle fosse diventata bollente; eri così rigido che credetti ti saresti spezzato sotto ogni mio tocco e nonostante questo insistevo, perché il motivo non poteva essere un rifiuto nei miei confronti… ormai solo quello vedevo, ormai non sapevo andare oltre. Purtroppo mi ero addentrato in un terreno che mi stava rendendo cieco ed incapace di soffermarmi a riflettere, ero precipitato in uno di quei momenti in cui la lucidità non riesce ad essere padrona del ragionamento e il sospetto mi assalì senza che neanche io potessi comprenderne l’esatta natura: tu non mi amavi, non mi avevi mai amato, perché altrimenti tenere le distanze in quel modo? Ti facevo comodo, perché avevi bisogno d’affetto ma nulla più, non era mai stato nelle tue intenzioni andare oltre con me, chissà… forse non eri neanche omosessuale dopotutto.
Quanto può diventare crudele la mente umana ossessionata da egoistiche paranoie, quanto può far del male l’egocentrismo di chi si sente ingiustamente incompreso! E tu che soffrivi a tal punto, mai l’avevi fatto pesare a qualcuno.
Non si scioglievano le tue membra contratte e io volli tentare lo stesso, io, mostro incapace di dominare i miei istinti come… come tutti… come tutti quelli che sempre ti hanno fatto del male! Io ti forzai, contro la tua volontà, le mie labbra si posarono violentemente sulle tue che eri come una statua di marmo prezioso prossima ad andare in frantumi.
Poi agisti, sentii sul mio petto la tua spinta convulsa che mi sbilanciò giungendo inattesa e mi fece perdere l’equilibrio; battei malamente la spalla contro uno spigolo di legno dietro di me e imprecai; cosa mi stava accadendo non so spiegarmelo neppure adesso, quell’ira che mi rapì, ingiusta, malsana, del tutto ingiustificata, perché io avevo torto. Ma allora non compresi, allora mi sentivo solo l’innamorato respinto che non meritava un tuo rifiuto così plateale.
Mi alzai in piedi, il tuo viso sconvolto, se possibile, accentuò ancor più il mio nervosismo perché non capivo; urlai, come un ossesso in preda al delirio:
“Volevo solo baciarti maledizione! Sei o non sei il mio compagno? Ti stavo baciando, cazzo, non volevo mica violentarti!”
Ripensando adesso a quella scena, avrei dovuto interpretare diversamente la reazione che provocò in te la mia ultima parola, avrei dovuto notarla, anche solo un minimo quella reazione e non farmi passare tutto addosso senza nulla vedere e capire; ti portasti una mano alla bocca, i tuoi occhi erano sbarrati all’inverosimile, tremavi e… adesso me ne rendo conto… il tuo respiro era così colmo d’affanno che probabilmente dentro ti sentivi soffocare… non seppi riconoscere un attacco di panico in piena regola, non seppi riconoscere il tuo crollo mentale e continuai ad inveire, incoscientemente, come mai avevo fatto contro nessuno, giungendo a puntarti il dito contro:
“Sei solo un maledettissimo ipocrita, Makoto, tu non mi ami affatto, ti fa solo comodo crederlo, permetterai che, dopo tutto questo, io abbia un po’ il diritto di pensarlo?!”
Neko-chan mi scrutava, le orecchie ritte… e mi giudicava, ora lo so, peccato che non recepii allora il suo rimprovero, forse mi avrebbe aiutato a rinsavire, peccato che non venne davanti a me, a schiaffeggiarmi con le sue unghie affilate. Si limitava a fissarmi, gli occhi sbarrati come i tuoi, ma che trasmettevano un sentimento del tutto diverso: il disprezzo nei miei confronti… stavo deludendo entrambi e non me ne rendevo conto.
Vidi attraverso la nebbia della mia cieca furia il tuo scuotere il capo, forse per negare, forse per cacciare il velo di confusa irrealtà che ci aveva catturati tutti dentro a quel capannone; e nel frattempo appoggiasti le braccia al muro, lentamente ti sollevasti e poi rimanesti così, in piedi ma vacillando come se avessi dovuto ricadere da un momento all’altro. Fissasti il vuoto per qualche secondo e portasti subito dopo lo sguardo a terra; io seguii, come un drogato, alcune ciocche dei tuoi capelli scomposi che scivolarono ad accarezzarti la fronte, a coprire del tutto il tuo viso basso, mortalmente pallido.
Mi avvicinai, tesi la mano, strinsi le dita sul tuo braccio, maldestramente, gesto guidato dalla rabbia, non dal desiderio di fare pace; ti strattonai, probabilmente ti feci molto male:
“Adesso mi guardi Makoto, non ti tirerai più indietro, adesso la smetti di fare la vittima e mi spieghi che cosa cazzo vuoi dalla mia vita!”
Non avrei mai creduto che in te esistesse una tale forza, te così esile, delicato in ogni gesto; ti bastò uno strattone nel quale infondesti una disperazione spropositata per liberarti e, mentre la mia mano stringeva il vuoto, ti catapultasti fuori, neanche me ne resi conto. Uscisti nella tempesta, così, a piedi nudi, in preda al freddo che non ti aveva abbandonato; ma io so, adesso, che il freddo del corpo non importava più, del tutto insignificante se raffrontato al gelo di un’anima che non aveva più niente cui appigliarsi per accettare questo mondo così nero… reso più oscuro da un affetto tradito, reso ancor più tenebroso dalla mia stessa esistenza.
Cosa feci?
Rimasi immobile, come un autentico idiota; solo Neko-chan balzò giù dalla sedia per mettersi subito alle tue calcagna, mentre io mi crogiolavo in un’indolenza condita dalla più vile incapacità di reazione che la mia mente ridotta in briciole seppe trovare in quegli istanti. Sfuggii a me stesso evidentemente, per un attimo non esistetti più… o anche questa è unicamente una banale scusa per giustificare un atteggiamento basso e vigliacco, che ha messo l’autentico me stesso davanti ai miei occhi increduli.
Poi nella mia testa accadde qualcosa, un flash, come un urlo che provenisse da lontano, un urlo disperato che mi invitava a svegliarmi, a reagire, a schiodare i miei maledetti piedi da quel pavimento freddo… mi ordinava di gettarmi nel buio, nella notte ancora più fredda… tutto era buio e freddo in quei momenti e tutto sarebbe rimasto in eterno buio e freddo.
Durò una frazione di secondo quel grido nella mia testa, quella pugnalata attraversò il mio cuore e io già correvo, incurante della pioggia, incurante della sensazione immonda che mi davano i miei vestiti bagnati che si incollavano al corpo… immonda sì… perché quella era una pioggia di sangue, anche gli sguardi indifferenti che di sfuggita si voltavano a scrutare la mia follia erano iniettati di sangue, le loro membra erano solo un grande grumo di sangue e non se ne rendevano conto, nessuno di loro… solo io vedevo l’inferno scarlatto nel quale l’intero universo era irrimediabilmente precipitato.
Giunsi in riva al mare, alla grande scogliera, ancora adesso non so cosa mi condusse proprio lì; mi fermai in tempo per vedere, a qualche metro di distanza, un nugolo agitato di persone, udii vagamente, nel confuso vociare confuso con il canto feroce dell’insistente acquazzone, la parola “ambulanza”, udii qualcuno asserire che era troppo tardi…
Maledizione, troppo tardi per cosa?!
Mi avvicinai, mi misi a spintonare come un ossesso in preda al delirio… non sapevo cosa fosse successo eppure… eppure sapevo, il mio cuore lo sapeva, ma la ragione ancora non traduceva in verità la certezza… non voleva farlo!
Mi arrampicai, mentre invano cercavano di trattenermi, lungo la parete rocciosa più impervia, non so perché lo feci, avrei potuto vedere lo stesso l’immagine che mi porterò impressa nello spirito a vita eppure… dovevo salire, dovevo arrivare dove tu eri arrivato.
Tutto era calmo sulla sommità, le voci lontane, le persone piccole o forse il mio animo rendeva tutto distante e diverso, come se fossi entrato in un altro mondo estraneo a quella folla brulicante laggiù; abbassai il capo.
La prima cosa che mi si impresse a fuoco sulla retina fu la chiazza rossa, liquida e ancor fresca perché si spandeva come una macchia di petrolio intorno a… a un corpo in essa immerso… ma forse la mia immaginazione dilatava il tutto e la macchia non era così grande…
Per qualche istante fui terribilmente freddo, mi chiesi perché nessuno era ancora sceso per fare qualcosa, perché l’ambulanza non arrivava e nessuno l’aveva ancora chiamata… per qualche istante, là sotto c’era un estraneo, si era appena svolto un evento che mi toccava solo da lontano, il normale, umano dispiacere suscitato dalle tragedie altrui; i miei occhi erano asciutti, la mia mente tranquilla, ma non lucida e neanche razionale.
Il mio corpo invece già aveva superato quella fase di stallo e aveva iniziato la discesa pericolosa; perché mente e corpo tornassero in connessione fu necessario raggiungere l’orribile meta, fu necessario gettarmi su quelle membra straziate, stringermele al petto… e vedere i tuoi occhi sbarrati sul nulla, occhi vuoti che ancora piangevano. Forse era la pioggia, forse non erano lacrime, forse entrambe le cose… forse… forse tu ancora stai piangendo da qualche parte, dovunque tu sei.
Sollevai lo sguardo al cielo e urlai, urlai cose che non so ricordare, urlai gettando fuori l’anima finché rimasi senza voce, finché lo scorrere del tempo si smarrì nell’eternità e io mi fusi con le tenebre mute.
Mi svegliai in un letto d’ospedale; di ciò che seguì ricordo proprio poco, non osai avvicinarmi a casa tua, non osai dire niente alla tua famiglia che probabilmente non sapeva nulla di me, al funerale me ne restai in disparte, sperando di non essere notato, osservai tutto da lontano. Avrei preferito non esserci, ma ero come spezzato in due.
Ma il giorno dopo, non so come né perché, uscii dalla mia stanza; mia sorella si trovava nella sala, raccolta su se stessa e probabilmente aveva appena finito di piangere. Non sai che vuoto hai lasciato in tutti, amore mio e se lei sapesse che la colpa è mia… forse arriverebbe ad odiarmi.
Forse per questo non le dicevo nulla, non la confortavo, non per freddezza o cinismo: semplicemente non me ne sentivo degno… o più probabilmente ero troppo assente a me stesso, non esistevo, ero morto insieme a te.
Spinto dall’inerzia dell’apatia camminavo per la strada, un chiodo fisso in testa: dovevo vedere la casa in cui vivevi, dovevo vedere la tua stanza, nella quale ti chiudevi insieme ai tristi segreti diventati infine troppo pesanti da sopportare. Non mi chiesi cosa avrei raccontato ai tuoi genitori, neanche mi importava dopotutto; non sentivo di amarli particolarmente, io avevo delle colpe, forse le maggiori, ma se non si erano mai accorti del tuo stato d’animo, non potevano essere innocenti, avrebbero dovuto essere responsabili della tua felicità.
Mi rimproverai per quei pensieri, sempre che la mia mente fosse in grado di concepire ragionamenti morali; in fondo, se avevano fallito, potevano averlo fatto in buona fede e si sentivano male, si sentivano esseri infimi come io mi sentivo. Non immaginavo… non potevo immaginare…
Ma forse, in fin dei conti, il motivo per cui mi stavo spingendo verso la tua abitazione era che, dentro di me, incapace di accettare ciò che era accaduto, speravo di trovarti lì, ad attendermi, pronto a fare la pace con me… o che avrei potuto entrare nel tuo mondo, dove adesso ti eri rinchiuso per sempre, che tu mi accettassi dentro di te e restare lì in eterno, insieme…
La porta si stagliava davanti a me, una normalissima porta di legno bianco, con uno spioncino ad altezza d’uomo, posizionato in centro; eppure a me sembrava immensa, innaturale; probabilmente passò qualche minuto prima che mi decidessi a sollevare una mano per portarla al campanello. Avrei preferito poter spingere l’uscio, semplicemente, non dover chiedere il permesso per poterti raggiungere, per potermi addentrare in un universo metafisico dal quale non avrei mai chiesto di uscire. Ora mi rendo conto che la follia di quei pensieri distorti guidava ogni mia azione, eppure, quando un uomo scialbo, grassoccio, quasi calvo, mi si parò davanti, parlai normalmente, esternando una lucidità che non possedevo, quasi fosse una qualche parte di me nascosta chissà dove, una parte sana, a prendere in mano, quando serviva, le redini della situazione:
“Sono un amico di Makoto-kun… sono venuto a porgere le mie condoglianze e… a chiedere un favore…”
L’uomo mi scrutava, senza che sul suo volto trasparisse una qualche emozione; l’impressione che mi trasmetteva era di uno strano, viscido squallore e mi fece un insolito effetto pensare che doveva trattarsi di tuo padre. Alle sue spalle fece capolino una donna, piccola, dimessa, consumata da un dolore più grande di lei evidentemente, eppure… c’era qualcosa che non andava anche nella sua espressione, che me la rendeva odiosa… qualcosa che mi suggeriva come quello che ti era accaduto fosse solo uno dei tanti tormenti che si portava dietro… delle tante colpe.
“Mi dispiace chiedervelo così ma… avrei bisogno di prendere qualcosa che avevo imprestato a Makoto, degli appunti di scuola che mi servono assolutamente per domani… so di sembrare inopportuno ma…”
Senza fare una piega, l’uomo si scostò dalla soglia e la lasciò vuota; immaginai fosse il suo modo per invitarmi ad entrare. La donna si era spostata e potei notarla di nuovo solo quando, a passi incerti, misi piede nel soggiorno; era tornata alle proprie faccende e non sembrava intenzionata a degnarmi della minima considerazione. Anche colui che ritenevo fosse il marito mi dava la schiena e si diresse verso una poltrona, sulla quale si lasciò flaccidamente cadere.
A quei due non importava nulla di ciò che accadeva loro intorno, semplicemente lasciavano che il mondo agisse e loro, passivamente, lo assecondavano. In una circostanza del genere era comprensibile, sarebbe stato comprensibile se le mie sensazioni fossero state diverse; c’era qualcosa che non andava, qualcosa di profondamente sbagliato… era come se neanche di te importasse loro granché, come se la tua scomparsa non avesse rappresentato che il culmine di un degrado iniziato molto tempo prima. Senza rendermene conto avevo già percepito tutto? Ed era stato possibile perché... anche io ero come loro dopotutto? Certo… io ti avevo dato l’ultima spinta…
Ma cosa ci facevi tu in questa casa, cosa avevi a che fare con queste mura? Non trovai nessuno che ti somigliasse anche solo vagamente, la bruttura si era impadronita di quella casa e delle persone con le quali la condividevi. Se c’era stato un tempo in cui, anche solo fisicamente, esse avevano avuto qualche tratto in comune con te, la grettezza su di loro aveva vinto da tempo.
Non osai rivolgere loro alcuna parola, temevo che non mi avrebbero neanche risposto e la cosa mi inquietava; non sapevo spiegarmi perché ma quei due, in qualche modo, mi terrorizzavano. Avrei dovuto chiedere dove si trovasse la tua stanza, ma ero sicuro che sarei stato in grado di trovarla da solo, che l’avrei riconosciuta.
C’erano delle scale sul lato opposto del soggiorno e, ormai certo che nessuno mi avrebbe fermato, mi incamminai deciso in quella direzione; prima di imboccare il primo scalino non potei esimermi dal voltarmi un poco, giusto per vedere se, quanto meno, mi stessero controllando, io estraneo che stavo facendo gli affari miei, come se nulla fosse, in casa loro. Niente… come se non esistessi.
In cima un angusto corridoio, due porte su un lato, una sull’altro; la prima porta alla mia sinistra era assolutamente identica alle altre in apparenza, ma quale impeto luminoso sembrava trasmettere al solo guardarla! Fu la mia meta immediata, senza tentennamenti o dubbio alcuno.
Inizialmente la socchiusi appena, sbirciando timoroso all’interno; non mi sentivo degno di entrare in quello che sicuramente era il Paradiso nel quale tu ancora esistevi. Sobbalzai; eri seduto alla scrivania appoggiata alla parete di destra e, chino su di essa, eri intento a scrivere qualcosa. Aprii del tutto e smascherai l’illusorio fantasma che la mia immaginazione aveva creato… per il momento… perché negli istanti successivi ti scorgevo in ogni angolo, intento a compiere piccoli gesti quotidiani insignificanti per chiunque, ma che ti rendevano così speciale ai miei occhi rapiti. Rimettevi a posto un libro sulla piccola mensola, ripiegavi con cura un paio di pantaloni ed una camicia, posavi un tenero bacio sul muso di un orsacchiotto di pezza posato su una seggiola accanto alla finestra. Questo tuo regno non aveva nulla a che fare con lo squallido ambiente che lo circondava, la tua camera era un mondo a sé, nel quale tu ti rifugiavi per lasciare fuori tutto il resto, non mi fu difficile intuirlo. Ordinata, graziosa, dolce come l’universo fatato di un bambino che non voleva crescere e si nutriva della compagnia di fate, elfi e folletti. Qua e là, raccolte in piccole cornici o appese con cura alle pareti, foto e bellissimi disegni fatti da te degli amati uccelli con i quali ogni giorno ti dilettavi a conversare.
Infine ti sedesti sul letto e mi guardasti, la testa inclinata lievemente di lato, una ciocca di capelli a sfiorarti la spalla; era così triste il tuo sguardo, angelo mio, in esso vi era una supplica muta. Ti voltasti verso la scrivania, a contemplare qualcosa mentre ai tuoi occhi sfuggiva una solitaria, dignitosa lacrima.
Seguii il tuo sguardo; c’era qualcosa sul vecchio tavolo in noce, dalla posizione in cui mi trovavo lo riconobbi come un diario. Mi avvicinai per osservarlo più da vicino, senza toccarlo inizialmente; era chiuso, nero, con qualche cuoricino rosa sparso qua e là. Mi ritrovai a sorridere; mentalmente ti presi in giro, quella piccola agenda era degna della mia melensa sorellina.
Il sorriso svanì, tuttavia, quasi subito perché, mentre continuavo a fissarlo, quell’oggetto sembrava scrutarmi a sua volta, quasi sfidandomi minaccioso e compresi di averne paura… di esserne anzi terrorizzato all’inverosimile.
Ma percepivo ancora, alle mie spalle, la tua espressione di supplica, il tuo desiderio… desideravi che lo aprissi? Perché? Come potevo io, infimo ed immeritevole essere umano, violare i tuoi puri segreti?
Puri segreti… al ricordo di questo mio sciocco, superficiale, sdolcinato pensiero, non posso fare a meno di lasciarmi andare ad un’amara risata, del tutto priva di ogni traccia di ilare gioia. L’unica cosa pura, nella tua esistenza, eri tu, il tuo esistere, il tuo spirito nonostante tutto incorrotto.
Presi in mano il diario e mi voltai; non ti vidi più e avrei voluto urlare, non volevo che mi lasciassi solo ad affrontare qualcosa di cui ancora non afferravo il senso.
La copertina rigida sembrava scottare tra le mie mani; infilai i pollici tra le pagine ed aprii a caso. La data… un giorno di due anni prima… avevi dodici anni.

14 aprile 2005
Papà era strano oggi; non mi ha picchiato come le altre volte, sembrava quasi gentile, voleva accarezzarmi, ma erano brutte le sue carezze. Il suo respiro era strano. Ha voluto che lo toccassi in mezzo alle gambe, poi ha fatto lo stesso con me e mi ha fatto male… ho avuto paura… non voglio che lo faccia ancora… preferisco le botte.

Le mie dita si irrigidirono e il diario scivolò tra esse, cadendo a terra con un tonfo sordo; mi portai una mano alla bocca per soffocare un’ondata di nausea. Dovevo essere precipitato in un incubo e volevo assolutamente svegliarmi; un vago senso di irrealtà mi trascinava lontano mentre quella parte razionale che non percepivo, ma che evidentemente era in grado comunque di guidarmi, mi conduceva a riprendere in mano il ricettacolo delle tue memorie… una voce interiore mi suggeriva, proprio perché ti amavo con tutto me stesso, di leggere ancora… perché dovevo sapere, per capire, per capirti… per proteggere, dentro di me, la tua anima dilaniata, per stringerla a me, coccolarla, farla sentire al sicuro…
Andai un po’ indietro nelle pagine; non c’era molto prima, avevi cominciato a scrivere il diario ad undici anni. Ma compresi la miseria nella quale quegli schifosi che ti hanno messo al mondo ti avevano costretto a vivere; tuo padre ti picchiava, da sempre… tua madre, succube e senza spina dorsale, lasciava fare, lasciava che il mondo le scorresse addosso e neanche l’amore nei confronti di un figlio la convinceva a rivedere il suo atteggiamento nei confronti della vita stessa.
14 aprile; ritornai alla data fatidica, quella in cui l’infelicità precipitava inesorabilmente nell’incubo dal quale non ti saresti più risvegliato. Non scrivevi più regolarmente, non c’era più spazio per gli intermezzi gioiosi che nonostante tutto riuscivi a ritagliare nelle tue giornate; io so che ancora, dopo quell’orribile data, ti perdevi nelle campagne a parlare con uccelli e piante, ma quanto più tristi dovevano essere quelle conversazioni e quanto diventavano troppo pregnanti gli orrori che ti impedivano di concentrarti sui ricordi più belli, sui tuoi istanti preziosi quando, terribilmente solo, dopo aver subito i più nefandi tra i crimini, ti sedevi qui, a questo tavolo, bagnando le pagine con le tue lacrime, riempiendo le righe di ciò che i singhiozzi non sapevano esprimere.

16 aprile 2005
Voglio morire! Non voglio andarmene, non voglio fuggire, non basterebbe.
Voglio semplicemente morire, scomparire dal mondo.
Mi fa male, sto male e ho paura.
Papà mi ha trascinato in camera sua; mamma non c’era, l’ho chiamata, ho supplicato che tornasse ma lei non tornava e papà mi ha fatto una cosa terribile, non posso sopportarne il ricordo… ho perso tanto sangue, ho fatto una doccia ma mi sento ancora sporco, impregnato di… di quella cosa disgustosa… e del mio sangue…
Voleva punirmi per qualcosa? Eppure stavolta non ho fatto nulla di male… quando mi picchiava immaginavo cosa poteva avergli dato fastidio, ma oggi non sembrava neanche arrabbiato… prima…
Io stavo facendo i compiti; lui era seduto sulla sua poltrona e beveva… beveva tanto, come al solito. Non lo vedevo perché me ne stavo chiuso in camera mia, ma lo sapevo cosa faceva, faceva sempre quello; eppure prima, quando sono tornato da scuola, mi ha persino salutato. Di solito non mi guarda nemmeno o trova una qualunque scusa per sgridarmi… invece oggi mi ha salutato, dicendo che la mamma non c’era… e ha sorriso… ma quel sorriso mi faceva paura e avevo ragione, non era un sorriso buono. Ma per cosa mi voleva punire? Forse sono nato male, forse sono sbagliato in tutto… non riesco più a scrivere… sto male e non so cosa fare…


Le mie lacrime non si fermavano più; forse mai fino a quel momento eravamo stati tutt'uno in tal modo, io ero in te, tu eri in me, io provavo esattamente quello che tu avevi provato… io colpevole contro di te, vittima insieme a te… voltai pagina… e poi un’altra… l’incubo si ripeteva quasi ogni giorno… un anno era passato… e tu, completamente solo, subivi, tu ti sentivi sporco, tu che invece rendevi questo orrido mondo più bello e puro con la tua sola presenza, tu ti ritenevi il solo colpevole delle mostruosità che ti accadevano… un bambino violentato reagisce sempre così non è vero? Maledetta psicologia spicciola e, al contempo, odiosamente vera!
Un anno impiegasti perché qualche dubbio venisse alla luce, perché ti rendessi conto che, nella tua situazione, forse qualche ingiustizia c’era, che forse non meritavi proprio tutto quello che ti accadeva… un anno per provare a chiedere aiuto… eri cresciuto cucciolo… scrivevi in modo più maturo ma non meno straziante.

2 maggio 2006
Mia madre era affettuosa in questi giorni… Mia madre non era mai stata così… era come… se volesse chiedermi scusa per qualcosa, come se, con le sue piccole premure, volesse cancellare un particolare che non andava bene… perché lei sapeva… poi l’ho capito.
Mi sono tuttavia aggrappato alla speranza… avevo bisogno di dirlo a qualcuno… chi non ha bisogno della propria madre, chi non vorrebbe poter contare su di lei?
Mi sentivo particolarmente a pezzi quando la mamma rientrò a casa dalla spesa; mio padre era appena uscito dopo… dopo avermi fatto ancora quello che non riesco a dire… era ubriaco ai limiti del tollerabile e diventa più violento e cattivo quando è in quello stato.
Mia madre entrò dalla porta d’ingresso e si diresse subito in cucina, per posare i sacchetti sulla tavola; mi sono avvicinato in punta di piedi e, con tutta la calma che riuscivo a trovare, mi sono messo a darle una mano, ma dentro tremavo, avevo il cuore in gola e sentivo come se dovessi sputare l’anima.
Ho iniziato a parlare… non so come… ho avuto un attimo di terrore perché lei si era fermata, immobile e restava muta, dandomi le spalle. Ho avuto l’orribile sensazione che non le stavo raccontando nulla di nuovo… e ora come ora neanche ricordo le parole che ho usato, forse non voglio ricordare… troppo umiliante è stata per me la sua reazione. Quando ebbi finito ancora non si mosse per un po’, sembrava una statua e io avrei voluto sprofondare; poi la sua voce, come una pugnalata, senza che si voltasse, senza che neanche mi degnasse di uno sguardo, senza una mossa ad accompagnare le gelide, impersonali parole:
“Certo che ne hai di fantasia…”
Stavo soffocando… quella risposta dovevo essermela sognata, in fondo lei non si era mossa… in fondo poteva essere solo la mia paura che, come quel terribile sogno mi suggeriva, trascinava la mia fervida immaginazione in mezzo ad un incubo atroce; lei era così immobile dopotutto, non poteva avere parlato, la mia mente aveva dilatato il tempo e forse era passato solo un attimo da quando io avevo smesso di raccontare. Poi si è voltata, nei suoi occhi grigi e spenti leggevo solo il nulla; ha fatto qualche passo verso di me ma sembrava guardare oltre il mio corpo. Eppure, per un istante, ci ho sperato… ho sperato, accecato dall’illusione partorita dal desiderio, che volesse allungare le sue braccia e stringermi contro il suo petto… la parte ormai morta di me mi diceva che non l’avrebbe fatto, ero consapevole che non l’avrebbe fatto, ma le sue braccia si tesero davvero, si posarono sulle mie spalle, sentii le sue unghie lunghe e curate penetrarmi la carne… e lei continuava a guardare oltre me, il suo sguardo era quello di un cadavere che scruta altri mondi con le orbite morte:
“Non farti venire in mente di raccontare queste idiozie a qualcuno, non oso pensare in che guai potrebbe metterci quella tua testa vuota, non voglio più sentirti parlare di simili perversioni da malato mentale in presenza di qualcuno, né mia, né di nessun altro!”
Ancora quel tono neutro, privo di ogni inclinazione… quel tono e quello sguardo che non dimenticherò per tutta la mia vita…
Domani sarà il primo giorno nella nuova scuola… e io vorrei solo trovare il coraggio di suicidarmi e togliermi finalmente dal mondo.


Anche io avrei voluto morire, quale orribile presagio, quale senso di predestinazione in queste chiazze d’inchiostro tracciate da una calligrafia tanto bella quanto resa più incerta dall’angoscia che sicuramente provavi mentre scrivevi il tuo ennesimo sfogo… tu… solo… con un diario… con pagine bianche mute sulle quali, giorno per giorno, imprimevi la tua solitudine, angelo abbandonato dal mondo intero… a chi altro potrebbe chiedere aiuto un ragazzino che si sente tradito dalla propria madre? Quanta fatica pronunciare questo nome… madre… quell’essere orrido che ora sta di sotto, con il verme suo degno compagno.
Al centro della pagina c’era una chiazza, alcune lettere erano semicancellate e l’inchiostro si era espanso in modo innaturale deformando le parole; una lacrima… lo seppi immediatamente come se ti avessi visto piangerla in quell’esatto momento, come se, l’attimo successivo, avessi visto la tua mano sollevarsi ad asciugare le tracce di pianto che ti annebbiavano la vista ed i sensi.
Tutto questo era accaduto il giorno precedente al nostro primo incontro, quel giorno in cui ti vidi, appoggiato al muro del corridoio scolastico, tu, che sorridevi tenero e timido, a coloro che facevano a gara per conoscerti meglio, tu così gentile con tutti, con quella tua purezza, quel tuo candore che risaltano ancora più abbacinanti ora che conosco proprio ogni cosa di te, ora che, dentro di me, riconosco che invece avresti avuto il diritto di odiare questo mondo e la razza umana che lo abita, tu che l’odio non l’hai mai sentito nascere dentro di te… è un sentimento estraneo anche a queste pagine di diario; in esse non vi è spazio, in mezzo a tutti i sentimenti tormentosi con cui le hai riempite, per quello chiamato odio.
Come hai fatto amore mio? Come hai potuto, nonostante tutto, mantenerti incorrotto? Dove hai trovato una tale forza, quello spirito saldo che ti ha permesso di non corroderti interiormente, in una situazione in cui l’animo di chiunque si sarebbe ritratto in un marcio covo di rifiuto e disprezzo per ogni cosa? L’animo tuo, invece, continuava a vivere per le cose belle della natura, per le farfalle, i fiori, gli uccelli… per la vita alla quale continuavi ad aggrapparti… fino a…
Voltai pagina, una nota stonata in mezzo all’orrore, perché diversa l’atmosfera che vi incontrai; o forse, dovrei dire una nota giusta, in mezzo a cacofonie dall’orrido suono.

3 maggio 2006
Non mi sono ucciso… per fortuna… o non avrei conosciuto tanto affetto… tutte quelle persone strette attorno a me, ma perché? Una parte del mio essere sta ancora più male per questo perché se solo sapessero quanto è putrido il mio animo mi eviterebbero come la peste, penserebbero che non sarei dovuto mai nascere, perché solo chi reca in sé una colpa tanto grande da non avere neanche un nome meriterebbe di essere punito come io lo sono.
Forse è irrazionale quello che dico, forse non ha senso, forse sono solo una vittima, ma mi farebbe meglio sentirmi tale? Non è più confortante credere di aver commesso qualcosa di orribile senza sapere neanche cosa, magari in una precedente vita?
Ma non voglio pensare a questo oggi… ho un altro problema da affrontare: la conferma cocente della mia omosessualità. Fino a ieri vivevo tale realtà come un’ulteriore macchia, forse come la colpa da scontare… oggi mi sembra una cosa bellissima, oggi mi rifiuto di dividere l’umanità in categorie. Non è sempre amore in fondo? E io… mi sono innamorato. L’ho conosciuto poche ore fa, ma un po’ abbiamo parlato e mi è stato sufficiente per comprendere, per sentirlo immediatamente dentro di me, sentire lui discendere nella mia anima a lenire ogni mia ferita, a pulire ogni traccia di putridume, a farmi sentire felice e puro, almeno finché ero al suo fianco…
Mi sono innamorato e lui si chiama Takao.


La mia mano si allungò ad accarezzare la pagina… o il tuo viso… e fui io, questa volta, a lasciare una lacrima… anch’essa rimarrà impressa a vita su quel pezzo di carta?
Anche io mi ero innamorato… anche io ti amo, amore mio… e non me ne sentivo degno, amavo te ed odiavo me stesso con tutta la mia anima.
Scorsi ancora le pagine; le narrazioni senza speranza delle tue giornate in questa casa si diradavano per lasciar spazio… a noi due… sempre più presenti, sempre più esclusiva, per te, l’importanza che il nostro rapporto assumeva.
Ho avuto davvero questo potere? Il potere di cancellare l’orrore che avevi dentro per lasciare spazio a quegli spiragli di luce che intravedevo nelle tue rinnovate parole scritte? Io avrei potuto salvarti e ti ho condotto, invece, all’autodistruzione? Io ho gettato via, con la mia ottusa superficialità, la possibilità che mi si era presentata di restituire le ali ad un angelo smarrito?
Lessi tutto d’un fiato ogni singolo istante della nostra storia… lessi la risposta a tutti i dubbi che mi avevano assalito in questi mesi… tutto in quelle tracce di nero inchiostro… tutti i miei tormenti, il mio egocentrico bisogno di non sentirmi rifiutato… tutto che girava intorno a me, io… io… io… megalomane presuntuoso che non riuscivo a vedere oltre il mio naso e a immaginare che forse il problema non riguardava me e poteva essere rintracciato altrove. Avrei dovuto indagare, dimostrandoti quell’amore nel quale tu credevi, ma che io non ho mai portato realmente a compimento, preferendo crogiolarmi nella mia cecità interiore, quell’amore che avrebbe dovuto essere lo strumento della tua salvezza; non avrei mai dovuto lasciarti solo e invece non sapevo andare oltre l’ignorante egoismo.

20 novembre 2006
Vorrei dirglielo ma, se per questo dovessi perderlo, so che non ne uscirei questa volta, so che per me sarebbe la fine.
E allora preferisco proteggere me stesso, almeno per una volta… mi perdonerebbe se sapesse questo? Se sapesse che sono così egoista da non riuscire ad essere sincero con lui perché temerei, in tal modo, di smarrire un altro tassello della mia anima?
Egoista… mi sento tale… Takao non lo merita… spero che potrà perdonarmi se, un giorno, dovesse venirlo a sapere.


Mi ritrovai a terra singhiozzante.
Perdonarti per cosa amore mio? Avevi ragione, non eri tu l’egoista; perché dovevi sentirti in colpa anche per questo quando poi io ho dimostrato solo la grettezza del mio animo?
Avevi ragione… di fiducia in me ne nutrivi fin troppa ma avresti dovuto proteggere te stesso fino all’ultimo… anche l’altra sera… avresti dovuto aggredire me invece di infierire su te stesso, gettandoti da quello scoglio maledetto… da quello scoglio avresti dovuto gettare me!
Scorsi ancora le pagine, un anno pieno di noi, l’anno della mia vita che più conterà per me, finché esisterò su questa Terra.

25 aprile 2007
Non riesco a concedergli un contatto fisico troppo approfondito; io so che lui se lo aspetta ma non ce la faccio… per me sarebbe come sporcare il nostro rapporto, so che sbaglio a pensare così ma sarebbe come… avvicinarlo… a quello che sono costretto a fare con mio padre…
Fare con lui le stesse cose sarebbe come accostare due esperienze tanto contrapposte e se lo facessimo, anche stare con Takao mi ricorderebbe… ciò che quando sono al suo fianco non voglio ricordare.
Lui non può saperlo, non può immaginare e io sono solo un maledetto egoista…


Ancora quella parola che con te non dovrebbe avere nulla a che fare; perché egoista? Perché avevi un ragazzo imbecille che non cercava di comprendere cosa ti stava accadendo? Che non ha provato mai, in alcun modo, a causa del suo carattere di merda, ad entrare maggiormente dentro di te? Questo ti avrebbe reso egoista?
No… l’egoista era quel pezzo di ghiaccio che, quando ormai era troppo tardi, si è messo a leggere il tuo diario singhiozzando come un bambino che compiva i primi passi in un mondo nuovo e minaccioso.
Non riuscivo più ad alzarmi, le gambe tremavano ma le mie mani, come azionate da un astruso meccanismo di muscoli e nervi, agivano di loro spontanea volontà e giravano le pagine, mentre gli occhi seguivano, senza sosta, nonostante il velo di lacrime amare, le righe fitte o men fitte, a seconda del giorno, a seconda di quanto, istante per istante, riuscivi a scrivere e a gettare fuori dal tuo animo confuso… perché non poteva non esserlo… quanto sarei sopravvissuto, io, in una situazione come la tua? Probabilmente avrei ucciso i miei genitori da molto tempo e mi sarei immerso in un’esistenza allo sbando, menefreghista e cattivo col mondo.
E tu ti definivi egoista… quale amara ironia.
La data che più si impresse, indelebile, sulla mia retina, fu l’ultima… anche l’altro giorno tu scrivesti… prima di venire, piangendo, da me… l’altra sera quando, invece di chiederti subito cosa ti fosse successo, mi sono concentrato sui miei istinti brutali…

3 maggio 2007
Sono solo in casa, non capita quasi mai; di solito mio padre, quando non si occupa di me, se ne sta seduto sulla sua poltrona a bere, quindi mi sembra un evento straordinario. Non mi sono mai sentito così al sicuro come adesso qui dentro eppure… ovviamente sono teso, con le orecchie alla porta d’ingresso, perché sicuramente prima o poi lui tornerà… e posso solo sperare che torni prima mia madre… anche se a lei non frega nulla di quello che accade, lui non fa niente alla luce del sole.
Ho appena fatto un balzo sulla sedia… la porta si è aperta, sento gente giù nel soggiorno, sento parlare…
Sono andato a dare un’occhiata, senza farmi vedere… c’è papà giù, con altre persone, non le ho contate, almeno quattro… gli stavano dando dei soldi… per cosa? Stanno salendo le scale adesso… ho paura…


L’ultima parola… paura… te ne sei andato da questo mondo provando un terrore che solo tu potevi comprendere appieno… ma io lo so, so cos’è successo dopo. Non sta scritto da nessuna parte e si tratta di una cosa inconcepibile, anche solo da pensare… eppure lo so, come se in quello stesso istante tu fossi lì al mio fianco, a sussurrarmelo nell’orecchio… forse eri davvero lì, perché negarlo? E ciò che immaginai, le scene che vidi scorrere davanti ai miei occhi, come se vi stessi assistendo in quegli esatti istanti, erano vivide, orribili… credo che se incrociassi per strada tutte le persone che quel giorno ti fecero del male, le saprei individuare… perché le ho viste, anche se solo dentro di me… e le ucciderei forse? Non lo so, tu non vorresti… ma devono pagarla…
Mi alzai da terra, come un automa, non prima di aver infilato il diario nella tasca interna della giacca e, credendo di attraversare un incubo, in una dimensione sospesa che non riconoscevo, imboccai a ritroso il tragitto che mi aveva condotto fino alla tua stanza.
Non oso neanche immaginare cosa potessi avere dipinto sul volto in quegli istanti, non lo so quale ritratto di orrore e ferocia trasmettessero i miei lineamenti ma posso farmene un’idea se ripenso alle espressioni delle due persone che incrociai mentre scendevo le scale, quell’uomo che non oso definire tuo padre, insieme alla sua degna compagna che non so con quale diritto potesse ritenersi tua madre o solo reputarsi lontanamente degna di forgiarsi con il sacro nome che rende le donne creature meravigliose.
Loro seppero un attimo prima ciò che avrei fatto l’istante successivo, perché me lo lessero in volto, senza tuttavia poter fare nulla per impedirlo.
“MALEDETTO FIGLIO DI PUTTANA!”
Io stesso non ero responsabile dei miei atti e delle mie parole, al di fuori di ogni controllo della mente; udii l’insulto che gli rivolsi con tutto il fiato che avevo in gola, vidi il mio pugno scagliarsi con furia cieca e colpire il suo volto; il colpo lo fece cadere all’indietro lungo la rampa di scale, per fermarsi solo nei pressi dell’ultimo gradino, in una maschera di sangue vivo a rendere ancora più vomitevole quel viso già di per sé repellente ai miei occhi.
Non morì né svenne e, restando in quella posizione ridicola, mi guardava con gli occhi sbarrati, spiritati, senza capacitarsi dell’accaduto.
La donna si era portata una mano alle labbra, come per soffocare un urlo; neanche lei sfuggì alla mia ira e, se non avessi riacquistato un minimo di lucidità, non sono certo che mi sarei trattenuto dal picchiare anche lei… e a differenza di quell’energumeno del marito, dubito sarebbe sopravvissuta ad un colpo tale.
Invece le puntai un dito al petto, spingendola contro il muro alle sue spalle:
“Osi spaventarti per una cosa del genere, troia? Tu che hai permesso che tuo figlio venisse quotidianamente stuprato tra queste mura, tu che avresti avuto il dovere di proteggerlo e che invece l’hai fatto sentire ancora più sporco e colpevole, tu che alla violenza fisica di quel verme là in fondo” e accompagnai questa parte dell’invettiva indicando l’uomo sdraiato sul pavimento più in basso “hai aggiunto la violenza psicologica più terribile che un figlio possa sopportare?”
Nessuno dei due pronunciò una sola parola mentre seguivano il mio indietreggiare, giù per le scale, mentre scavalcavo con indifferenza assoluta tuo… padre… quanto avrei voluto calpestarlo e ucciderlo io stesso a forza di calci! ma dopo l’atroce errore che avevo già commesso nei tuoi confronti, sapevo che obbedendo ancora ai miei istinti brutali mi sarei abbassato del tutto al loro livello e una parte di me era in grado di avvertirmi di tale pericolo… quella parte di me che desiderava, nonostante tutto, mantenersi integra di fronte a te che, ne ero certo, mi stavi guardando, dovunque ti trovassi… dovunque ti trovi…
Giunsi alla porta e, prima di dare loro le spalle, non rinunciai a pronunciare una maledizione che, lo spero, andrà a buon fine… almeno questo ti è dovuto… la considerazione, il rimorso, ti sono dovuti. Puntai di nuovo il dito, questa volta verso entrambi; la donna sembrava una statua di cera confezionata con pessimo gusto, tanto la sua posizione e il suo atteggiamento restavano immutati, l’uomo si era voltato quel tanto che il dolore gli permetteva e mi guardava, ma anche la sua espressione era come mummificata:
“Ve lo dico io, perché probabilmente siete talmente ottusi che non arrivate a rendervene conto: l’avete ucciso voi… magari non ve ne frega niente, a questo punto dubito che dentro quelle vostre carcasse in decomposizione abbiate qualcosa che somigli ad un sentimento qualunque ma sappiate che siete condannati… sia che per voi conti o meno quello che avete fatto, sia che ne siate del tutto indifferenti, siete dannati in eterno e senza scampo, ve lo prometto, dovessi, io in persona, chiamare a rapporto tutti gli angeli del paradiso e i demoni dell’inferno, perché vi perseguitino in vita e in morte!”
Non mi diedi il tempo di attendere per vedere se avessero risposto qualcosa o se avessero intenzione di muoversi, di darmi un segno della loro effettiva esistenza in questa dimensione; aprii la porta e la sbattei con malagrazia alle mie spalle, mettendomi a correre come un ossesso, finché non mi sono ritrovato qui, di nuovo davanti alla nostra vecchia foto, effige di quello che forse è stato l’unico periodo della tua esistenza nel quale riuscisti a ritagliarti un briciolo di serenità giornaliera… prima che io, il prescelto a donarti questa serenità, io che forse avrei potuto aiutarti a conquistare una stabilità emotiva che non avevi mai conosciuto, ho rovinato tutto.
Rialzo il viso e, come un bambino ancora incapace di reggersi in piedi, mi trascino gattonando fino al punto in cui la foto è scivolata e devo impormi un coraggio estremo per focalizzare nuovamente lo sguardo su noi due, seduti vicini, io con il mio cipiglio che mi ha sempre reso antipatico a molti, tu, sorridente e rassicurante, che hai saputo da subito guardarmi dentro ed andare oltre l’apparenza che davo di me stesso, quasi andando fiero di un cinismo che ostentavo senza possederlo realmente… quanta serenità trasmette quest’immagine, quale terribile tragedia, invece, cela quel tuo volto tenero e buono, una tragedia che nascondevi al mondo, quasi temendo di contaminarlo… perché tu al mondo mostravi solo la parte di te che sapeva sognare e godere delle cose belle, perché queste cose belle non venissero turbate dalla tua tristezza…
Oh, se solo invece a questo mondo che ti adorava tu avessi saputo chiedere aiuto, amore mio, un aiuto che avresti meritato più di chiunque altro!
É così vivo quel tuo sorriso, come se ti vedessi, adesso, davanti a me; il tocco di una piuma, un’ala di farfalla mi sfiora una guancia. Forse sto sognando, ma sento di non essere solo; sei stato con me tutto il tempo vero? Sei ancora al mio fianco per condurmi verso la redenzione.
Tendo una mano e ti sento, non vi è nulla di consistente in questo contatto di cui sono assolutamente certo, è come tastare una nuvola evanescente, prossima ad evaporare… e nonostante questo, ne percepisco la consistenza in maniera vivida, una maniera che mi fa vibrare i frammenti più ameni dell’anima… quei frammenti che, fino a questo momento, in tutti gli attimi di disperazione che hanno preceduto questo istante, se ne sono stati ben nascosti, incapaci di ricordarmi la loro presenza…
E solo il tuo sorriso ci sta riuscendo, il sorriso più bello che tu abbia mai rivolto a me ed al mondo, il sorriso della libertà, della leggerezza che finalmente hai ritrovato.
“Non ti tormentare più… vivi… rendi questo mondo più bello anche per me…”
Le parole sono come la tua carezza… nulla che abbia a che fare con quanto di materialmente consistente possa esistere su questa terra… è voce del vento, dell’universo, delle stelle… la voce della nube che pian piano si sfalda senza tuttavia lasciare il nulla dietro di sé, perché troppo significativo è stato il suo messaggio.
Tendo una mano e sorrido, in un gesto del tutto speculare carezzo anche io la guancia di te… non fantasma… ma angelo… che, finalmente rassicurato, finalmente completamente libero, te ne vai… ormai consapevole di ciò che mi hai lasciato… consapevole di avermi salvato. E scoppio a ridere, rido e rido ancora, non un riso amaro, per quanto trovi paradossale ed ironico il fatto che tu, tanto infelice, tanto ferito e straziato dalla tua esistenza… tu… come sempre ti sei rivelato il più forte e hai dato conforto a me, ancora una volta, come sempre facevi nel corso di questo anno intenso allorché io avessi avuto bisogno di sfogarmi per quelle che, ora lo so, non erano altro che futili scemenze in confronto a ciò che tu, senza mai lamentarti, subivi ogni giorno.
“Basta sensi di colpa… vivi…”
Sì, amore mio… vivrò… portandoti dentro di me e cercandoti in ogni cosa bella che esiste in questo mondo e nell’universo, ti cercherò in una stella nel cielo, nell’innocenza dei bambini e di ogni cucciolo che incontrerò, nel sole e nelle nuvole, nei fiori e nelle farfalle che si rincorrono tra essi, in ogni gesto generoso che vedrò compiere, ti sentirò nelle poesie, nelle canzoni più dolci… nel canto degli uccelli che tu amavi tanto e ai quali ora ti sei avvicinato ancora di più, lo so…
I miei occhi si spostano, ritrovano la nostra vecchia foto… ma la scrutano con spirito nuovo… ti rivedrò in questa foto, ogni giorno, e sarò felice… per rendere felice te… vivrò al meglio finché non mi sarà concesso di raggiungerti, ma non affretterò i tempi, o non ti ritroverò mai… io farò del mio meglio… per trasformarmi in un angelo che possa essere accettato là dove tu ti trovi adesso.
Poso un bacio sul tuo volto, poi riposo la fotografia sul tavolo e, senza voltarmi indietro, esco, per ricominciare a camminare nel mondo, lungo la strada che mi ricondurrà a te.


 
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COMMENTI:
Trovati 2 commenti
andromedashun 04/07/08 20:45
Grazie Nana, sono felice che ti sia piaciuta^*^ Ci tenevo che questi miei bimbi riuscissero ad arrivare^^
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nana483 04/07/08 13:46
Dio è una delle fic piu belle che io abbia mai letto..mentre leggevo avevo le lacrime......anche perchè grazie al tuo modo di scrivere sn riuscita a provare le stesse emozioni e sentimenti dei protagonisti....complimenti!
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